+++ ALESSANDRO ARESU: LYNDON BAINES JOHNSON, UNA STORIA TEXANA, BIOGRAFIA DI ROBERT ALLAN CARO –LIMES ONLINE DEL 6 SETTEMBRE 2016 — questo articolo è fatto così bene che è — ” quasi “- come leggere Robert A: Caro…

 

 

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LIMES ONLINE DEL 6 SETTEMBRE 2016

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LYNDON BAINES JOHNSON, UNA STORIA TEXANA

 

circa 1965: American statesman Lyndon Baines Johnson (1908 - 1973), the 36th President of the United States of America, making an address at a podium flanked by two flags. (Photo by Keystone/Getty Images)

[Photo by Keystone/Getty Images]

 

 6/09/2016

La formidabile carriera di uno spregiudicato figlio del Sud, che per guadagnare la Casa Bianca e affermare le sue riforme sociali sviluppò l’arte di corrompere le persone e rubare le elezioni. L’odio profondo per Robert Kennedy. L’ombra lunga dell’eredità paterna.

 

di Alessandro ARESU

 

Pubblicato in: TEXAS, L’AMERICA FUTURA – n°8 – 2016

To Our Beloved Sam Rayburn – Who would have been President

if he had come from any place but the South.

Dedica sull’automobile regalata nel 1946 a Sam Rayburn

dai suoi colleghi del Congresso

 

 

 

1. A Ottant’anni, Robert Allan Caro ha ancora un libro da scrivereil quinto capitolo della sua biografia di Lyndon Baines Johnson.

L’opera di Caro è lunga. Lunghezza dei tempi: la data di nascita della sua squadra di scrittura è il 1957, quando sposa Ina, che diventa la sua aiutante di ricerca nelle imprese biografiche. Lunghezza delle opere: 1.246, 882, 506, 1.167 e 752 pagine.

Caro ha scritto cinque libri: il primo è la biografia di Robert Moses, The Power Broker, tutti gli altri sono dedicati a Lyndon B. Johnson, nel monumento biografico The Years of Lyndon Johnson. Partendo da Moses, demiurgo del vorace sviluppo urbano newyorkese, Caro – anch’egli nativo di New York – si sposta in Texas.

 

2. Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? Dove andarono i muratori, la sera che fu terminata la Grande Muraglia?

Cesare sconfisse i Galli, non aveva nemmeno un cuoco? Ai giurati del premio Pulitzer per la biografia e l’autobiografia non è mai importato granché delle domande di Brecht.

Il premio è andato a lavori su Adams, Kennedy, Kennan, Roosevelt, Martin Luther King, Lindbergh, e su Dio. Caro ha vinto nel 1975 per Moses e nel 2003 per il capolavoro della serie su Johnson, The Master of the Senate.

 

La biografia del potere è un genere letterario americano variante della Great American Novel. Great Nation raccontata attraverso great men, con le loro grandi debolezze. Questa costruzione della religione civile spesso non è affidata ad accademici, ma a storici-scrittori puri, come Doris Kearns Goodwin, lo stesso Robert Caro, Ron Chernow.

L’importanza di questa corrente è stata accentuata dall’ascesa alla Casa Bianca di un professore-intellettuale [1] come Barack Obama, e può essere quindi illustrata attraverso le sue celebrazioni.

Nella primavera del 2008 il senatore dell’Illinois chiamò Goodwin per esprimerle la sua ammirazione per Team of Rivals, il libro (poi adattato in un film mediocre di Spielberg con Daniel Day-Lewis) in cui si descrive la capacità di Lincoln di costruire una squadra sapendo includere i suoi avversari. Goodwin chiama my great guys i presidenti di cui ha scritto. Ha conosciuto Johnson, ha lavorato con lui, ha scritto su di lui, ma proprio la sua familiarità con lui, oltre all’incapacità di fissare l’abisso del potere, rende i suoi scritti meno interessanti di quelli di Caro.

Nel 1983, Obama ha letto (almeno così dice) le 1.246 pagine di The Power Broker, e nel 2010 ha consegnato la National Humanities Medal a Caro.

