CARA DONATELLA ! — MASSIMO MONTANRI, IL MITO DELLE ORIGINI. BREVE STORIA DEGLI SPAGHETTI AL POMODORO, LATERZA 2019 + IL POST, 21-11-2019 : RECENSIONE E UN CAPITOLO DEL LIBRO –link sotto

 

 

 

 

Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro

 Massimo Montanari

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Editore: Laterza
da
Collana: I Robinson. Letture
Edizione: 2
Anno edizione: 2019
In commercio dal: 3 ottobre 2019
Pagine: 106 p., Brossura

9 euro, prezzo pieno

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Seguendo le tracce del nostro piatto identitario per eccellenza, Massimo Montanari risale a tempi e luoghi distanti, dall’Asia all’America, dall’Africa all’Europa, dalle prime civiltà agricole alle innovazioni medievali, fino a vicende di qualche secolo fa, o dell’altro ieri.

È fuori discussione che la pasta sia un segno identitario dell’Italia a tavola, perfetta immagine di una cultura (non solo gastronomica) che paradossalmente trova nella varietà delle declinazioni locali la sua cifra unificante e distintiva. Centinaia di formati e migliaia di ricette, realizzate con prodotti diversi e con diverse procedure, sono legate a singole città e territori rurali, che in quelle preparazioni riconoscono storie, tradizioni, gusti diversi, disseminando nel paese in modo capillare una cultura del cibo che non ha pari al mondo quanto a varietà e imprevedibilità. Ciascuna forma, ciascuna preparazione ha la sua storia, racconta esperienze e gusti particolari, legami più o meno forti con le produzioni locali o con le offerte del mercato. Questa incredibile varietà di forme e di sapori, che l’industria alimentare tende a restringere – non potendo rappresentarli tutti – ma non ha alcun interesse a cancellare, si riconduce tuttavia a una parola e a una sostanza, la pasta, divenuta ormai da tempo l’icona della cucina italiana.

Icone nell’icona, alcune ricette e alcuni formati si sono fatti spazio fra gli altri, imponendosi come simboli primari della cucina nazionale. Gli spaghetti al pomodoro, possibilmente conditi col formaggio parmigiano, sono il segno identitario per eccellenza.

Così almeno è percepito da fuori – e sappiamo che le identità, prima ancora di diventare il collante ‘interno’ di una comunità, si nutrono di prospettive esterne, che necessariamente semplificano e riducono, come quando in una fotografia si passa dallo zoom al grandangolo, occultando i particolari dell’insieme. «Visto da uno straniero disinformato», hanno scritto Odile Redon e Bruno Laurioux, il primo piatto italiano «non è che un piatto di spaghetti con la salsa al pomodoro e il parmigiano grattugiato».

Ragioniamo allora su questo piatto, sulle cui origini è ovviamente lecito interrogarsi. La curiosità è il motore di ogni scoperta. Ma altrettanto lecito è dire, fin da subito e seguendo l’avvertimento di Marc Bloch, che non tanto ci interessa sapere (se mai fosse possibile) chi per primo ebbe l’idea di prepararlo, o chi per primo lo assaggiò, quanto interrogarci sulle «condizioni ambientali», i luoghi, i percorsi che consentirono di ‘allevare’ l’idea portandola a tale fortuna da diventare, oggi, segno identitario di una cucina e di una cultura.

Lo storico dovrà dunque stabilire rapporti e cronologie, individuare cause ed effetti, rilevare, fra le opposte idee di destino e di caso, quella ben più efficace della circostanza e dell’occasione – il kairós dei Greci – ossia la volontà e la capacità di cogliere una circostanza e di metterla a profitto per costruire qualcosa di utile. Per fare questo dovremo muoverci indietro e avanti nel tempo.

Indietro, per trovare le ‘radici’ che rendono possibile l’esistenza di questo piatto (radici al plurale, giacché una ricetta è realtà complessa, che richiede l’interazione fra semi diversi, ghiande di varia provenienza). Avanti, alla ricerca delle ragioni ambientali che a un certo punto giustificano il successo, l’innesto di questo piatto nella tradizione italiana.

