HALIL KARAVELI, AUTORE DELL’ARTICOLO
E’ MEMBRO DELL’ISTITUTO DI STUDI ASIA CENTRALE E CAUCASO E DEL PROGRAMMA DI STUDI SULLA VIA DELLA SETA
LIMES ONLINE DEL 4 AGOSTO 2020
https://www.limesonline.com/cartaceo/altro-che-islam-guardate-la-mappa-per-capire-la-turchia
ALTRO CHE ISLAM. GUARDATE LA MAPPA PER CAPIRE LA TURCHIA
Pubblicato in: IL TURCO ALLA PORTA – n°7 – 2020
Atlante storico elementare turco.
4/08/2020
L’Occidente trascura l’urgenza turca di proiettarsi nel Caucaso e nel Mediterraneo orientale per proteggere il ventre anatolico. I precedenti di Hatay e Cipro. L’influenza dell’Mhp sulla questione curda (e non solo). Ankara resterà filoatlantica, a modo suo.
di Halil Karaveli
1. Tra gli osservatori internazionali vi è una generalizzata tendenza ad ascrivere le mosse della Turchia nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente alle ambizioni personali del presidente Recep Tayyip Erdoğan, ovvero al suo islamismo conservatore. Diffusa è l’idea che, uscito di scena Erdoğan, tutto cambierà per il meglio in Turchia e nelle relazioni del paese con gli europei. Convinzione uguale e contraria all’originale innamoramento per Erdoğan, salutato come artefice della democrazia turca. Tale visione trascura le dinamiche strutturali che hanno storicamente sostenuto l’autoritarismo in Turchia e il primato della geografia nel plasmare la politica estera di qualsiasi paese, oltre a travisare il funzionamento dello Stato turco, erroneamente sussunto nella persona dell’attuale presidente.
Napoleone diceva che conoscere la geografia di un paese consente di predirne la politica estera. Il fatto che la Turchia cerchi di proiettare la sua forza in una zona marittima di ovvia e vitale importanza per essa (oltre che per gli altri Stati litoranei) e rifiuti di essere esclusa dalla competizione per le risorse energetiche non deve sorprendere e non ha nulla a che fare con i singoli leader e le loro ideologie. Motivare la recente baldanza turca nel Mediterraneo orientale con le ambizioni di Erdoğan o con le sue convinzioni vuol dire ignorare la continuità del pensiero geostrategico che ha informato le mosse di Ankara nella regione sin dalla fondazione della Repubblica, dall’annessione della provincia siriana di Alessandretta nel 1939 all’invasione di Cipro nel 1974, fino alle recenti occupazioni di ‘Afrīn (2018) e del Rojava (2019).
A Kemal Atatürk si riconosce giustamente di essere rimasto immune dall’irredentismo e dall’espansionismo militare in voga tra i dittatori europei. A differenza di Mussolini, che detestava, Atatürk era un realista freddo e razionale, ben conscio dei limiti del suo paese. Eppure, il suo ultimo atto fu preparare l’annessione della provincia di Alessandretta (odierno Hatay), nell’allora mandato francese in Siria.
Curiosamente, oggi la storia si ripete: Turchia e Francia sono di nuovo ai ferri corti nel Mediterraneo orientale. Atatürk, da buon militare, era guidato dalle mappe, le quali gli rammentavano che l’Anatolia – cuore del paese – risultava vulnerabile a un’invasione dal Mediterraneo se la Turchia non avesse controllato Alessandretta. Egli puntava anche a Mosul, nel Nord dell’Iraq a maggioranza curda, in quanto temeva per l’integrità territoriale turca se le vaste popolazioni curde al di là del confine meridionale fossero state libere di autodeterminarsi. Ma in questo caso non andò oltre le intenzioni, per evitare uno scontro con la Gran Bretagna, potenza coloniale dell’Iraq.
