DARIO FABBRI, La vittoria di Biden: molta realtà, un po’ di sogno. Ha ha saputo leggere il momento geopolitico del cuore del paese e proporgli un discorso concreto. Con una dose di incantamento. -LIMES ONLINE  DI DOMENICA 8 NOVEMBRE 2020- — ricordavo questo autore più chiaro, peccato

 

LIMES ONLINE  DI DOMENICA 8 NOVEMBRE 2020

https://www.limesonline.com/usa-joe-biden-presidente-vince-elezioni-2020-trump-impero/120840?prv=true

La vittoria di Biden: molta realtà, un po’ di sogno

 

MONACA, PA - NOVEMBER 02: Democratic presidential nominee Joe Biden speaks at a campaign stop at Community College of Beaver County on November 02, 2020 in Monaca, Pennsylvania. One day before the election, Biden is campaigning in Pennsylvania, a key battleground state that President Donald Trump won narrowly in 2016. (Photo by Drew Angerer/Getty Images)

Joe Biden. Foto di Drew Angerer/Getty Images.

 8/11/2020

Il prossimo presidente degli Stati Uniti ha prevalso su Donald Trump perché ha saputo leggere il momento geopolitico del cuore del paese e proporgli un discorso concreto. Con una dose di incantamento.

di Dario Fabbri

Joe Biden ha conquistato la Casa Bianca con due dosi di realismo e una di incantamento.

Nel rivolgersi alla dominante popolazione germanica degli Stati Uniti, provata dalle fatiche dell’impero e stanziata anzitutto nel Midwest, s’è mostrato concreto. Non ha annunciato l’abbandono del mondo che ne ha fiaccato l’entusiasmo, né la ricostruzione dell’industria manifatturiera – quanto non si può realizzare. Piuttosto, ha promosso una dialettica riconciliazione con la natura imperiale della nazione, promettendo di restare nell’alveo della ragione, con la guerra guerreggiata come extrema ratio, nel rispetto della grammatica strategica.

 

Quindi s’è offerto di alleviare la sofferenza degli statunitensi medioccidentali attraverso un’estensione dello Stato sociale, impraticabile nella misura immaginata. E una maggiore tassazione per i ricchi delle Coste, assai difficile da approntare verso coloro che ne hanno sostenuto la corsa alla presidenza. Tributo da pagare al sogno, in pieno malessere interno.

Sul piano geopolitico, Biden s’è aggiudicato la contesa sfruttando l’impossibilità per Trump di estinguere l’impero, quanto promesso dal newyorkese quattro anni fa, scommettendo su isolazionismo e protezionismo, ricette strutturalmente inattuabili. Al termine di un’elezione durata più di un mese – in alcuni Stati cominciata via posta agli inizi di ottobre –e tecnicamente non ancora terminata, esibizione delle imbarazzanti falle del sistema elettorale d’Oltreoceano, pensato per non avere rilevanza in un paese costruito per vivere senza politica. Dove si può votare in massa da casa ed è necessario attendere quasi una settimana per conoscere (forse) il vincitore, dove l’esito è stabilito dai media in assenza di un ministero dell’Interno e quest’anno si celebra la partecipazione record del 66% degli aventi diritto, quanto sarebbe giudicato fallimentare in qualsiasi paese europeo.

Abbandonato il Sud al suo destino con il plateale ripudio dell’iconografia confederata (con l’esclusione della Georgia, dove il risultato resta incerto per volontà delle minoranze), forte del garantito sostegno delle Coste mediamente ignare di ciò che accade dentro la nazione, Biden s’è concentrato sul decisivo Midwest, regione che incarna il canone generale, teutonico e scandinavo, più sassone e meno britannico.

Come annunciato per tempo da Limes, la gara si è risolta puntualmente tra gli Appalachi e i Grandi Laghi. Rust Belt secondo la classista dizione dei media statunitensi – a proprio agio con la lotta tra ceti laddove questa non ha mai prodotto rivoluzioni ma intimoriti da definizioni di matrice culturale – immediatamente ripresa alle nostre latitudini per inclinazione economicistica, per applicazione di categorie italiche a un contesto altrui.

Mentre i rabdomanti d’Oltreoceano si sbracciavano per individuare gli Stati oscillanti – quasi l’America fosse nazione convenzionale – oltre un anno fa Biden cominciava la campagna elettorale a Pittsburgh, porta del Midwest tedesco, per chiuderla martedì scorso tra Michigan e Pennsylvania.