Proporrò dunque una sorta di decostruzione storica del piatto, alla caccia dei suoi elementi costitutivi – gli ingredienti che lo compongono, le tecniche con cui essi vengono preparati, assemblati, trasformati. Ma non solo. Oltre ai prodotti-base e ai procedimenti attraverso i quali essi prendono forma saranno le modalità d’uso a richiamare la nostra attenzione, giacché ogni cucina si configura come un sistema, all’interno del quale ogni elemento occupa un posto preciso – come una parola in una frase – e assume un senso specifico. La logica e la ‘grammatica’ del sistema saranno, quindi, altrettanto importanti da mettere a fuoco, per valutare il ruolo (oltre che le caratteristiche) del nostro piatto.

Ma innanzitutto, quali elementi scegliere? Giacché la varietà che caratterizza la cucina italiana – mai, per sua fortuna, codificata o ridotta a modelli omogenei e conformi – si ritrova in ogni ricetta, suscettibile di infinite varianti negli usi locali, sociali, generazionali. Quante varianti esisteranno degli spaghetti al pomodoro che abbiamo deciso di analizzare? Scegliamo dunque un minimo denominatore comune, uno standard che possa andar bene, se non a tutti, a molti. Elementi base saranno, come ovvio, gli spaghetti e la salsa di pomodoro. Lo sarà anche il parmigiano grattugiato – scelta meno ovvia, ma altrettanto importante nella percezione collettiva (Redon e Laurioux ce lo hanno appena mostrato, e l’analisi storica ce lo confermerà).

Aggiungiamo l’olio d’oliva, chiamandolo semplicemente così, senza l’extra e senza il vergine, denominazioni che solo oggi hanno acquisito un preciso significato merceologico e commerciale. Aggiungiamo ancora l’aglio e/o la cipolla (scegliere fra l’uno e l’altra, o tenerli insieme, sarà solo una questione di gusto). Non ci negheremo una foglia di basilico, ormai luogo comune dell’italianità. Sale. Qui potremmo fermarci, ma una manciata di peperoncino è consigliata nella maggior parte delle ricette.

Massimo Montanari, Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro

 

 

 

 

Massimo Montanari - Wikipedia

Massimo Montanari (Imola, 24 dicembre 1949) è uno storico italiano.

È docente ordinario di Storia medievale presso la Scuola di Lettere e Beni Culturali dell’Università di Bologna[1], dove insegna anche Storia dell’alimentazione e dirige il Master europeo “Storia e cultura dell’alimentazione”. Insegna anche all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.

È ritenuto, a livello internazionale, uno dei maggiori specialisti di storia dell’alimentazione. Ha dedicato le proprie attenzioni di studioso soprattutto a due filoni di ricerca, tra loro strettamente integrati: la storia agraria e la storia dell’alimentazione, intese come vie d’accesso preferenziali per una ricostruzione della società medievale nel suo insieme: strutture economiche e sociali (rapporti di lavoro, di potere, di proprietà), aspetti concreti e materiali della vita quotidiana, valori culturali e mentalità. Nell’ambito di tali ricerche hanno avuto speciale risonanza i suoi studi sulla storia dell’alimentazione, intesa come storia a tutto campo che coinvolge i piani dell’economia, delle istituzioni e della cultura.

 

Opere–alcune hanno un titolo divertente !

  • Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro (Gius. Laterza & Figli 2019)
  • Mangiare da cristiani. Diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura (Rizzoli 2015)
  • I racconti della tavola. (Laterza 2014)
  • Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola (Laterza 2012)
  • L’identità italiana in cucina (Laterza 2010)
  • Il riposo della Polpetta (Laterza 2009)
  • Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio (Laterza 2008)
  • L’olmo, la quercia, il nido di gazze. Ricordo di Vito Fumagalli (a cura di) (CISAM 2007)
  • Il cibo come cultura (Laterza 2004)
  • Bologna grassa. La costruzione di un mito (a cura di) (CLUEB 2004)
  • Atlante dell’alimentazione e della gastronomia: Risorse, scambi, consumi-Cucine, pasti, convivialità, con Françoise Sabban (a cura di) (UTET 2004)
  • Imola, il comune, le piazze con Tiziana Lazzari (a cura di) (La Mandragora 2003)
  • Storia medievale, con Giuseppe Albertoni, Tiziana Lazzari e Giuliano Milani (Laterza 2002) ISBN 88-420-6540-4
  • Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, (a cura di) (Laterza 2002)
  • Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica. (Atti del convegno di Montalcino, 12-14 dicembre 1997), con Alfio Cortonesi (a cura di) (CLUEB 2001)
  • Per Vito Fumagalli. Terra, uomini, istituzioni medievali, con Augusto Vasina (a cura di)(CLUEB 2000)
  • Storia dell’Emilia-Romagna, con Maurizio Ridolfi e Renato Zangheri (a cura di) (Laterza 1999)
  • La cucina italiana. Storia di una cultura, con Alberto Capatti (Laterza 1999)
  • Storia dell’alimentazione, con Jean-Louis Flandrin (a cura di) (Laterza 1997)
  • Il pentolino magico (Laterza 1995)
  • Il bosco nel Medioevo, con Bruno Andreolli (a cura di) (CLUEB 1995)
  • Contadini di Romagna nel Medioevo (CLUEB 1994)
  • La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa (Laterza 1993)
  • Convivio oggi. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età contemporanea (Laterza 1992)
  • Nuovo convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età moderna (Laterza 1991)
  • Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al Medioevo (Laterza 1989)
  • Alimentazione e cultura nel Medioevo (Laterza 1988)
  • Contadini e città tra «Longobardia» e «Romania» (Salimbeni 1988)
  • Le campagne italiane prima e dopo il mille. Una società in trasformazione, con Bruno Andreolli e Vito Fumagalli (a cura di) (CLUEB 1985)
  • Campagne medievali. Strutture produttive, rapporti di lavoro, sistemi alimentari (Einaudi 1984)
  • L’azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-XI, con Bruno Andreolli (CLUEB 1983)
  • Porci e porcari nel Medioevo. Paesaggio. Economia. Alimentazione. Catalogo della mostra, San Marino di Bentivoglio, con Marina Baruzzi (CLUEB 1981)
  • L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo (Liguori 1979)

 

LINK IL POST — articolo sotto

https://www.ilpost.it/2019/11/21/storia-spaghetti-pomodoro/

 

 

IL POST

  • CULTURA 
  • GIOVEDÌ 21 NOVEMBRE 2019

 

Breve storia degli spaghetti al pomodoro

Lo racconta lo storico Massimo Montanari nel saggio “Il mito delle origini”: qui spiega l’antica accoppiata di pasta e formaggio

 

 (© picture-alliance / lapresse)

 

 

 

Il piatto nazionale italiano – la pasta e in particolare gli spaghetti al pomodoro – non è qualcosa di fatto e finito: la sua storia si perde nei secoli.

La pratica di stendere la pasta arriva dall’antico Medio Oriente, i Greci e i Romani la usavano fresca o secca ma non la consideravano un genere a sé e la friggevano o cuocevano al forno. Ci sono tracce esigue di pasta bollita in età imperiale romana e poi discussioni più consistenti in alcuni testi ebraici del III-IV secolo dopo Cristo, che la chiamavano itrium. Perché l’itrium diventasse la pasta che conosciamo ci vollero le invasioni arabe che la diffusero nel Maghreb e poi in Sicilia, dove nacque una piccola industria di pasta dura ed essiccata che la esportava in Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; fino al Cinquecento, infatti, i “mangiamaccheroni” erano i siciliani e non i napoletani, detti invece “mangiafoglia” perché la loro dieta era a base di carne e cavolo.