LA REGIONE TURCA DELL’HATAY
ALESSANDRETTA, OGGI = ISKENDERUM
L’Hatay, in posizione strategica per controllare i traffici marittimi, fornì alla Turchia un porto che in seguito si rivelerà cruciale: è infatti dall’approdo di İskenderun che nel 1974 Ankara lanciò l’offensiva su Cipro. Il primo ministro turco Bülent Ecevit, che ordinò l’invasione, sosteneva che lasciare Cipro alla Grecia – prima dell’intervento turco, Atene aveva rovesciato il presidente cipriota Makarios e dichiarato l’enosis, l’unione con la Grecia – fosse intollerabile. Cipro, disse Ecevit, era «una portaerei in rotta verso il ventre molle della Turchia», dalla quale l’Anatolia meridionale e centrale poteva essere bombardata. Pertanto, non poteva essere lasciata nelle mani di un paese ostile.
Atatürk era un modernizzatore determinato a europeizzare la Turchia; Ecevit era un democratico di sinistra; Erdoğan è un islamico conservatore. Malgrado le palesi differenze ideologiche e biografiche, questi tre leader hanno nutrito le medesime ambizioni geostrategiche nel Mediterraneo orientale, confermando la massima napoleonica.
CIPRO CON LA CAPITALE NICOSIA
Il rifiuto turco di accondiscendere alle pretese della Repubblica di Cipro (la Cipro filogreca) di avere una propria zona economica esclusiva; la forte opposizione al tentativo di istituire un’entità autonoma curda estesa dal Mediterraneo all’Eufrate; l’accordo con la Libia sul confine marittimo che consente ad Ankara di accampare pretese sulle risorse naturali nel Mediterraneo orientale e mina gli sforzi congiunti di Cipro, Grecia, Israele, Egitto, Francia e Italia, sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti, di escluderla dalla partita del gas naturale; la crescente presenza militare turca in Libia. Tutte queste mosse riflettono l’antico e perdurante interesse turco a mantenere un’influenza nel Mediterraneo in quanto Stato litoraneo, impedendo ad altri di pregiudicare ciò che Ankara considera propri legittimi interessi.
2. Questa priorità geopolitica, nelle sue reificazioni passate e presenti, non coincide sempre con il maggiore imperativo di sicurezza turco: mantenere un partenariato strategico con gli Stati Uniti. Inoltre, alimenta divisioni all’interno dello Stato turco tra quanti vogliono preservare il tradizionale atlantismo del paese e gli antimperialisti, che propugnano un riorientamento della Turchia in senso euroasiatico. Molti osservatori esterni non comprendono il peso determinante del conflitto tra atlantisti e antiamericani su quanto avvenuto in Turchia dall’avvento di Erdoğan e del suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp).
Carta di Laura Canali, 2020
Nel 1964, il presidente americano Lyndon Johnson non finse gentilezza quando in una dura e tristemente nota missiva al premier turco İsmet İnönü avvertì che il grande alleato della Nato non sarebbe intervenuto militarmente a Cipro, dove i turco-ciprioti venivano attaccati dalle milizie greco-cipriote. La crisi scaturita da quella lettera ha avvelenato le relazioni tra Stati Uniti e Turchia e ha prodotto in quest’ultima un annoso risentimento. Nel 1975, un anno dopo l’invasione turca di Cipro, il Congresso statunitense mise la Turchia sotto embargo per la vendita di armi. Negli anni Novanta l’appoggio americano a un governo autonomo curdo nel Nord dell’Iraq fu visto dai nazionalisti turchi come un atto ostile, prima tappa di un piano di Washington volto a istituire un Kurdistan indipendente che avrebbe incluso anche il Sud-Est della Turchia. Recentemente, il sostegno degli Stati Uniti ai curdi di Siria e l’opposizione incontrata da Ankara nel Mediterraneo orientale ha dato fiato a quanti, negli apparati di governo turchi, teorizzano l’incompatibilità dell’atlantismo con gli interessi di sicurezza nazionale turchi e la necessità di avvicinarsi alla Russia.