Ron Chernow ha scritto su Washington, sui Morgan e sui Rockefeller, ma il suo trionfo è arrivato da Broadway, con il musical del 2015 di Lin-Manuel Miranda su Alexander Hamilton ispirato dalla sua biografia. Hamilton ha incarnato, forse in modo ancor più profondo delle serie televisive, l’èra di Obama. Il suo successo ha contribuito a mantenere l’ex segretario al Tesoro sulla banconota da dieci dollari.

Guarda caso Goodwin, Caro, Chernow sono tutti nati a New York. Ma a un certo punto Caro va a vivere in Texas, per rispondere alla chiamata del potere. È infatti il potere, non la grandezza, il motore della scrittura di Caro, che dopo le prime esperienze giornalistiche inizia a lavorare alla sua biografia di Robert Moses a metà degli anni Sessanta. Dopo averla pubblicata, nel 1974, inizia a immergersi in Lyndon Johnson.

 

3. Caro ha passato la sua vita a scrivere gli anni di Lyndon Johnson perché attraverso il presidente della Great Society vuole costruire un affresco più ampio sul potere, sulla sua capacità di rivelare l’essenziale delle persone e delle epoche storiche.

Un affresco radicalmente alternativo rispetto al rassicurante mito dei Kennedy plasmato da Schlesinger e Sorensen.

Nei volumi di Caro emergono sempre altri personaggi, che mettono in luce le caratteristiche e le contraddizioni di Johnson e costituiscono un più ampio ritratto degli Stati Uniti e in particolare del Texas. Nel primo volume, The Path to Power, questo ruolo è svolto da due Sam, Sam Johnson e il leggendario Sam Rayburn, i due politici texani che hanno più influenzato il futuro presidente, nel bene e nel male.

Means of Ascent contiene invece un’analisi dell’elezione del Senato che Johnson rubò nel 1948, con la testimonianza di Luis «Indio» Salas, giudice elettorale di Jim Wells County. The Master of the Senate si apre con una biografia del Senato degli Stati Uniti, l’istituzione che Johnson seppe conquistare e plasmare, grazie al suo incontro con Richard Russell.

The Passage of Power è dominato dall’odio feroce che legava Johnson e Robert Kennedy.

La vicenda di Johnson è quindi il mosaico di quelle storie, fino allo scontro esistenziale del mondo texano con il privilegio simboleggiato dai Kennedy.

Infatti, il primo volume dell’opera è anche una descrizione del Texas del primo Novecento, la terra che «gli uomini amavano ma le donne, comprese le pioniere, odiavano» (Fehrenbach) e di quell’ambiente rurale di cui Sam Johnson, padre di Lyndon, fu allo stesso tempo campione politico e vittima.

Il Texas dove crebbe il futuro presidente, nato nel 1908, era un mondo separato rispetto all’America degli anni Venti. L’età della radio, dei film, del golf e dei balli era lontana anni luce da Hill Country e Johnson City, dove crebbe Johnson.

Scrive Caro: «L’America stava cambiando negli anni Venti, cambiava a una velocità furiosa ed eccitante. Anche buona parte del Texas, seppur isolato dal resto del paese, stava cambiando, con il boom petrolifero di Beaumont e le industrie nate dalla guerra che si erano riconvertite, rendendo Houston, Dallas e perfino Austin delle città ad alta crescita. Ma ben poca di questa eccitazione riuscì a penetrare le colline di Hill Country» [2].

 

In questo contesto l’esperienza fondamentale della vita di Lyndon Johnson fu il fallimento di suo padre. Un fallimento politico ed esistenziale.

Sam Johnson, politico apprezzato nell’assemblea statuale del Texas, dove servì per dieci anni come democratico populista, nei ruggenti anni Venti perse la sua battaglia come imprenditore agricolo, schiacciato dai debiti, per inseguire il sogno del prestigio del ranch di famiglia. Se Obama ha affrontato i sogni di suo padre, Johnson ha vissuto i suoi incubi, in modo ossessivo. La sua vocazione politica fu un tentativo continuo di distinguersi dal padre, di uccidere il suo idealismo che non gli aveva portato un successo personale. Ai suoi amici adolescenti Lyndon diceva solo due frasi: «Ci vediamo a Washington», «Un giorno sarò presidente». Faceva a botte con chi non lo prendeva sul serio. «La gente diceva che il padre, Sam, amava argomentare, mentre al figlio importava vincere, voleva vincere. Sam voleva discutere, Lyndon voleva dominare».

