CORRIERE.IT / ESTERI — 1 FEBBRAIO 2021
IL RITRATTO
Colpo di stato in Myanmar, Aung San Suu Kyi dalla prigionia al potere e ritorno: chi è la leader birmana
Da icona della libertà, a leader politica anche discussa e criticata, il ritratto della Premio Nobel che ora non serve più ai generali
di Guido Santevecchi
Dal nostro corrispondente
Pechino – Il tempo ha fatto un salto indietro a Myanmar. Aung San Suu Kyi è tornata prigioniera dei militari, come lo fu per quindici anni, fino al 2010 quando finalmente i generali fecero un passo indietro, non per decenza ma per convenienza. I golpisti decisero di condividere il potere dopo che le loro giunte avevano fatto sprofondare il Paese nel sottosviluppo e nell’isolamento. Aprirono i cancelli della villa dove la signora era stata confinata dal 1989 e le permisero di parlare a una popolazione che già la adorava, in quanto figlia di Aung San, l’eroe dell’indipendenza nazionale raggiunta nel 1948.
AUNG SAN
Forse, la sintesi migliore della sua vita, è in una frase della motivazione per il Nobel per la pace che le fu assegnato nel 1991: «Un esempio del potere di chi non ha potere». Guardando al suo viaggio tragico e tormentato, quel giudizio resta valido anche ora che l’icona (scolorita) della libertà ha 75 anni.
VIDEO, 1.24
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Il padre è considerato l’eroe dell’indipendenza della Birmania. Fu assassinato nel 1948, quando ancora non aveva potuto esercitare il potere. La madre è stata ambasciatrice in India negli Anni 60, quando il Paese era già retto da una dittatura militare, nominalmente socialista. Aung San Suu Kyi ha potuto avere una formazione cosmopolita: una prima laurea a New Delhi, la seconda a Oxford, poi un periodo di lavoro al Palazzo di Vetro dell’Onu; di nuovo in Inghilterra dove sposò un professore universitario britannico dal quale ha avuto due figli. Una vita privilegiata, lontana dalla politica e dai giochi di potere. Fino a quando nel 1988 tornò in patria per assistere la madre in fin di vita. Proprio in quei mesi la Birmania chiusa e dimenticata dal mondo fu scossa da una ribellione popolare contro la giunta che con incompetenza e corruzione aveva rovinato il Paese. L’esercito aprì il fuoco facendo una strage. E quella donna esile ed elegante decise di esporsi: «Non posso restare indifferente». Ispirata da Martin Luther King dal Mahatma Gandhi, organizzò un movimento per la democrazia. Lanciò appelli non alla rivolta, ma alla pacificazione, chiese alla gente di rispettare l’ordine e ai generali di riconquistare la fiducia. Non si scagliò mai apertamente contro l’esercito, perché ricordava con orgoglio che era stato fondato dal padre.
I generali non ascoltarono la voce del dialogo e Aung San Suu Kyi nel 1989 fu arrestata. Nel 1991 le fu assegnato il Nobel che non poté andare a ritirare; nel 1999 non accettò la via d’uscita offertale dal regime: il marito era malato di cancro, sul letto di morte a Londra e lei avrebbe potuto essere liberata per andarlo a vedere per l’ultima volta. Un espediente per chiuderla fuori dalla patria, appena ribattezzata ufficialmente Myanmar. Per altri dieci anni lei sopportò con inflessibilità e grazia la condizione di prigioniera politica. Liberandola, per dare una patina di nobiltà alla loro ritirata tattica, i generali le hanno permesso di guidare la Lega nazionale per la democrazia alla vittoria elettorale nel 2015; ma le hanno negato la possibilità di diventare presidentessa, con la scusa che aveva sposato un inglese e i suoi figli hanno mantenuto la cittadinanza britannica. Suu Kyi da allora è rimasta Consigliera di Stato, una sorta di governatrice ombra.
Il colpo di genio dei generali è stato di trasformare l’icona della democrazia in donna politica, costretta a fare i conti con il potere reale. E facendo questi conti, la Consigliera di Stato ha rifiutato di spendere anche una sola parola di solidarietà per i musulmani Rohingya braccati dall’esercito, massacrati, costretti a fuggire all’estero a centinaia di migliaia tra il 2017 e il 2018. Inseguendo la stabilità politica si è prestata a difendere la pulizia etnica davanti alla Corte internazionale dell’Aia. Ha cavalcato il sentimento nazionalista prevalente forse per prendere tempo, per consolidare la situazione ambigua. Mentre nel mondo si sono levate voci che invocavano la revoca del Nobel, i sondaggi di opinione la danno sempre popolarissima tra la maggioranza buddista di Myanmar. Un calcolo, un azzardo non all’altezza di una combattente pacifista che era stata premiata per aver esercitato il «potere di chi non ha potere». Ha coperto i crimini contro i Rohingya, ma quando ha trionfato di nuovo nelle elezioni dello scorso novembre, i generali hanno deciso di riportare indietro il tempo. Non hanno più bisogno di una Premio Nobel per dare credibilità internazionale al loro potere nascosto.
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YANGON ( RANGOON ) LA CAPITALE DEL MYAMMAR
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