LETTERE DI FIODOR DOSTOEVSKIJ- IL SAGGIATORE, 2020 NOVEMBRE — RECENSIONI : 1. ALESSANDRO ZUCCARI, Ritratti. Il sottosuolo di Dostoevskij si scopre nell’epistolario., AVVENIRE, 9 DICEMBRE 2020 + 2. VALENTINA PARISI, IL MANIFESTO- ALIAS,  DEL 20 DICEMBRE 2021 

 

 

Avvenire

 mercoledì 9 dicembre 2020

 

https://www.avvenire.it/agora/pagine/il-sottosuolo-di-dostoevskij-si-scopre-nellepistolario

 

 

Lettere

 Fëdor Dostoevskij

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Traduttore: Giulia De Florio, Elena Freda Piredda
Curatore: Alice Farina
Editore: Il Saggiatore
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 5 novembre 2020
Pagine: 1357 p., Rilegato
75 EURO, PREZZO PIENO DEL LIBRO RILEGATO

 

 

 

Ritratti. Il sottosuolo di Dostoevskij si scopre nell’epistolario.

Una corposa edizione delle lettere rivela gli aspetti meno evidenti della sua vita e del suo rapporto con la scrittura e l’indagine personale sul senso del destino, fino all’inevitabile Cristo

 

 

Alessandro Zaccuri

 

 

 

Lo scrittore russo Fëdor DostoevskijLo scrittore russo Fëdor Dostoevskij – –

 

 

«Pare che un numero incredibile di lettere vada perduto», scrive nel 1869 da Firenze Fëdor Dostoevskij alla nipote Sof’ja Ivanova. La lamentela può essere circoscritta a una circostanza momentanea, ma ha anche un valore più ampio: fatti salvi alcuni casi eccezionali, l’epistolario è infatti il più lacunoso e incerto fra i generi letterari. Anzi, di per sé non è nemmeno un genere. Una collezione di documenti, piuttosto, principalmente di natura privata e non destinati alla pubblicazione. Eppure, nonostante tutto, è difficile resistere alla tentazione di leggere questa nuova edizione delle Lettere di Dostoevskij  (il Saggiatore, pagine 1.372, euro 75) come «il romanzo di una vita».

La definizione viene dal saggio introduttivo della curatrice Alice Farina, che ha partecipato alla traduzione insieme con Giulia De Florio ed Elena Freda Piredda, a loro volta autrici di una preziosa nota metodologica che aiuta a fare giustizia di molti luoghi comuni.

Il primo e il più diffuso è quello relativo alla «fretta» da cui Dostoevskij sarebbe stato sempre incalzato nella sua attività e dalla quale deriverebbe lo stile concitato, non di rado a limite dell’anacoluto, che caratterizza la sua prosa. Si tratta, in effetti, di un risultato ottenuto attraverso un’incessante rielaborazione del testo, in una direzione che non coincide del tutto con quella in cui si muovono le lettere. Dostoevskij non ama scriverne e rimanda l’impegno fino a quando la missiva non assume proporzioni esorbitanti (è quello che accade con il lungo messaggio inviato nel 1865 all’amico Aleksandr Wrangel dopo anni di silenzio).

 

Nell’epistolario, però, lo scrittore può permettersi di essere veramente istintivo e irruente, tanto da confondersi con questo o quello dei suoi personaggi. Con Razumichin, per esempio, l’amico che in Delitto e castigo cerca di coinvolgere il disperato Raskol’nikov nell’impresa di tradurre alla buona un po’ di romanzi europei da smerciare agli editori russi: un progetto del tutto analogo a quello vagheggiato dal giovane Fëdor in compagnia del fratello Michail ed evocato a più riprese nel tratto iniziale dell’epistolario.

Più tardi, all’epoca del matrimonio con la giovane Anna Snitkina, è la somiglianza con l’Aleksej del Giocatore e con l’Arkadij dell’Adolescente a prevalere, come dimostrano le lettere del 1867, l’anno infernale e febbrile che ispirò a Leonid Cypkin il magnifico romanzo breve Estate a Baden Baden.

Nato nel 1821 e morto non ancora sessantenne nel 1881, già in vita Dostoevskij si ritrova a essere trasformato in personaggio d’invenzione. In un’incompiuta lettera di protesta a una non meglio precisata «rivista straniera», lo scrittore denuncia la mistificazione di cui è rimasto vittima a causa di un romanzaccio che promette di svelare i misteri del Cremlino e nel quale si specula sul suo ritorno dal confino in Siberia. Non per niente, anche all’interno dell’epistolario il decennio più drammatico rimane quello che va dal 1849 al 1859, ossia dall’arresto con l’accusa di cospirazione contro lo zar (la famosa falsa fucilazione è descritta in una lettera di impressionante lucidità) fino alla liberazione e al conseguente ritorno a San Pietroburgo.