Sam Johnson venne eletto per la prima volta all’assemblea texana a ventotto anni, nel 1905. Nel 1937, alla stessa età, il figlio fu eletto al Congresso degli Stati Uniti in un’elezione speciale del decimo distretto del Texas, a seguito della morte improvvisa di James Buchanan. Fu proprio Sam Johnson a consigliare al figlio di annunciare al più presto la sua candidatura, in modo da dissuadere la vedova Buchanan («è vecchia, troppo vecchia per una battaglia») a entrare nella competizione, per poi redarguirlo: «Non imparerai mai nulla di politica». Nelle lettere di congratulazioni per la sua elezione, i texani menzionarono spesso il padre, ma Lyndon – mentre rispose con prontezza a tutte le altre congratulazioni – ritardò la risposta proprio a quelle lettere, sempre ossessionato dal fallimento del padre. Sulla soglia del treno che l’avrebbe portato a Washington da vincitore, Lyndon Johnson salutò i suoi genitori. Mentre la madre riuscì a camminare con lui fino alla fine, il padre era troppo malato per raggiungerlo. Lyndon, come a indicare la sua separazione, salì sul treno prima che il padre potesse raggiungerlo ma Sam, con un ultimo sforzo, riuscì a salire per salutarlo. In quel momento il figlio si chinò verso il padre e i due si diedero un bacio.

 

Lyndon avrebbe rivisto suo padre, la cui salute era ormai compromessa, nel settembre 1937: recalcitrante, lo riportò dall’ospedale a Johnson City. Sam Johnson voleva morire in casa, e la morte arrivò poco dopo, il 23 ottobre 1937. I politici più importanti del Texas avevano sempre sentito dire da Lyndon che suo padre era un fallito, ma si sorpresero quando al funerale di Sam arrivarono anziani da tutto il Texas. Era «la gente» per cui Johnson padre aveva combattuto durante quell’esperienza politica che il figlio aveva sempre giudicato un fallimento. Uno di loro, R. Bouna Ridgway, viveva a Dallas. Non appena appreso della morte di Johnson il giorno prima, aveva guidato per 300 miglia tutta la notte, per essere presente al funerale di un uomo che non vedeva da anni.

 

Secondo Lyndon, l’eredità di suo padre consisteva in due cose: primo, l’eredità negativa dell’inutilità dell’idealismo in politica; secondo, la conferma della predisposizione familiare per gli attacchi di cuore.

La morte del padre era la consapevolezza che anche lui sarebbe morto giovane, e che la sua corsa verso il vertice del potere doveva accelerare. L’ascesa politica per criteri tradizionali di anzianità non gli bastava. Tutto sarebbe giunto troppo tardi. Il tempo gli sfuggiva di mano. Ma nel mentre aveva conosciuto il secondo Sam, Rayburn.

 

Johnson aveva iniziato a frequentare Washington in un anno decisivo, il 1931, come assistente di Richard Kleberg del quattordicesimo distretto congressuale. Johnson arrivò in una Washington che aveva al suo centro il potere texano. Il catalogo è questo: Joseph Jefferson Mansfield, presidente del Rivers and Harbors Committee; Hatton W. Sumners, presidente del Judiciary Committee, Marvin Jones, presidente dell’Agriculture Committee, Fritz Lanham, presidente del Committee on Public Buildings and Grounds. Tutti texani, come Sam Rayburn, alla guida del Committee on Interstate and Foreign Commerce, e come Jack Garner, futuro vicepresidente di Roosevelt, eletto speaker della Camera dei Rappresentanti con la nuova maggioranza democratica.

Caro riassume: «Il primo giorno di Lyndon Johnson nella capitale fu il giorno in cui il Texas prese il potere, un potere che lo Stato avrebbe mantenuto, a parte brevi interruzioni, per più di trent’anni».

