Henry Spencer Moore (Castleford, 30 luglio 1898 – Much Hadham, 31 agosto 1986) è stato uno scultore britannico. Figlio di minatore vive la sua infanzia tra i colleghi del padre e impara a guardare e conoscere il carbone, le rocce e le pietre grezze o levigate dall’acqua. Studia arte e al British Museum di Londra, che visita frequentemente, è attratto dalla scultura antica sumera ed egizia.
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https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Moore
Vento dell’Ovest (1928) pietra Portland, 55 Broadway, Londra
Figura distesa, bronzo, 1938– OCBC Centre, Singapore
Figura reclinata, in fibra di vetro, esterno del Fitzwilliam Museum, Cambridge, in 2004
Figura sdraiata–Tate Gallery
la stessa
la stessa
FIGURA INCLINATA, 1939- LEGNO DI OLMO
GRUPPO DI FAMIGLIA, 1950 CA.
STUDIO PER IL GRUPPO DI FAMIGLIA
FUORI DALLA BARCLAY SCHOOL, 2005
STUDIO PER LA SCULTURA, 1944
GRUPPO DI FAMIGLIA, 1944
STUDIO PER IL GRUPPO DI FAMIGLIA, 1944
1945
1948-49
STUDIO
MADRE CON FIGLIO E UNA MELA, ANNI 50
STUDIO, 1940
GRUPPO DI FAMIGLIA, TERRACOTTA, 1944
1944
DUE FIGURE RECLINANTI: POINTS– 1969–1979, Deutschland, Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf, Hofgarten
FIGURA IN PIEDI, BORDO TAGLIATO, 358 cm – 1961
REPUBBLICA DEL 17 GENNAIO 2021
https://www.repubblica.it/robinson/2021/01/17/news/ritratto_di_mio_padre_henry_moore-282745873/
MARY MOORE, LA FIGLIA DELL’ARTISTA
Ritratto di mio padre, Henry Moore
di Chiara Gatti
La passione per l’Italia, il teschio di elefante e il tavolo rotante. La figlia Mary ricorda il più geniale scultore britannico del XX secolo, mentre il Museo del Novecento di Firenze gli dedica una mostra
17 GENNAIO 2021
FIRENZE. Le madri, le famiglie, i corpi distesi come veneri di pietra. Solennità arcaica e linee moderne. Le opere di Henry Moore (1898-1986) sono entrate nell’immaginario collettivo per quella materia levigata, le forme fluide, la perfezione del vuoto. Ma quale sia la genesi del suo lavoro, del suo smussare il marmo fino a renderlo soffice, è meno noto. Lo si capisce dai disegni. Centinaia di carte dove la matita, il carboncino, l’acquerello, indagano freneticamente gli intrecci di una natura aspra, di un mondo minerale. “La solida carnosità di un tronco” diceva e “la dura forza delle ossa” nei crani animali. Come il gigantesco teschio d’elefante che custodiva nel suo studio di Perry Green, nella verde contea dell’Hertfordshire, copiato e ricopiato fino allo stremo in un ciclo di incisioni scavate nel rame come antri oscuri. Si apre su questo colosso bianco il percorso della mostra al Museo del Novecento di Firenze (la prima in partenza dopo il lockdown dei musei), realizzata in collaborazione con la Henry Moore Foundation e curata da Sergio Risaliti, direttore del Novecento, con Sebastiano Barassi, head della Henry Moore Collection. Sotto il titolo Il disegno dello scultore (fino al 18 luglio) scorrono 70 splendidi fogli e una scelta di bronzi, fra esemplari inglesi e pezzi custoditi nelle raccolte fiorentine nate dopo il boom di interesse generato dalla storica mostra del 1972, al Forte di Belvedere. A quasi 50 anni di distanza, Moore torna in Toscana, “terra che amava tantissimo” racconta col sorriso la figlia Mary Moore, impegnata in questi giorni a seguire tutto l’allestimento a distanza; in collegamento dal suo Ipad.
Signora Moore, suo padre era legato a Firenze?
“Considerava la Toscana una seconda casa. Ci arrivò la prima volta nel 1925, da ragazzo, per studiare il gotico e il Rinascimento. Per lui Giotto era uno scultore della forma, dato l’impatto primitivo e monumentale delle sue figure. Poi rimase folgorato da Masaccio e passò ore davanti agli affreschi della Cappella Brancacci. Adorava il Michelangelo dei Prigioni e quell’energia che usciva dalla pietra e che lui assorbì nella sua scultura”.
Una formazione classica in piena avanguardia.