Ma l’anno della tragedia è il 1864, quando nell’arco di poche settimane si susseguono le morti della prima moglie Marija e di Michail. È in questo frangente che in Dostoevskij matura la celebre svolta del “sottosuolo”, annunciata in un testo di abissale semplicità, nel quale la contemplazione del cadavere della sposa sembra mettere in dubbio la fede nella risurrezione: «Maša è distesa sul tavolo. Ci rivedremo io e Maša?». Siamo al di fuori del perimetro delle Lettere, è vero, ma non del tutto. L’ultimo testo conosciuto è la minuta del messaggio che Dostoevskij detta, ormai morente, alla moglie Anna, che era stata la sua stenografa:

 

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LA SECONDA MOGLIE ANNA GRIGORIEVNA SNITKINA,  TRA DI LORO 25 ANNI

«Per circa 1/4 d’ora Fëdor Michajlovic è stato totalmente certo di morire; si è confessato e comunicato. […] Ora è cosciente e in forze, ma teme che l’arteria scoppi di nuovo». Un resoconto su di sé, ma riferito in terza persona, come se si trattasse di un altro: di uno dei Karamazov, forse, o dell’«eterno marito» Pavlovia. Di sicuro non del principe Myškin, il protagonista dell’Idiota, al quale anche nelle lettere viene riservato il privilegio di «rappresentare un uomo completamente bello», così come l’«unico uomo positivamente bello» è Cristo. «Tutto il Vangelo di Giovanni – scrive ancora alla nipote Sof’ja – è in questo senso; tutto il miracolo è racchiuso nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello». Rispetto alla classica scelta di lettere allestita da Ettore Lo Gatto nel 1950 (e riproposta nel 2017 da Aragno con il titolo I demoni quotidiani), l’edizione del Saggiatore presenta un corpus più che raddoppiato, dal quale sono rimaste escluse solo le comunicazioni di carattere meramente pratico.

Non per questo è messo a tacere il tumulto delle incombenze e degli assilli, specie economici. Tutto si mescola, nelle lettere di Dostoevskij: le richieste di denaro e le riflessioni sul destino della Russia, le perdite alla roulette e la struttura dei capolavori. «Il romanzo o lo rovino fino in fondo, da vergognarmene (ho già iniziato a farlo) o la spunterò e allora ne verrà fuori qualcosa di buono. Affido la scrittura al caso», dichiara durante la stesura dei Demoni. È un linguaggio da giocatore («Che dire, Anja? L’ho indovinata una decina di volte di seguito, persino lo zéro ho indovinato», confida alla moglie nel 1871, reduce dal tavolo verde), ma anche una dichiarazione di poetica che non contraddice la crescente sicurezza che Dostoevskij nutre rispetto all’importanza della propria opera. Lo si comprende quando, a proposito del discorso in memoria di Puškin pronunciato a Mosca pochi mesi prima di morire, rivendica di aver dato voce a «qualcosa di assolutamente nuovo».

Nell’epistolario ci sono lettere di mirabolante strategia editoriale (un indizio: quando è davvero in difficoltà, Dostoevskij si mette a numerare i paragrafi) e altre di straordinaria lungimiranza teologica, come il piccolo trattato del 1876 su «le pietre e il pane» a commento dell’episodio evangelico delle tentazioni: «Poiché Cristo in Sé e nella Sua Parola ha portato l’ideale della Bellezza, ha deciso che sarebbe stato meglio instillare nelle anime questo ideale; avendolo nell’anima, tutti diventeranno fratelli e, finalmente, lavorando l’uno per l’altro, saranno anche ricchi». Una visione che Dostoevskij sintetizza in modo inappellabile in risposta a una madre che gli chiede consigli per l’educazione del figlio: «Non potete escogitare nulla di meglio di Cristo, credeteci.