 

Rayburn era figlio di un veterano confederato che non dimenticò mai Appomattox. Combatteva i repubblicani nelle istituzioni fissando le tante foto del suo ufficio, che ritraevano un solo soggetto: il generale Robert Lee. Suo padre, dopo aver combattuto, fece il contadino, e quando Sam lasciò i campi per studiare gli diede la sua benedizione, anche se sarebbe stato difficile andare avanti senza un paio di giovani braccia, dato che due dei suoi otto figli avevano lasciato la fattoria. Sam tenne insieme i suoi abiti con una corda, perché non aveva una valigia, e il padre lo accompagnò in stazione. Anche in questo caso, un padre si sporse verso il figlio sulla soglia del treno, e gli mise in mano venticinque dollari. «Sam non dimenticò mai quel momento, e parlò di quei venticinque dollari per il resto della sua vita. “Dio sa come diavolo è riuscito a risparmiarli. Mi ha spezzato il cuore, dandomi quei venticinque dollari. Mi chiedevo come lui e mia madre potessero farcela senza”. E non dimenticò mai le parole che il padre gli disse, tenendogli la mano, mentre saliva sul treno: “Sam, comportati da uomo!”».

Rayburn divenne un uomo delle politiche, ancor più che della politica, un genio silenzioso della legislazione, costruttore del potere del Congresso. Il suo comandamento era: «Lasciate che gli altri si prendano i titoli a effetto. Io prenderò le leggi». Già nel suo secondo anno alla Camera scrisse da solo una misura sulla regolamentazione ferroviaria che raccolse l’ammirazione del grande giurista Louis Brandeis. Fu nel New Deal che Rayburn raggiunse «il potere per realizzare i sogni dei populisti non con i discorsi, ma con il silenzio». Con Roosevelt mise a frutto al meglio il suo talento legislativo e trovò nel presidente il suo nuovo eroe, l’unico eroe in grado di non sfigurare davanti ai confederati: nel suo studio di Washington, decise di affiancare le foto del presidente di New York alle immagini di Lee.

Nella sua eccellente ricostruzione storica del New Deal, Ira Katznelson ha mostrato l’importanza dei democratici del Sud per la tenuta politica del progetto di Roosevelt, con il ruolo di John Garner come «guardiano delle prerogative del Sud contro i sindacati e contro i diritti civili nel secondo mandato di FDR» [3].

Katznelson colloca l’esperimento di Roosevelt nel contesto della fragilità delle democrazie degli anni Trenta: il Sud degli Stati Uniti, nonostante l’onda internazionale dell’autoritarismo, riuscì a restare in un contesto democratico, impedendo agli Stati Uniti di franare. Tuttavia, la paura plasmò l’evoluzione della democrazia sotto Roosevelt tracciando una linea rossa. Roosevelt si trovò in una «trappola sudista»: non potendo passare alcun provvedimento legislativo nel Congresso per via dell’enorme influenza dei democratici del Sud, in particolare in tutti gli anni Quaranta, venne siglato un patto faustiano che escludeva i diritti civili dall’azione progressista e che manteneva la democrazia degli Stati Uniti nella zona d’ombra del razzismo.

Anche per questo Sam Rayburn affiancò le foto di FDR a quelle del suo amato generale Lee: il garante del piccolo proprietario contro gli interessi delle grandi imprese, il «traditore della sua classe» [4], fu alleato cruciale del Sud nel mantenere il razzismo. Solo Lyndon Johnson, figlio politico dei due Sam, cambiò le carte in tavola una volta per tutte, da padrone del Senato e da presidente.

 

4. Ogni progetto di riforma, senza il potere e la capacità di utilizzarlo, non è che un bel discorso o una raccolta di buone intenzioni. Le persone ossessionate dalla conquista del potere (come Johnson) e dal suo racconto (come Caro) hanno la capacità di ricordarcelo.

Il potere di Johnson, che rese possibili le sue politiche e la rivoluzione sociale della Great Society, derivò da due elementi: la sua natura di «lettore di uomini» e la sua spregiudicatezza nel rubare le elezioni.

Anche su questo, la sua palestra fu il Texas.

Apprese l’arte di leggere gli uomini anzitutto a Cotulla (novanta miglia sotto San Antonio, ad appena sessanta miglia dal confine messicano). Caro ci ricorda che era una città più messicana che americana, in cui gli Anglos erano appena un quarto dei tremila abitanti.

