Sedotta e abbandonata è un film del 1964 diretto da Pietro Germi. La pellicola fa parte di una trilogia iniziata con Divorzio all’italiana (1961) e conclusa con Signore & signori (1966)
Regia Pietro Germi
Soggetto Luciano Vincenzoni, Pietro Germi
Sceneggiatura Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Luciano Vincenzoni, Pietro Germi
Fotografia Aiace Parolin
Musiche Carlo Rustichelli
Scenografia Carlo Egidi
Interpreti e personaggi
- Stefania Sandrelli: Agnese Ascalone
- Aldo Puglisi: Peppino Califano
- Saro Urzì: Don Vincenzo Ascalone
- Lando Buzzanca: Antonio Ascalone
- Lola Braccini: Amalia Califano
- Leopoldo Trieste: barone Rizieri
- Umberto Spadaro: cugino di Ascalone
- Paola Biggio: Matilde Ascalone
- Rocco D’Assunta: Orlando Califano
- Salvatore Fazio: don Mariano
- Oreste Palella: maresciallo dei carabinieri Polenza
- Lina Lagalla: Francesca Ascalone
- Gustavo D’Arpe: avvocato Ciarpetta
- Rosetta Urzì: Consolata, domestica di Ascalone
- Roberta Narbonne: Rosaura Ascalone
- Vincenzo Licata: Pasquale Profumo
- Attilio Martella: pretore
https://www.youtube.com/watch?v=r7HKzVJRHWE
Trama
Durante un pomeriggio di una torrida estate siciliana, a Sciacca, i membri della famiglia Ascalone dormono. Nella sala da pranzo invece esplodono gli istinti sessuali di Peppino Califano, studente in legge, promesso sposo di Matilde, che concupisce la sorella di lei, Agnese, segretamente innamorata del giovane.
Il rapporto sessuale viene mantenuto segreto dai due. I familiari non si accorgerebbero di nulla se Agnese non avesse, nei giorni successivi, comportamenti inconsueti. I genitori, insospettiti, fanno eseguire le analisi per la gravidanza, che danno esito positivo.
Per il padre è un dramma. Vincenzo Ascalone, intransigente custode dell’onore della famiglia, si abbatte come una tempesta su Peppino e i suoi stupefatti genitori, ai quali impone di mantenere il silenzio e di far sposare il figlio alla disonorata Agnese. Costringe Peppino a scrivere una lettera di rinuncia alla promessa di matrimonio con Matilde, ignara di tutto. Subito dopo don Vincenzo elabora una versione “ufficiale” buona per amici e conoscenti: è stata Matilde che non ha voluto più Peppino. Per avvalorare questa versione, trova egli un nuovo fidanzato alla figlia: un giovane nobile spiantato, il barone Rizieri. Si tratta ora di convincere Peppino a prendere Agnese. Peppino però non accetta di sposare una donna non più vergine e che si è rivelata, pur cedendo alla sua stessa seduzione, una “poco di buono”. Per sfuggire alle minacce di don Vincenzo, Peppino si rifugia da uno zio sacerdote.
Intanto Rizieri è diventato il fidanzato di Matilde. Un pomeriggio i paesani possono ammirare tutta la famiglia a passeggio: don Vincenzo e la moglie, Matilde sottobraccio a Rizieri e, dietro, gli altri figli. Don Vincenzo, che per migliorare il sorriso del barone, ha pagato le sue cure odontoiatriche, viene a sapere dagli “amici” dove si nasconde Peppino, e manda l’unico figlio maschio, Antonio, a ucciderlo. Antonio, che non ha alcuna intenzione di diventare un assassino, il giorno della partenza, rivela ad Agnese la sua missione, sperando nella sua comprensione. La sorella corre dai Carabinieri per denunciare il piano, che viene sventato. In paese don Vincenzo fa sempre più fatica a spiegare agli amici e ai conoscenti cosa sta succedendo tra la sua famiglia e la famiglia di Peppino Califano. Dopo il mancato delitto d’onore, gli Ascalone sono sulla bocca di tutti.
Ma la verità sta venendo alla luce con l’accusa ad Antonio di tentato omicidio di Peppino e la denuncia di Agnese. I due convocati dal pretore negano il fatto dichiarando che si è trattato di una burla. Il pretore non crede alla loro versione e chiede ad Agnese se è vero che ha perso la verginità ad opera di Peppino il quale nega che Agnese fosse vergine e racconta che il sedotto è stato lui. Il pretore non crede alla versione di Peppino e dà seguito alla denuncia per il reato di violenza sui minori e accusa Antonio di minaccia a mano armata.
