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Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto
Anonimo, Giuseppe Salvaggiulo
Un documento unico e clamoroso che svela dall’interno le regole non dette e i segreti inconfessati dei palazzi di potere.
“Io sono un’ombra. L’ombra del potere. Talvolta più potente del potere. Io sono il capo di gabinetto”
Nel tempo delle dirette social, dei leader iperconnessi, della comunicazione come sostituzione dell’ideologia, c’è un angolo del potere che resta sconosciuto, evocato talvolta ma inaccessibile nei suoi meccanismi. La giuntura che lega le grandi burocrazie pubbliche alla classe politica. I politici vorrebbero e provano, in ogni stagione, a farne a meno. Ma non riescono a emanciparsene perché non possono. Una burocrazia ostile, o semplicemente non collaborativa, è in grado di impedire, confondere, rallentare qualsiasi decisione. In Italia la selezione dei capi di gabinetto avviene attraverso canali diversi di cooptazione. Ci sono i magistrati del Consiglio di Stato. Quelli della Corte dei conti. I professori universitari. I funzionari parlamentari. I burocrati di carriera, che agivano per decenni nelle pubbliche amministrazioni. Ciascuna categoria ha un suo codice di comportamento, regole di affiliazione, baronie, gelosie, ritualità, scandali, ricatti, mele marce, figure leggendarie. Ogni stagione segna una diversa forma di convivenza tra politica e burocrazia. Dalla Prima Repubblica a Berlusconi, da Renzi ai grillini. La connivenza e la lusinga si alternano alle epurazioni e alle minacce. Ma questo accade sulla scena pubblica. Sotto traccia va in scena uno spettacolo diverso. Fatto di relazioni, alleanze, trasversalismi, compromessi. E continuità. Questo libro raccoglie sotto forma di diario-confessione la testimonianza di un ‘grand commis’ che ha lavorato per diversi ministri di diverso colore politico.
Giuseppe Salvaggiulo, trentasette anni, pugliese. Nel 1998 ha vinto il concorso de «Il Foglio» per aspiranti giornalisti. Primo articolo sul «Corriere del Mezzogiorno»: un’inchiesta sulla speculazione edilizia attorno alla valle dei dinosauri di Altamura. Ha scritto anche per «Diario», «Internazionale», «Controcampo».
( CHIARELETTERE )
RECENSIONE::
1.
IL FATTO QUOTIDIANO DELL’ 8 LUGLIO 2020
L’ostacolo è il “Clero” burocratico
di Antonio Padellaro | 8 LUGLIO 2020
La burocrazia è la maggiore azienda del Paese, impiega un italiano che lavora su cinque. Una massa di dipendenti in media vecchi (51 anni), mal pagati e professionalmente dequalificati (il 60 per cento senza laurea). Io sono il potere, le confessioni di un capo di gabinetto raccolte da Giuseppe Salvaggiulo è un libro illuminante sul perché si può semplificare la burocrazia quanto si vuole (come cerca di fare il governo Conte), ma se non si semplificano i burocrati è fatica sprecata. È una piramide di potere al cui vertice siedono appunto i capi di gabinetto (“i politici passano noi restiamo”).
Un clero dominante i cui santuari sono Tar, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Avvocatura dello Stato, Anac. Che infatti davanti al progetto illustrato dal premier per rendere più rapide ed efficienti le procedure di assegnazione delle opere e degli appalti hanno fatto trapelare il loro dissenso, paventando illegalità, corruzione, sperpero del pubblico denaro. Ragioni più o meno fondate che non cancellano la sensazione di un meccanismo di autodifesa corporativa: se i chierici non servono più la messa, a cosa servono?
Certo, come spiega l’autore, si tratta di un potere iniziatico che attraverso il pieno controllo della fabbrica delle leggi muove i fili delle decisioni politiche che la politica subisce, pur vantandone il merito. Proviamo a immaginare questo gigantesco agglomerato di poltrone che discende per li rami in tutte le istituzioni della Repubblica, dalla Capitale fino al più sperduto comune. Uno sterminato esercito di vassalli, valvassori e valvassini impegnato quotidianamente ad esercitare sui cittadini una sovranità che spesso si manifesta come potere d’interdizione (le leggi si applicano ai nemici e s’interpretano per gli amici, diceva Giovanni Giolitti). È pensabile che i sacerdoti di questa liturgia, rinuncino da un giorno all’altro alla discrezionalità di quel timbro che può dividere i salvati dai sommersi?
“Noi non siamo rottamabili”, sostiene il suggeritore di Salvaggiulo. “Chi ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E si è fatto male”. Giuseppe Conte prenda nota.
2.
IL FATTO QUOTIDIANO DEL 5 MARZO 2020
DAL TESTO ” IO SONO IL POTERE ” —pp. 79-82
“Renzi nominò la Manzione e scoppiammo tutti a ridere”
Un anonimo capo di gabinetto ricostruisce i pasticci del governo delle slide
di RQuotidiano | 5 MARZO 2020
Esce oggi in libreria per Feltrinelli “Io sono il potere”. Ovvero “Confessioni di un capo di gabinetto” raccolte dal giornalista Giuseppe Salvaggiulo.
Il più grave errore di Renzi, dopo la presa del potere nel 2014, fu sbagliare la squadra. Non dei ministri, che in quel governo – a parte Padoan e pochi altri – erano perlopiù comparse. Parlo degli staff a Palazzo Chigi e nei ministeri. L’epurazione dei grand commis la lasciò in mano ai petit commis. Ma se i petit sono tali, un motivo ci sarà.