Il primo vero lavoro di Johnson fu lì, come insegnante, e lo prese molto sul serio: fu il primo insegnante di Cotulla al quale importava davvero che i messicano-statunitensi imparassero qualcosa, e al quale importava «leggere» loro e le loro aspirazioni. In quel mestiere, Johnson trovò per la prima volta l’occasione di realizzarsi veramente, lontano dall’ombra del padre e dall’ossessione della rivalsa per i suoi debiti e il suo sterile idealismo. I genitori dei ragazzi gli dicevano che era troppo bravo per i loro figli, e lui ne era orgoglioso. Ma non dimenticava mai il suo obiettivo. Quando scoprì gli studenti intenti a fargli un’imitazione, disse loro con estrema serietà: «Come potete prendermi in giro? Davanti a voi c’è il futuro presidente degli Stati Uniti». Un’altra tappa della sua carriera fu Houston, dove invitava gli studenti a dibattere, anche attraverso gli insulti. La sua passione era capire le aspirazioni degli studenti e interpretarle.

 

Ma la sua lettura non era rivolta solo ai più giovaniAnzi, i vecchi erano la sua vera specialità.

Il metodo di Johnson, dal Texas a Washington, rimase sempre lo stesso: raggiungere l’amicizia di uomini anziani importanti, spesso celibi (come lo stesso Rayburn e il senatore Russell) attraverso un’opera costante di avvicinamento e adulazione, per poi utilizzarla a suo vantaggio. Da leader, Johnson gestiva la sua compagnia creando intimità, metaforicamente e letteralmente, nel confine tra lo scherzo e la follia: in The Master of the Senate Caro descrive la sua abitudine di mostrare le parti intime (chiamava il proprio pene «Jumbo») agli amici.

 

In Johnson la ricerca del potere (del potere di un’associazione universitaria, o del «Little Congress», l’aggregazione degli assistenti parlamentari) avveniva a carte scoperte, sotto gli occhi di tutti.

Non c’erano ipocrisie: negli anni Cinquanta Johnson chiamava uno per uno i giornalisti di Washington e sbraitava: «Dovete chiamarmi LBJ con le tre iniziali! LBJ come FDR! LBJ come Roosevelt!». Per questo il potere non lo cambiò. Non c’era un’indole da corrompere o da confondere. L’uomo rimase sempre lo stesso.

Nella sua corsa verso il potere, conobbe anche l’odio. L’ultimo libro pubblicato da Caro, e il penultimo della serie sugli anni di Lyndon Johnson, è dedicato all’odio feroce che legava Lyndon Johnson e Robert Kennedy.

Non ci sono protagonisti della politica degli Stati Uniti, nemmeno quelli che si sono ammazzati a vicenda, che si sono detestati altrettanto. Kennedy era ossessionato da Johnson, Johnson era ossessionato da Kennedy. In tutta l’opera di Robert Caro, JFK è un personaggio secondario. Non è in primo piano nelle politiche, visto che non consegue nessun importante risultato legislativo.

 

È solo l’abilità di Johnson come lettore di uomini e manovratore del Congresso a rendere possibili i risultati dell’amministrazione dopo la morte di JFK.

Ma non è in primo piano nemmeno nella lotta personale: il fratello è troppo impegnato a manovrare contro il texano per considerarlo e Johnson non riesce a odiarlo pienamente, per la sua cagionevole salute. È Robert Kennedy a cercare di fare di tutto per tenere Johnson fuori dal ticket col fratello, nel 1960. È Robert Kennedy a lavorare costantemente per rendere il «padrone del Senato» un vice-presidente più inutile del solito: in The Passage of Power Caro racconta la solitudine di Johnson in quegli anni, il suo isolamento, la sensazione che la sua vita politica fosse finita, prima di Dallas.

Anche negli ultimi anni della sua vita Johnson continuò a indicare come sua paura principale, fin dal primo giorno della sua presidenza, «l’annuncio di Robert Kennedy dell’intenzione di riprendersi il trono in memoria di suo fratello». L’affetto di Johnson per Kennedy è sintetizzato dalla frase detta durante un incontro con Ed Clark a Austin: «Gli taglierò la gola, fosse l’ultima cosa che faccio» («I’ll cut his throat if it’s the last thing I do»).