Erdoğan appartiene allo schieramento atlantista, ma i liberali occidentali sbagliarono quando credettero di scorgervi uno di loro, un democratico, solo perché si diede a ridimensionare il potere dei militari. Ciò che a uno sguardo superficiale appariva come un confronto tra un leader liberale democraticamente eletto e un esercito che si rifiutava di obbedire all’autorità civile, brigando per rovesciarla, era in realtà un regolamento di conti tra due fazioni della dirigenza, gli atlantisti e gli antiamericani, culminata nella presa del potere da parte di un’ala dei primi. I quadri militari esautorati sotto Erdoğan appartenevano al campo antimperialista, mentre quanti condussero l’epurazione e gli ufficiali che furono promossi al posto dei loro commilitoni imprigionati riempivano i ranghi dell’organizzazione religiosa filoamericana (nonché filoisraeliana e anti-iraniana) guidata da Fethullah Gülen, al tempo principale alleato di Erdoğan.
Ma le divisioni interne allo Stato turco hanno radici più antiche, che risalgono agli anni Sessanta e Settanta. Negli anni Sessanta una forte corrente dell’Esercito turco propugnava l’indipendenza strategica dagli Stati Uniti e dalla Nato; questi anti-imperialisti sostenevano che lo sviluppo economico della Turchia fosse ostacolato dall’appartenenza al campo occidentale. La fazione fu sul punto di prendere il potere con un colpo di Stato nel 1971, ma fu bruciata sul tempo da quella filoamericana, che in quell’anno diede vita a un contro-golpe conservatore in seguito al quale gli anti-imperialisti furono epurati e rimpiazzati, negli anni seguenti, da nazionalisti filostatunitensi. La strategia volta a neutralizzare la fazione di sinistra, antiamericana, con elementi provenienti dagli ambienti nazional-conservatori a forte impronta religiosa andò a vantaggio dei gulenisti, cui d’un tratto si schiusero le porte dell’amministrazione statale.
I gulenisti, tuttavia, si sono spinti troppo in là: il loro tentativo di sottomettere Erdoğan alla loro volontà, ergendosi così a padroni incontrastati dello Stato, si è rivelato un boomerang. Erdoğan non aveva quadri propri nell’amministrazione statale, dunque per affermare il suo potere contro i mordaci alleati – che passarono all’attacco nel 2012, tentando di arrestare il suo più stretto consigliere, il capo dell’Agenzia di intelligence nazionale; e ancora nel 2013, provando ad arrestarne alcuni ministri e un figlio – fu costretto a rivolgersi a quanti egli stesso e i gulenisti avevano da poco esautorato. Nel 2014 Erdoğan dichiarò che i gulenisti lo avevano «indotto» a credere che una fazione dell’esercito stesse pianificando un colpo di Stato; tutti i militari incarcerati furono rilasciati e molti, se non tutti, rimessi in servizio. Diversi di questi ufficiali anti-imperialisti avrebbero giocato un ruolo cruciale nello sventare il golpe del 2016, ordito da militari gulenisti. Quest’ala antiamericana dell’esercito è stata in prima linea nella pianificazione ed esecuzione della strategia di proiezione turca nel Mediterraneo orientale, compreso l’accordo del 2019 con la Libia sui confini marittimi.
Carta di Laura Canali, 2020
3. Il riallineamento post-gulenista dello Stato turco ha però giovato soprattutto ai quadri nazionalisti, che storicamente hanno gestito la burocrazia e le Forze armate. Vi è una generale convergenza di vedute tra questi nazionalisti di destra e gli islamisti conservatori e ciò concorre a spiegare perché l’ascesa dell’Akp, contrariamente all’opinione internazionale del tempo, sia stata non solo tollerata, ma anche promossa da tali elementi. Chi nell’esercito dissentiva dal nuovo corso apparteneva al minoritario campo anti-imperialista, che vedeva nell’Akp un cavallo di Troia dell’America.