“Fu rivoluzionario, se ci pensa. All’epoca molti movimenti europei rifiutavano la ricerca accademica, come nella Parigi di Picasso, sedotta dalle culture extraeuropee, votata all’arte primitiva, africana, oceanica. I musei etnografici pullulavano di artisti. Mio padre aderì a un gruppo che credeva nella scultura in presa diretta, nell’estrarre la forma dalla materia e fu fantastico in questo”.
Quando tornò in Italia?
“Nel 1954 morì a Forte dei Marmi il suo gallerista Curt Valentin, un ebreo tedesco fuggito in America durante le persecuzioni naziste; aprì uno spazio a New York e lavorò con mio padre e con Marino Marini. Ricordo un volo in piena notte verso l’aeroporto militare di Pisa per i funerali. Fu l’occasione per fermarsi in Versilia”.
E scoprì le cave?
“Ebbe l’incarico dall’Unesco nel 1957 di realizzare una scultura da posizionare davanti alla sede di Parigi. Doveva misurare cinque metri per quattro. Lui scelse un blocco di travertino nelle cave di Henraux. Ma, essendo impossibile da spedire in Inghilterra, decise di lavorarlo sul posto. Tornammo al Forte ogni mese per un anno. E, da allora, sempre”.
Chi conobbe?
“In quel cenacolo di intellettuali, c’erano artisti, editori, musicisti, scrittori. Divenne amico di Eugenio Montale e incontrò Roberto Longhi, Cascella, Carrà, Messina, oltre a Maria Luigia Guaita della Casa d’arte Il Bisonte che aiutò a risollevarsi dopo l’alluvione del 1966. Poi si legò a collezionisti come Roberto e Anna Maria Papi. Furono anni meravigliosi. Ci portava agli Uffizi e all’Accademia. Adorava la scultura di Matteo Civitali e di Giovanni Pisano”.
Si è ispirato a loro per i disegni delle mani?
“Anche. Ma arrivò a copiare le sue, come autoritratti. Quelle degli ultimi anni sono commoventi. Sono mani anziane, piegate dall’artrosi dovuta alla sua professione, fragili e nodose insieme; io vi leggo una dimensione spirituale, un senso di emozione struggente. Ringrazio i curatori per averle messe in mostra”.
Che cosa cercava nel disegno?
“Come in tutto il suo lavoro, bramava la terza dimensione nell’eterno contrasto fra luce e ombra, fra bianco e nero. Disegnava per capire lo spazio, misurarlo, penetrare fra le rocce e le radici, a caccia di cunicoli; come quando da bambino, nello Yorkshire, si avventurava dentro le grotte affascinato dal buio assoluto. Penso gli sia rimasto nel cuore in modo indelebile. Lo ritrovò, da adulto, nelle Carceri di Piranesi”.
È vero che aveva un tavolo rotante?
“Gli consentiva di girare intorno ai modelli e di copiarli da ogni angolo. I suoi occhi e le sue mani erano come uno scanner in 3D. Quello che fece lui con la scultura non lo aveva mai fatto nessuno. La staccò dai muri e la mise al centro di una stanza per dimostrare che bisognava girarle intorno. Quando si rilassava accarezzava fra le dita un piccolo sasso per interiorizzare la sensazione fisica della forma plastica”.
Che bella figura di artista e che magnifiche e misteriose sculture!
Torna la famosa rubrica “Non c’entra niente ma…”
da ” Il Fatto” del 18 gennaio 2o21, pag.6:
“Montreal: successo straordinario per il ristorante cinese onesto:” Da noi non si mangia molto bene”.
” Il nostro cibo non è molto buono”. L’approccio di questo ristorante cinese di Montreal ha conquistato la clientela, come racconta il Guardian. Onestà brutale: si mangia bene ma non benissimo. Se lo dicono da soli e lo scrivono sul menù: “Rispetto al pollo Generale Tao questo piatto non è granché”- si può leggere accanto alla descrizione di un piatto di manzo agrodolce- ” ma comunque non sono un grande fan del cibo cinese cucinato in Canada, sentiti libero di scegliere”. Un’altra pietanza è presentata così: “Non farti trarre in inganno dal nome, questa non è cucina cinese autentica”. E un’altra ancora così. ” Non siamo soddisfatti al 100% del sapore, ma migliorerà presto. Ps.: Siamo sorpresi che ci siano clienti che ordinano ancora questo piatto”. Il culto dell’understatement del ristorante di Feigang Fei ha riscosso un successo inspiegabile: un tweet del menù è diventato virale e il locale è stato preso d’assalto. E il proprietario, che per sette anni aveva mandato avanti questa taverna senza infamia e senza lode, se la ride per l’immeritato successo.