 

L’altro fattore abilitante della Great Society fu l’imbattibile capacità di Johnson di rubare le elezioni.

Rubare le elezioni è una costante della sua carriera politica, fin da studente, attraverso le minacce e i soldi. Per via dell’incubo della povertà, derivato dal fallimento di suo padre, Johnson cercò continuamente soldi, legalmente e illegalmente, per finanziare i suoi obiettivi.

Si può dire che la sua vita adulta cominci con le elezioni rubate, che mettono in pratica la sua soverchiante ambizione. Caro riassume: «Ogni tappa della sua scalata politica fu caratterizzata da quella che è forse la manifestazione definitiva del pragmatismo politico in una democrazia: il furto delle elezioni. Nel suo college, dove la politica del campus era stata sempre così casuale che il furto di un’elezione non era stato mai nemmeno considerato possibile, rubò le elezioni. A Capitol Hill, fece in modo di inserire voti illegali nell’urna per la presidenza del Little Congress, e, visto che nemmeno questo bastava per dare la vittoria a lui o ai suoi alleati, alterò il conteggio dei voti» [5].

Negli anni Trenta, mentre avviene la costruzione e il consolidamento del potere del Texas nella Camera dei rappresentanti, il potere che Rayburn bramava più di ogni cosa, Lyndon Johnson sente che quel potere, con le sue attese generazionali, non avrebbe mai potuto bastargli. Il passaggio successivo della scala per il potere era il Senato. Anche perché, alla fine degli anni Trenta, Johnson non si sentiva più tanto giovane, soprattutto dopo l’elezione di Lindley Beckworth ad appena venticinque anni.

La sua occasione giunse con il contrasto tra Roosevelt e il vicepresidente Garner, sorto sulla filosofia del New Deal e sull’intenzione di FDR di candidarsi per un terzo mandato. Johnson non ebbe problemi a dare dell’ubriacone a Garner per ingraziarsi Roosevelt. Garner decise di fargli la guerra in Texas, ma il presidente si spese in prima persona per proteggerlo. Gli offrì il posto di guida della Rural Electrification Administration (Rea).

Quando Johnson rifiutò, Roosevelt scrisse al «caro Lyndon» che si congratulava con il decimo distretto del Texas per avere un rappresentante come lui. La sfida di Garner a Roosevelt si rivelò debole nell’atmosfera di guerra del 1940, ma la prospettiva di una sfida Garner-Roosevelt in Texas divenne un’arma per le ambizioni di Johnson, anche contro Rayburn, che voleva salvare l’amico Garner dall’umiliazione della sconfitta in casa con il presidente. È in quest’orizzonte politico che Johnson, puntando tutto sulla sua vicinanza a Roosevelt e sulla rivendicazione del New Deal, costruì la sua campagna elettorale per il Senato, nel 1941, e perse: Wilbert Lee O’Daniel gli inflisse la sua unica sconfitta in un’elezione. Ne seguì una grande crisi, ma Johnson riuscì a rialzarsi.

 

Quando nel 1948 ebbe un’altra opportunità, Roosevelt era morto e il New Deal era dimenticato.

Il suo nuovo mantra recitava: «Tutto quello che ho fatto con Roosevelt, l’ho fatto solo per il Texas». Il 21 agosto, a una settimana dalle primarie del 1948, i sondaggi davano Johnson al 41%, di sette punti dietro Coke Stevenson. Per questo Johnson concentrò le sue risorse, negli ultimi giorni, sui messicani di San Antonio. Conquistando messicani e neri di San Antonio, riuscì a battere Stevenson in città, rovesciando il risultato del 1941. Johnson recuperò il vantaggio di Stevenson nelle altre aree metropolitane grazie alle aree rurali ma, quando ormai erano stati contati quasi tutti i voti, Stevenson manteneva un vantaggio di 854.