IL MANIFESTO- ALIAS,  DEL 20 DICEMBRE 2021 

https://ilmanifesto.it/dostoevskij-noia-e-castigo-la-vita-oltre-la-bile/

ALIAS DOMENICA

Dostoevskij, noia e castigo, la vita oltre la bile

 

 

Memorie russe. Nonostante l’antipatia per la corrispondenza, il suo destino rocambolesco gli dettò romanzeschi resoconti: le «Lettere» di Dostoevskij, in edizione integrata e rinnovata, dal Saggiatore

Una scena da «I demoni» di Fëdor Dostoevskij, regia di Lev Dodin, Malyj Dramaticeskij Teatr, San Pietroburgo, 1991Una scena da «I demoni» di Fëdor Dostoevskij, regia di Lev Dodin, Malyj Dramaticeskij Teatr, San Pietroburgo, 1991

 

 

 

Valentina Parisi

EDIZIONE DEL20.12.2020

PUBBLICATO20.12.2020, 0:13

AGGIORNATO18.12.2020, 15:36

Originate dall’assenza, tutte le lettere hanno in sé qualcosa di irrisolto, proprio perché tentano di sopperire per iscritto all’impossibilità di una comunicazione orale. Consapevoli di questa tensione, non pochi scrittori hanno saputo trasformare l’obbligo sociale della corrispondenza in una parte costitutiva della loro opera, esplorando le potenzialità offerte da una forma espressiva che, di per sé, è sospesa tra ambito privato e pubblico, riflessione e sfogo, introspezione e disvelamento del proprio Io.

Ci sono, tuttavia, anche numerosi esempi di persone che nella stesura della loro corrispondenza hanno visto solo una perdita di tempo indebitamente sottratto al loro lavoro: Fëdor Dostoevskij è tra questi, sebbene autore di un epistolario sterminato che infatti tradisce la sua invincibile avversione per l’atto stesso di scrivere lettere. Lo si comprende leggendo il volume pubblicato di recente dal Saggiatore, Fëdor Dostoevskij Lettere (a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio ed Elena Freda Piredda, pp. 1376, € 75,00) inviate dal romanziere tra il 1832 e il 1881. Attingendo agli archivi di innumerevoli destinatari, questa scelta vastissima integra in misura significativa il corpus già tradotto da Ettore Lo Gatto nel 1950 e riproposto tre anni fa da Nino Aragno con il titolo I demoni quotidiani.

Critico spietato di se stesso, Dostoevskij era disposto ad ammettere il carattere caotico e imperfetto delle proprie lettere: «Non so scriverle e riguardo a me non so scrivere con misura».

D’altra parte, imputava al genere epistolare una sostanziale incapacità di trasmettere «ciò che sarebbe necessario». Del tutto coerente, dunque, il fatto che le pagine più coinvolgenti di questo volume siano quelle in cui Dostoevskij «dimentica» di assolvere ai doveri della corrispondenza e si dispone a rielaborare avvenimenti e personaggi come se lavorasse a un romanzo.

 

 

 

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MARIA ISAEVA, LA PRIMA MOGLIE

 

 

 

Esemplare in questo senso è il minuzioso resoconto risalente all’estate 1856 in cui lo scrittore ricostruisce al barone Aleksandr von Wrangel l’intricatissima situazione in cui si trovava Marija Isaeva, la vedova che di cui era innamorato e che di lì a qualche mese sarebbe diventata sua moglie. Enumerando gli ostacoli che impedivano il loro matrimonio (non ultimo il fatto che la donna sembrava preferirgli «un siberiano di 24 anni»), Dostoevskij trasfigura quelle circostanze dolorosamente private in un intreccio narrativo dove ogni elemento viene attentamente soppesato e nessuna eventualità esclusa.

Al tempo stesso, Marija Isaeva ne esce «forte e indisciplinata», mostrando quella levatura del carattere che sarebbe stata propria delle sue protagoniste più volitive e affascinanti. «Non conosce se stessa, ma io la conosco!» assicura Dostoevskij a von Wrangel quasi stesse parlando di un suo personaggio e, rievocando l’amore contrastato intorno al quale ruotava la sua opera d’esordio, Povera gente, si diceva certo di aver inconsapevolmente predetto il proprio futuro.

Com’è noto, il destino non lesinò all’autore dei Demoni situazioni rocambolesche, perfette per far evolvere i resoconti della sue lettere in veri e propri microracconti. Lo dimostrano le missive inviate da Wiesbaden a Apollinarija Suslova, prototipo della figura di Polina nel Giocatore.

 

 

APOLLINARIJA SUSLOVA

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“Trasaliva quando si faceva il nome di lei, mantenne una corrispondenza segreta con lei, di nascosto dalla giovane moglie, ripetute volte si riferiva a lei nei suoi scritti e fino alla morte portò i ricordi delle sue carezze e delle sue ferite. Egli rimase sempre, nel profondo del suo cuore, fedele alla sua ragazza seducente, crudele, sbagliata e tragica”, scrive Marc Slonim.

Qui Dostoevskij si autorappresenta barricato in una camera d’albergo, nell’impossibilità di saldare il conto dopo l’ennesima perdita alla roulette e in spasmodica attesa che un vaglia di Aleksandr Herzen lo salvi da una situazione tanto incresciosa. Proprio in quei giorni convulsi, nutrendosi esclusivamente di un tè «cattivissimo» e tormentato dal disprezzo dei camerieri tedeschi che gli negavano perfino le candele, Dostoevskij mise a punto la trama di Delitto e castigo.