Nazionalisti e islamisti conservatori condividono la fedeltà alla scelta atlantista, nonché una visione dell’islam quale parte integrante dell’identità nazionale. Divergono però sulla questione curda, laddove gli islamisti, più internazionalisti, hanno un approccio più liberale ai diritti dei curdi e di altri gruppi. Dopo il ribilanciamento dei rapporti di forza all’interno dello Stato, Erdoğan ha dovuto corrispondere alle aspettative dei nazionalisti e degli anti-imperialisti, che sulla questione curda risultano allineati. Da 2015 – anno in cui Erdoğan è stato costretto a desistere dal cercare una soluzione negoziata con i curdi e ad abbracciare l’approccio muscolare perorato dai militari – le politiche curde della Turchia riflettono una peculiare convergenza tra le istanze dei nazionalisti e quelle degli anti-imperialisti.
I due campi non concordano però sulle tattiche: in Siria i nazionalisti non si fanno scrupoli a sostenere i jihadisti in funzione anti-curda, mentre gli anti-imperialisti, secolarizzati, propugnano un’alleanza con il laico Baššār al-Asad, sempre contro i curdi. Questo scontro è giunto al culmine nel 2019, quando il generale al comando delle truppe turche nella regione siriana di Idlib e due altri generali in servizio nel medesimo quadrante si sono dimessi perché contrari al coinvolgimento della Turchia con il jihadismo.
Devlet Bahçeli , Bahçe, Turchia, capo del Partito del Movimento Nazionalista ( Mhp )
Fin qui sono però i nazionalisti ad aver avuto la meglio. Dal 2015 l’iniziativa è nelle mani di Devlet Bahçeli, leader del Partito del movimento nazionalista (Mhp) verso cui la fazione dominante dell’establishment turco inclina. Senza l’Mhp, Erdoğan non avrebbe la maggioranza in parlamento e non sarebbe stato rieletto presidente nel 2018, quando l’appoggio di Bahçeli fu determinante. È altresì all’iniziativa di Bahçeli, dietro mandato dello Stato profondo turco, che si deve l’adozione del presidenzialismo, il cui scopo ultimo – trascurato dagli osservatori internazionali – è creare un sistema in cui il movimento politico curdo, divenuto un attore elettorale di peso, sia marginalizzato. È stato sempre il leader dell’Mhp a spingere per la ripetizione del voto municipale a Istanbul nel 2019, vinto dall’opposizione con il concorso dei curdi e, dunque, indigesto a un sistema pensato per minimizzare l’influenza curda. Lo stesso Bahçeli, nel 2018, ha imposto a Erdoğan di nominare ministro della Difesa Hulusi Akar, già Capo di Stato maggiore, facendone così il capo militare de facto del paese. Etyen Mahçupyan, vicesegretario del conservatore Partito del futuro guidato dall’ex premier ed ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, ha commentato in quell’occasione che «l’Mhp comanda ora lo Stato». Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Partito repubblicano del popolo (Chp), il principale partito d’opposizione, ha sottolineato che «Erdoğan è sotto la tutela di Bahçeli».
Carta di Laura Canali, 2019
L’Mhp non è un partito come gli altri: non aspira a vincere le elezioni, piuttosto muove le leve del potere in ossequio ai desideri e alle convinzioni dello Stato profondo, se serve passando all’azione. È stato sempre così fin dal 1969, anno della sua fondazione come braccio esecutivo della destra fascista, al culmine di un conflitto tra destra e sinistra che lacerò la Turchia.