Caro commenta: «Lyndon Johnson aveva provato a comprare uno Stato e, nonostante avesse pagato il prezzo più alto della storia del Texas, aveva fallito. Quindi, ora era il tempo di rubarlo». Johnson prese il telefono in mano. Voti non contati cominciarono a comparire. I territori johnsoniani trovarono altre preferenze. L’ufficio elettorale dichiarò comunque che Stevenson, con 494.555 voti, sopravanzava di 349 voti Johnson, a 494.206, ma i calcoli non erano «definitivi». Quattro giorni dopo l’elezione, i riconteggi al batticuore continuavano. Il vantaggio di Stevenson scese a 156 voti. Alla fine, Jim Wells County trovò altri 200 voti letteralmente dal nulla e i tabulati definitivi portarono Johnson a 494.191 voti, davanti ai 494.104 di Stevenson. Su quasi un milione di voti, Johnson «vinse» di 87. Dopo aver vinto, Johnson dovette collocare il suo furto al riparo dai ricorsi di Stevenson.

 

Negli anni Cinquanta, i 200 voti magici di Jim Wells County continuarono a perseguitarlo come fantasmi, che tentò di esorcizzare attraverso una storia che raccontava a tutti a Washington: Manuel, un messicano-statunitense intento sempre a lamentarsi che suo padre, morto da dieci anni, fosse tornato per votare Lyndon Johnson senza nemmeno passare a salutarlo. Non a caso la storiella con cui Johnson si difendeva, cercando di mutare il sospetto in risate, riguardava un padre e un figlio. Il fantasma del padre continuava a visitare gli incubi del figlio, come in un allestimento texano di William Shakespeare. Infatti, Sam Johnson era stato ricordato al funerale con le parole di Amleto: He was a man. Take him for all in all. I shall not look upon his like again. Il Collier titolò sull’elezione di Lyndon: Something is rotten in the State of Texas.

 

5. Qualcosa era marcio in Texas, qualcosa era marcio nel Sud.

Dal gennaio 1949 al 1955 Johnson portò avanti la sua irresistibile ascesa nel Senato, diventando il leader più potente della sua storia. Johnson non apprezzava la regola della seniority quando era un freno per la sua ambizione politica, ma in Senato confermò la sua attrazione irresistibile per gli scapoli maturi che avevano in mano le chiavi delle istituzioni: il suo nuovo Sam Rayburn fu Richard Brevard Russell Jr. della Georgia, democratico che servì ininterrottamente dal 1933 alla sua morte, nel gennaio 1971.

Guardiano della «trappola sudista» e della coalizione conservatrice democratico-repubblicana, Russell mise all’opera la sua arte legislativa per impedire le concessioni sui diritti civili. Nei primi anni Cinquanta, Johnson si legò strettamente a lui, facendo leva sulla sua solitudine, con un corteggiamento insistente. Russell adorava il baseball, ma non aveva nessuno con cui seguire le partite. A Johnson non importava nulla del baseball, ma iniziò ad accompagnarlo a vedere le partite fingendo di essere un grande appassionato. Johnson lo chiamava «il Vecchio Maestro» e gli diceva che considerava i suoi consigli «le lezioni del Vecchio Maestro».

 

A metà degli anni Cinquanta, Russell aveva un nuovo obiettivo politico: l’elezione di Lyndon Johnson alla presidenza degli Stati Uniti.

Ma i suoi princìpi rimasero inalterati. Nel 1954, l’attivismo della Corte Suprema di Warren aveva messo in discussione la visione sociale della coalizione conservatrice, che rispose con la Dichiarazione sui princìpi costituzionali (nota informalmente come Southern Manifesto).

Russell fu uno degli autori di questo documento, che accusava Brown vs. Board of Education di «distruggere le relazioni amichevoli tra le razze bianca e negra, che sono state stabilite da novant’anni di sforzi pazienti delle brave persone di entrambe le razze».

Il manifesto fu firmato da diciannove senatori e ottantuno rappresentanti degli undici Stati della Confederazione, e fu letto integralmente in Senato l’11 marzo 1956. Johnson non firmò il manifesto, ma Russell capì: l’uomo che voleva riportare il Sud alla presidenza non poteva permetterselo. Il 27 novembre 1963, il presidente Johnson parlò al Congresso dopo la morte di JFK.

Per arrivare dall’umiliazione dell’infanzia texana alla vetta di Washington il figlio di Sam Johnson si era mostrato disposto a tutto: arraffare fondi, rubare le elezioni, denigrare gli avversari, inventare passioni sportive. Il Texas l’aveva cresciuto e temprato, e ora la grande tragedia di Dallas gli aveva regalato la presidenza.