Fu solo in seguito alle carestie e al malgoverno spagnolo che, verso il 1630, trovare carne divenne sempre più difficile e la diffusione dell’impastatrice meccanica e del torchio abbassarono il costo della pasta rendendola popolare. Nel frattempo si era già affermato il connubio pasta e formaggio – perché secondo la medicina dell’epoca un cibo umido doveva essere accompagnato a uno secco – ed era nata la forchetta, appositamente per infilzare la pasta bollente e vischiosa, difficile da prendere con le mani. Tutto questo e molto altro – per esempio che la pasta venisse fatta bollire per ore e che la salsa di pomodoro fu importata dalla Spagna – viene raccontato in Il mito delle origini – Breve storia degli spaghetti al pomodoro, un saggio di Massimo Montanari appena pubblicato da Laterza.

Montanari è tra gli studiosi di storia dell’alimentazione più importanti al mondo, insegna Storia medievale e Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove dirige il master Storia e cultura dell’alimentazione, e insegna anche all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Ha pubblicato numerosi libri che raccontano l’evoluzione del gusto, dei metodi di cottura e dei piatti; con Laterza sono usciti per esempio Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavolaL’identità italiana in cucinaIl formaggio con le pere. La storia in un proverbioIl riposo della Polpetta.

Di seguito un capitolo di Il mito delle origini, quello che racconta come la nascita della pasta abbia contribuito al successo del formaggio, in particolare il parmigiano – o piacentino, lodigiano, milanese, tutti nuovi tipi di formaggi vaccini nati tra il XII e il XIII secolo nelle città e campagne della Pianura Padana.

***

La storia della pasta è legata a filo doppio alla storia del formaggio – soprattutto il formaggio stagionato, la cui natura ‘secca’, in perfetta osservanza delle regole dietetiche, era ritenuta ideale per equilibrare la natura ‘umida’ della compagna, grattugiandolo fine (o sfilacciandolo in fettucce) per favorirne il rimescolamento con la pasta ancora bollente. Benedetto Reguardati, il medico di Norcia che abbiamo visto attento ai ferculis de pasta come nuova categoria alimentare, inserisce le sue considerazioni proprio nel capitolo sul formaggio (de caseo): «Per i cibi di umore viscoso il formaggio è adattissimo, e propriamente si mangia con maccheroni, lasagne e [altri] piatti di pasta». Gli fa eco il trecentesco Liber de coquina: «È da sapere che nelle lasagne e nei corzetti [cerchi di pasta ritagliati dalla sfoglia] bisogna porre una gran quantità di formaggio grattugiato»: debet poni magna quantitas casei gratati.

Ma quale formaggio? Manuali di dietetica e libri di cucina lasciano aperta la scelta, rispettando gusti e abitudini. Poteva trattarsi di formaggi tradizionali come il cacio pecorino, o di prodotti innovativi come quelli che cominciarono a diffondersi nei secoli centrali del Medioevo, in parallelo con lo sviluppo degli allevamenti bovini. Uno fra tutti fu particolarmente raccomandato: il parmigiano – o piacentino, o lodigiano, o milanese, come furono chiamati i diversi tipi di ‘grana’ che si potevano acquistare nelle città padane. Il parmigiano e i suoi fratelli nacquero proprio in quel periodo, tra il XII e il XIII secolo, nelle grandi aziende – spesso proprietà dei monaci cistercensi – in cui si erano avviate nuove sperimentazioni zootecniche e in cui capitavano, transumando con le loro bestie, pastori delle vicine prealpi: a fianco delle consolidate pratiche di pastorizia ovina (e di allevamento brado dei maiali) si promossero nuovi allevamenti stabulari e si puntò sui bovini – fino ad allora utilizzati quasi esclusivamente come animali da tiro – per la produzione di carne e di latte. A questa innovazione produttiva corrispose la comparsa sul mercato di formaggi vaccini che a poco a poco si affiancarono ai pecorini.