Perché qui vive la popolazione che si percepisce intestataria delle nazione, alfa e omega di ogni sua impresa. Prostrati dalla belligeranza richiesta per stare sul tetto del pianeta, dalla necessità di custodire un massiccio deficit commerciale per creare dipendenza nei soci dell’impero, i medioccidentali mostrano da tempo i segni della propria fatica, avanzano richieste che ne diminuiscano la sofferenza.

 

Carta di Laura CanaliCarta di Laura Canali

 

Nel 2016 Trump ne colse perfettamente le istanze, conquistando la regione con la promessa di abbandonare il mondo, di riportare i soldati a casa, di rimpatriare le industrie con dazi e tariffe, di impedire l’arrivo di nuovi immigrati, utilizzati per mantenere giovane e violenta la popolazione in vista di prossime guerre. Quanto non si poteva realizzare, come spiegammo allora, per solida struttura dell’impero. Sicché nella retorica quanto proclamato dal presidente s’è verificato – per la confusione degli osservatori –ma nella realtà dal 2016 gli Stati Uniti hanno aumentato il deficit commerciale, hanno incrementato il proprio contingente militare sparso per il mondo (in attesa degli annunciati ritiri da Afghanistan e Germania), hanno accolto quasi tre milioni di nuovi immigrati (soltanto la chiusura delle frontiere per la pandemia ne ha arrestato l’afflusso).

Consapevole che tali incongruenze avrebbero segnato la sorte di Trump al di là dell’economia e del virus, Biden è rimasto sulla terra. Agli abitanti del Midwest non ha caldeggiato ritiri o improvvise introversioni. Nonostante il rivendicato salvataggio dell’industria automobilistica, non ha contemplato scenari di ripresa manifatturiera, né ha garantito di fermare l’immigrazione – specie ispanica.

Gli Stati Uniti resteranno impero, non è immaginabile il contrario, con le asperità e la violenza necessarie ad esserlo – di qui il rifiuto per l’ex senatore del Delaware di accettare coperture sanitarie all’europea o piani ecologici di matrice socialdemocratica. In cambio di una rinnovata partecipazione all’epopea egemonica, ai medioccidentali ha assicurato maggiore inclusione nello Stato sociale, un ampiamento di ciò che fu Obamacare. Affinché la loro ira si stemperi senza scomparire, per poterla rovesciare sul mondo senza che questa conduca il paese all’impasse.

 

Con Trump vittorioso in Ohio, Indiana, Missouri e Iowa, Biden s’è guadagnato la Casa Bianca prevalendo in Minnesota, Illinois, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, ovvero attribuendosi Stati che contano 46,8 milioni di abitanti contro i 22,4 milioni presenti negli Stati conquistati dal presidente uscente, con il territorio di Penn a condurlo formalmente oltre la soglia dei 270 grandi elettori. “Abbiamo vinto dove crollammo quattro anni fa: in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, nel cuore geopolitico (heartland) della nazione”, ha esultato il democratico, palesando la gerarchia elettorale, ve ne fosse ulteriore bisogno. Cui si è aggiunta l’affermazione in Nevada e Arizona: Stati rilevanti perché abitati da una minoranza ispanica parzialmente convertita al mormonismo, dunque già assimilata, fedele al movimento dei Santi degli ultimi giorni, contrario a Trump perché interessato a corroborare la propria influenza attraverso l’immigrazione, favorevole a Biden perché ne condivide l’imperiale penetrazione dell’America Latina – pure se cattolico.

Al netto dei ricorsi giudiziari del magnate newyorkese e dei risicati poteri di cui dispone la Casa Bianca, nei prossimi quattro anni Biden sarà inseguito dalla parziale veridicità dei suoi impegni, alla perenne ricerca di un equilibrio tra i mille fronti aperti nel mondo e la fatica di dentro. Stretto tra la volontà di chiudersi maggiormente al cospetto del virus e la strategica necessità di mantenere aperto il paese per scongiurare che le potenze nemiche profittino del momento.

 

Con il rischio di non poter placare la rabbia dell’America profonda perché mancante della forza per attuare un adeguato programma sociale. Quanto segnerà la dimensione domestica della sua parabola. A metà tra realtà e illusione.

 

Carta di Laura Canali, 2020Carta di Laura Canali, 2020

Questo articolo fa parte di “Usa 2020s”, una serie sulle presidenziali americane in esclusiva su Limesonline: uno sguardo ai fattori (e agli Stati) decisivi nel voto e alle conseguenze delle elezioni sulla traiettoria geopolitica della superpotenza nel prossimo decennio. Tutte le puntate di “Usa 2020s” sono qui.

nel link sotto:

https://www.limesonline.com/tag/usa-2020s

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