Alparslan Türkeş (Nicosia, 25 novembre 1917 – Ankara, 5 aprile 1997)
Il suo fondatore, Alparslan Türkes¸ (cui Bahçeli è succeduto nel 1997), era un ex colonnello addestrato negli Stati Uniti alle tecniche anti-insurrezionali. Negli anni Settanta l’Mhp sostenne i governi di destra del Fronte nazionalista, che includeva anche il centro-destra e il partito nazionalista cui apparteneva Erdoğan. Un antefatto dell’attuale alleanza tra Akp e Mhp. Gli squadroni della morte dell’Mhp, coadiuvati da polizia ed esercito, assassinarono migliaia di militanti delle sinistre. Durante la guerra fredda, la fazione filoamericana che dominava lo Stato turco vedeva nella sinistra la quinta colonna della Russia sovietica, nemica storica di Ankara. Difficilmente questa destra nazionalista appoggerà la svolta euroasiatica della Turchia propugnata dagli anti-imperialisti. Lo si evince dalle dichiarazioni dello stesso Bahçeli, che a inizio 2020 ha ingiunto rabbiosamente al governo di «riconsiderare l’alleanza con la Russia» dopo che gli interessi turchi e russi hanno preso a cozzare in Siria.
4. Malgrado l’immagine di intemperante anti-occidentale, è comunque naturale per Erdoğan mantenere la Turchia nel solco dell’atlantismo e dello storico filo-europeismo. Nel 2001 lui e i suoi colleghi fondarono l’Akp in rotta con gli islamici tradizionalisti, aggrappati alla loro anacronistica visione antiamericana e antioccidentale. Il gruppo di «riformisti» cui apparteneva Erdoğan comprendeva che la base elettorale degli islamisti, gli imprenditori e i commercianti emergenti dell’Anatolia rurale, bramavano l’ingresso nell’Unione Europea e l’inserimento nel sistema economico mondiale presieduto dagli Stati Uniti. Obiettivi che esigevano buone relazioni con America e Ue.
Erdoğan realizzava anche di dover corteggiare Washington per poter guadagnare potere. Egli credeva che in Siria gli interessi turchi e americani coincidessero e che entrambi i paesi potessero beneficiare del rimpiazzo di al-Asad con un governo guidato dai Fratelli musulmani (come nelle intenzioni della Turchia), pertanto fu assai deluso quando Barack Obama si oppose al piano. Ciò nonostante, Erdoğan non ha mai voltato le spalle a Washington. L’apparente avvicinamento della Turchia alla Russia, da cui ha comprato missili che restano inattivi a oltre un anno dal loro acquisto, è pura tattica – finalizzata non da ultimo a rafforzare la propria posizione negoziale rispetto all’America sulla Siria – non una svolta strategica.
In una recente lettera inviata a Donald Trump, Erdoğan invita gli Stati Uniti a cooperare con la Turchia in Libia e in Siria. Nell’ottica turca, non vi è contraddizione tra sostenere le forze islamiste – come il governo libico – e onorare il tradizionale atlantismo. Si tratta di una postura perfettamente in linea con le tradizioni dello Stato turco; in fin dei conti, quest’ultimo ha mobilitato il conservatorismo religioso durante la guerra fredda per combattere la sinistra, vista come minaccia alla permanenza del paese nel blocco occidentale.
In teoria, è possibile che un’intensificazione del conflitto con (ad esempio) la Francia – potenza tra le più determinate tra quelle oggi schierate contro Ankara – nel Mediterraneo orientale provochi un’ondata anti-occidentale in Turchia e rafforzi la fazione anti-imperialista, euroasiatica dell’Esercito. Un simile esito è tuttavia improbabile alla luce della storia e delle priorità geostrategiche del paese – mantenere un partenariato con gli Stati Uniti e contrastare la Russia nel Mar Nero e nel Caucaso, dove gli interessi turchi e occidentali tendono a coincidere.
La geografia ci dice che la Turchia cercherà sempre di proiettare forza e influenza nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente, indipendentemente dall’ideologia dei suoi leader. E che il filoatlantismo sarà mantenuto, anche se il perseguimento dei suddetti obiettivi geopolitici porterà Ankara a scontrarsi con i paesi occidentali.
(traduzione di Fabrizio Maronta)
Carta di Laura Canali, 2020
RECEP TAYYIP ERDOĞAN, ARTICOLI, MEDITERRANEO, CAUCASO, TURCHIA, DIFESA, MARI, SIRIA, CIPRO,AFRICA, EUROPA, ITALIA, MEDIO ORIENTE
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