Europa non amata

Altrettanto romanzesco è lo sfondo al centro della lettera del 23 aprile 1867, anch’essa indirizzata a Suslova. Ancora incredulo per la piega assunta dagli eventi, lo scrittore comunica alla sua ex amante di essersi risposato con la stenografa che l’aveva aiutato a consegnare il Giocatore in soli 24 giornie essere fuggito con lei alla volta di Dresda, onde evitare di finire in carcere per debiti come mister Micawber, il personaggio creato da Charles Dickens cui amava tanto paragonarsi.

Le lettere dall’estero costituiscono un capitolo a sé; qui alla consueta insofferenza per la forma epistolare si aggiunge anche la frustrazione per non essere in grado di fornire quelle vivide impressioni di viaggio che i suoi corrispondenti si aspettavano: «Che strano, scrivo da Roma e non ho scritto neanche una parola su Roma! Ma cosa potrei scriverVi? Dio mio! Si può forse descrivere tutto questo in una lettera?» domanda Dostoevskij all’amico Strachov al termine di una lunghissima epistola focalizzata unicamente sui suoi progetti letterari.

Benché in Europa lo scrittore avesse sperimentato una temporanea liberazione sia dai creditori, sia dalle crisi epilettiche che lo perseguitavano, l’immagine del Vecchio Continente fatica a emergere dai suoi carteggi, sovrastata com’è dal ricordo idealizzato della madrepatria. D’altro canto, anche all’estero Dostoevskij conduceva una esistenza da recluso, pur di non incappare per strada nei suoi connazionali emigrati, cui invariabilmente attribuiva simpatie socialiste e russofobia.

Molto meno contraria di lui al turismo si rivelò la seconda moglie, Anna Grigor’evna, più giovane di ventiquattro anni. «Per lei è una vera e propria occupazione andare a visitare uno sciocco municipio, prendere nota, descriverlo (cosa che fa con i suoi segni stenografici, ha già riempito sette quaderni», confida Dostoevskij a Apollon Majkov, in un tono tra il perplesso e il condiscendente.

Restio ad articolare per lettera le proprie sensazioni, Dostoevskij si limita a notazioni atmosferiche e sfoghi biliosi: Ginevra gli pare «situata nel posto più abominevole di tutta la Svizzera», Firenze «bella ma molto umida», Torino «noiosissima».

Se Dresda ha l’unico vantaggio di essere meno cara di Pietroburgo, Milano gli nega anche quel minimo conforto che gli concede Vevey, il conforto di leggere i giornali russi al caffè. Perfino la ville lumière desta in lui sentimenti contrastanti: «Non mi piace Parigi, sebbene sia di un tremendo splendore. C’è molto da vedere, ma non appena ti guardi intorno, sei preso da una tremenda noia», ammise nel 1863 alla cognata. Solo in un luogo Dostoevskij si sentì a proprio agio, e cioè nell’isolamento che gli garantiva l’antica cittadina di Staraja Russa, dove trascorse lunghi periodi negli ultimi anni di vitae ambientò in parte I fratelli Karamazov.

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UN’IMMAGINE DELLA CITTADINA STARAJA RUSSA

 

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Qui imparò perfino a scrivere lettere o almeno si sottomise più docilmente a questa necessità per riferire di giorno in giorno alla moglie lontana contrattempi e gioie della vita domestica con i figli a lui affidati.

Sovrana impazienza

Dal carteggio con Anna Grigor’evna emerge l’immagine di un uomo meno tormentato e di un marito affettuoso, disposto a versare fiumi di inchiostro per rassicurare l’amata sulla costanza dei suoi sentimenti. Eppure, anche con lei riaffiora, a tratti, quell’impazienza che, un tempo, lo aveva spinto a liquidare un suo corrispondente con questa citazione dal Diario di un pazzo di Gogol’: «Una lettera è una stupidaggine. Le lettere le scrivono i farmacisti».

 

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1 risposta a LETTERE DI FIODOR DOSTOEVSKIJ- IL SAGGIATORE, 2020 NOVEMBRE — RECENSIONI : 1. ALESSANDRO ZUCCARI, Ritratti. Il sottosuolo di Dostoevskij si scopre nell’epistolario., AVVENIRE, 9 DICEMBRE 2020 + 2. VALENTINA PARISI, IL MANIFESTO- ALIAS,  DEL 20 DICEMBRE 2021 

  1. Donatella scrive:

    Grandi personaggi, grandi problemi.

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