A metà del Quattrocento, l’umanista Platina osserva che sono ormai due le varietà di formaggio che «in Italia si contendono il primato»: il marzolino toscano [pecorino] e il parmigiano delle regioni cisalpine. Lo ribadisce nel 1471 la Summa lacticiniorum di Pantaleone da Confienza – il più antico trattato europeo sui latticini – indicando il fiorentino o marzolino e il piacentino o parmigiano quali formaggi italiani di maggior pregio (aggiungendovi, come terzo, le robiole delle Langhe). Grazie alla loro reputazione, i nuovi prodotti si affermarono anche negli usi alimentari delle classi alte, fino a quel momento sospettose nei confronti del formaggio, la cui immagine era tradizionalmente legata alla dieta povera dei pastori e dei contadini. Ma non era solo una questione di qualità. Decisivo, in questa affermazione, fu il posto che i formaggi stagionati andarono a occupare nel sistema gastronomico – una struttura coerente all’interno della quale ogni prodotto, ogni ingrediente occupa un ruolo e assume un senso. Nell’analisi storica non è particolarmente utile concentrarsi sulle vicende di uno specifico prodotto: solo il contesto, solo le «associazioni alimentari» – felice espressione di Fernand Braudel – ci permettono di inquadrare storicamente quelle vicende, altrimenti destinate a sconfinare nell’astratto. La fortuna del ‘grana’ in tutte le sue declinazioni – e più in generale la fortuna dei formaggi a pasta dura – fu l’abbinamento con la pasta, che funzionava sul piano gustativo così come nella riflessione dietetica. Ecco perché la storia dei due prodotti ha viaggiato per secoli di pari passo. Le testimonianze dei libri di cucina e della letteratura si riferiscono sempre al formaggio (preferibilmente parmigiano) come ideale condimento della pasta. Numquam vidi hominem, qui ita libenter lagana cum caseo comederet sicut ipse, ovvero: «Mai vidi uomo che mangiasse le lasagne col formaggio così volentieri come costui». Questa immagine di frate Giovanni da Ravenna, schizzata nel XIII secolo dal francescano Salimbene da Parma, è quasi l’archetipo di una scelta gastronomica di straordinaria e duratura fortuna. Il cacio sui maccheroni entrò subito in proverbio – e mai più ne è uscito – a indicare il connubio ideale, la perfetta realizzazione di un’impresa, mentre maccaron sanza cascio diventava la metafora dell’imperfezione – utilizzata già nel Cinquecento da Pietro Aretino, che la accosta a mancanze altrettanto drammatiche quali una cocina senza cuoco o il mangiar senza bere.

Viceversa, il formaggio grattugiato non aspetta che la pasta. A metà del Trecento è una celebre novella del Decameron a portarci – assieme all’ingenuo Calandrino – nella favolosa contrada di Bengodi, dove il cibo è assicurato a tutti, in abbondanza e senza fatica alcuna: giusto al centro di quel paese «eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la qual stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva». Bengodi è il fantastico paese di Cuccagna, che a iniziare dal Medioevo compare nelle utopie letterarie di mezza Europa. La montagna di parmigiano su cui rotolano maccheroni e ravioli ne è la variante tipicamente italiana, inaugurata da Boccaccio, proseguita per secoli in letteratura e a un certo punto raffigurata in stampe e disegni. In età moderna i maccheroni saranno ormai altra cosa da come li intendeva Boccaccio, che certamente pensava a una cascata di gnocchi (secondo il più antico significato del termine, che fa funzionare al meglio l’immagine dei maccheroni in caduta libera lungo le pendici della montagna). Non cambierà il condimento, attestato ormai come segno dell’identità culinaria italiana.

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1 risposta a CARA DONATELLA ! — MASSIMO MONTANRI, IL MITO DELLE ORIGINI. BREVE STORIA DEGLI SPAGHETTI AL POMODORO, LATERZA 2019 + IL POST, 21-11-2019 : RECENSIONE E UN CAPITOLO DEL LIBRO –link sotto

  1. Donatella scrive:

    La pasta, il burro, il parmigiano e per ultimo il pomodoro: entusiasmante conoscere la storia di quello che fa parte addirittura della nostra dieta.

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