 

I complottisti e i biografi hanno affiancato due parole all’ascesa e alla caduta di Lyndon Baines JohnsonDallas e Vietnam.

Ma la parola che racconta l’impronta di Johnson nella storia politica americana è: Congresso. La lezione di Rayburn e Russell aveva costruito il suo genio politico, riempendo di capacità la sua soverchiante ambizione. Johnson la rovesciò nei fini, conservandone i mezzi, nel programma dettagliato della Great Society. Due democratici che hanno dovuto fare i conti con la supremazia del Congresso, Bill Clinton e Barack Obama, hanno omaggiato (e invidiato) questa caratteristica di Johnson.

Per Clinton «pochi americani nella nostra storia hanno eguagliato la sapienza di Johnson nel muovere le leggi e i legislatori»[6] e per Obama Johnson è stato «un maestro della politica e del processo legislativo, che comprendeva come pochi altri il potere del governo di portare cambiamento»[7].

Ted Sorensen, speechwriter di JFK, scrisse la prima bozza del discorso del presidente Johnson al Congresso, che gli rispose «non molto sinceramente» che non avrebbe cambiato una parola.

Il discorso di Sorensen era un tributo a Kennedy (includeva anche la frase «I who cannot fill his shoes must occupy his desk»), mentre Johnson voleva focalizzarlo sulle sue iniziative, sulla necessità di continuare il lavoro, «scrivendo sui libri della legge» la fine della discriminazione razziale negli Stati Uniti.

Secondo Sorensen, il risultato finale fu «un discorso ripetitivo e poco organizzato»[8]. Sorensen aveva una penna straordinaria, ma non era un lettore di uomini. Ignorava le spire del Congresso e il dramma del Sud. Sapeva scrivere i libri, ma non sapeva scrivere i libri della legge. Lui e tutta l’inesauribile mitologia kennediana non conoscevano gli studenti di Cotulla, che Johnson avrebbe ricordato in occasione del Voting Rights Act.

 

Il primo discorso al Congresso del presidente Johnson fu comunque interrotto da una serie di fragorosi applausi. Eppure, come ci ricorda Caro in The Passage of Power, non tutti applaudivano.

Nella seconda e nella terza fila erano seduti i senatori del Sud, tra cui Russell: gli stessi uomini che avevano supportato l’ascesa di Johnson, che nonostante tutto era uno di loro, che in ogni caso avrebbe fatto gli interessi del Sud, non potevano applaudire. Caro si sofferma in particolare sulla solitudine di Russell: «Il suo razzismo era monumentale, ma non più del suo patriottismo. Johnson gli aveva chiesto il giorno prima di continuare a chiamarlo “Lyndon”, ma da quel giorno l’avrebbe chiamato solo “signor presidente”».

 

Quel giorno l’ultimo «padre» di Johnson ascoltò il suo figlio politico in silenzio.

 

FONTI

1. Sul carattere professorale di Barack Obama, rimando a A. ARESU, «La lectio flop del Prof. Obama», Il Foglio, 23/7/2016.

2. Le citazioni di questo paragrafo sono tratte da The Path to Power.

3. I. KATZNELSON, Fear Itself. The New Deal and the Origins of Our Time, New York 2013, Liveright, p. 329.

4. H.W. BRANDS, Traitor to His Class: The Privileged Life and Radical Presidency of Franklin Delano Roosevelt, New York 2008, Doubleday.

5. I virgolettati di questo paragrafo provengono da Means of Ascent.

6. B. CLINTON, «Seat of Power», The New York Times, 2/5/2012.

7. B. OBAMA, Remarks by the President at LBJ Presidential Library Civil Rights Summit, 10/4/2014, di- sponibile su goo.gl/2sPvaZ. Si vedano anche M. O’DONNELL, «How LBJ Saved the Civil Rights Act», The Atlantic, aprile 2014, disponibile su goo.gl/NkSdDU; A. FUNICIELLO, «Leader dell’estate», Il Foglio, 28/8/2014.

8. T. SORENSEN, Counselor, New York 2008, HarperCollins, p. 382.

 

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  1. Donatella scrive:

    Interessante e appassionante questa storia “texana”.

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