Il segnale di un cambio di stagione senza precedenti fu la scelta del capo del Dipartimento legislativo della presidenza del Consiglio. Il mitico Dagl. Dipartimento affari giuridici e legislativi. L’ufficio da cui passano tutti i provvedimenti del governo e che tiene rapporti con ministeri, Quirinale, magistrature, istituzioni indipendenti, corporazioni. Il gigantesco depuratore che riceve le bozze dei disegni di legge e di tutti i provvedimenti dai ministeri. Le centrifuga, le modifica, le ripulisce e fa anche scomparire gli odori.
I capi del Dagl sono creature da film di fantascienza. Per metà sopraffini giuristi, per metà navigatori di mari imbizzarriti, avvezzi ai costumi della politica più spietata.
Per cui una fragorosa e irriverente risata salutò, in quel 2014 in cui Renzi pareva onnipotente, la nomina di Antonella Manzione. Proiettata da una onesta carriera di capo della polizia municipale in Toscana al prestigioso e ambitissimo ruolo a Palazzo Chigi, che era stato occupato per dieci anni da Claudio Zucchelli, il mitico “Zucchellone”, e poi dal brillante consigliere di Stato Carlo Deodato, finito anni dopo in Consob.
C’era un piccolo grande problema: la Manzione difettava del pedigree da dirigente generale dello Stato, necessario per quel ruolo. Come per il grillino Barca, anche per la renziana fu necessaria una forzatura. Dopo il primo no della Corte dei conti, si ovviò parificando il ruolo di comandante dei vigili urbani comunali a quello di un alto magistrato o di un dirigente generale dello Stato, per elevare il suo curriculum al rango necessario.
Non nascondo un certo maschilismo, corroborato da una antica passione per i B-movie anni settanta, nel rivendicare la paternità del soprannome con cui negli anni successivi la Manzione è stata ferocemente bollata, disprezzata, boicottata: “la Vigilessa”.
Me ne sono pentito, conoscendola. In realtà Antonella è donna intelligente e abile, svelta a imparare e per niente arrogante. Doti che avrebbe avuto la possibilità di mostrare se non si fosse trovata trafitta implacabilmente da occhi maliziosi non meno che prevenuti. Ma in quei giorni ciò che risaltava era la sua abissale inesperienza legislativa, la povertà del curriculum, l’assenza di una personalità in grado di orientare e mediare la volontà politica con il sapere giuridico dei più alti apparati statali. Ad aggravare la situazione, il fatto che nel suo staff non ci fossero gabinettisti esperti, ma anonimi funzionari.
Faceva tutto parte di un disegno di Renzi. Che voleva portare al più alto livello istituzionale la rottamazione consumata trionfalmente nel suo partito. I ministeri furono infarciti di funzionari parlamentari e avvocati di non chiara fama. Poco avvezzi alla scrittura delle leggi, molto proni ai desiderata politici.
Non solo. Lo stile Renzi rompeva ogni consuetudine, capovolgeva l’ordine logico del nostro lavoro. Anziché elaborati pazientemente per mesi, i testi legislativi dovevano essere scritti in poche ore, per dare seguito ad annunci rapsodici del premier che scavalcava i ministri.
Prima le slide riassuntive, poi i testi veri.
Ma le leggi non si fanno con la bacchetta magica. Il risultato è stato il governo delle slide affidate agli staff di comunicazione che precedevano, a volte per mesi, testi inevitabilmente confusi e grondanti errori. E tutti a scaricare sulla Manzione anche colpe non sue.
Di pasticci legislativi ne abbiamo contati una decina solo nel primo anno di governo. Si finge di approvare un decreto o un disegno di legge in Consiglio dei ministri. Si trova un nome a effetto, possibilmente corto abbastanza da star dentro un titolo di giornale. Si fa una bella conferenza stampa proiettando slide mirabolanti. Poi si vede l’effetto che fa, lasciando ai malcapitati funzionari del Dagl il compito di fare il lavoro sporco con gli uffici legislativi dei ministeri coinvolti. Come cambiare una norma mezz’ora prima che parta il plico per il Quirinale. O mezz’ora dopo, quando bisognerebbe solo ricopiare il testo firmato sulla Gazzetta Ufficiale.
Non bisogna stupirsi se qualche tempo fa un decreto è giunto alla Corte dei conti privo di soggetto in una frase. Come nemmeno nei giochi della “Settimana Enigmistica”.
Una squadra efficiente e forte non avrebbe consentito di arrivare a quel punto. I problemi li avrebbe risolti prima, nelle riunioni tra capi di gabinetto, in quelle tra capi degli uffici legislativi. Nei casi più delicati, a tu per tu con l’omologo di un altro ministero. (…)
Il capo del Dagl si comporta come un maestro di cerimonie, dirige le danze e dissimula per orientare l’esito delle riunioni. Solo se deve chiudere e teme che la situazione gli sfugga di mano può ricorrere all’imperio che gli deriva dal ruolo. E cioè: si fa così perché lo dico io. Un potere da esercitare con parsimonia, per preservarne la sacralità.
Al contrario di quanto faceva all’inizio la Manzione nei preconsigli dei ministri. Di fronte a un contrasto di opinioni, si rifugiava nel più classico “chiedo a Matteo”. Si allontanava, telefonino in mano. E quando rientrava, lo esibiva come un trofeo, chiosando il contenuto del messaggio ricevuto con la formula “Matteo mi ha detto di fare così”.
A Palazzo Chigi solo una persona riusciva a tenerle testa ed era un’altra donna, di pari osservanza renziana. Destinata al ministero delle Riforme, senza portafoglio, Maria Elena Boschi capì subito che la sala macchine era a Palazzo Chigi e lì bisognava entrare.