Don Vincenzo a questo punto vuole far apparire l’accaduto presentandolo ora come il rifiuto della sua famiglia al matrimonio di Agnese con Peppino, come un’espressione dell’indipendenza di sua figlia, libera di scegliere chi vuole. In realtà costringe Peppino, per evitare la galera, a inscenare con gli amici un falso rapimento di Agnese per poi sposarla. Secondo il codice penale, il matrimonio cancellava infatti il reato di violenza carnale. Tutti si presentano davanti al pretore per comunicargli il lieto fine della vicenda. Ma le cose non vanno come previsto: quando il pretore chiede conferma ad Agnese, la ragazza rifiuta di accettare il matrimonio riparatore con Peppino.
Quando gli Ascalone tornano dalla pretura all’abitazione i paesani sbeffeggiano la famiglia. È troppo per don Vincenzo, che viene colpito da un collasso. Costretto a letto, riesce a convincere Agnese a sposare Peppino. Mentre la cerimonia si svolge e Matilde pronuncia i voti per farsi suora, il padre di famiglia muore di nascosto per non far rimandare il matrimonio, dopo aver immolato la sua vita sull’altare dell’onore.
Critica
Stefania Sandrelli
Come era già accaduto per il film precedente Divorzio all’italiana, anche il titolo di questo, Sedotta e abbandonata, per il grande successo di pubblico e per le valutazioni positive della maggior parte della critica, passò nell’uso comune della lingua popolare per indicare un vantaggio preso da qualcuno ma da questi ricambiato con il tradimento. In effetti l’espressione sedotta e abbandonata ricorreva e ricorre, usata ormai solo metaforicamente, nelle odierne cronache giornalistiche ed è probabilmente a queste che Pietro Germi negli anni sessanta si deve essere ispirato. Nell’anno 1965 i giornali racconteranno di Franca Viola, una giovane siciliana che molto coraggiosamente aveva rifiutato di accettare un matrimonio riparatore.
«Con Sedotta e abbandonata gli affezionati spettatori di Divorzio all’italiana si ritrovano in una Sicilia dominata da un grottesco senso dell’onore, nuovamente si muovono in un clima cupo e afoso con bagliori terrificanti, in cui scoppiano feroci contrasti familiari, e per la seconda volta s’imbattono in una Stefania Sandrelli concupita da un focoso isolano. Simile la cornice, analogo il desiderio del regista, Pietro Germi, di accusare, raccontando una storia inventata, l’ipocrisia dei costumi locali e della legislazione italiana.»
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 11 maggio 1964)
L’analisi che Germi conduce della Sicilia degli anni ’60 è impietosa e dura rispetto a quella descritta nel precedente film dove si respirava un’atmosfera di comica leggerezza: qui i personaggi sono apertamente disprezzati nella loro ipocrisia e falsità: gli unici che si salvano nella considerazione di Germi sono i carabinieri, paterni e comprensivi, e la magistratura intelligente ed attenta all’applicazione delle leggi. Non a caso il regista, uomo d’ordine e severo nei suoi giudizi, rinnova la sua pur limitata fiducia in queste due istituzioni così come faceva nel suo secondo film In nome della legge del 1949. Ed ancora una volta Germi simpatizza con la spregiudicatezza, l’intelligenza e il coraggio delle giovani donne interpretate da Stefania Sandrelli che esprime a pieno la ingenua sensualità del personaggio.
«I personaggi, infatti, i loro caratteri e persino il loro aspetto fisico, le situazioni che li hanno al centro e le soluzioni cui vengono indirizzati sono tutti immersi in un clima caricaturale alla Grosz permeato quasi soltanto di violentissima asprezza e, a volte, di una così spietata ferocia da rilevare negli autori soprattutto antipatia e disprezzo nei loro confronti e mai, invece, un minimo di pietà o di commiserazione.»
(Gian Luigi Rondi, Il Tempo 31 gennaio 1964)
Nel film non manca la connotazione critica nei confronti di una società, che in quei tempi, e forse non soltanto allora, considerava il matrimonio elemento degno per la sua stessa natura di porre rimedio a un reato che come tale andava comunque condannato:
«In Sedotta e abbandonata il regista attacca un altro aspetto della nostra legislazione, cioè l’articolo che attribuisce al matrimonio il potere di cancellare ogni precedente reato dell’uomo nei confronti della donna, dalla violenza al ratto. Come nel film precedente Germi prende pretesto da uno spunto polemico per affrontare un tetro quadro d’ambiente.»
(Tullio Kezich, 1966[7])
Leopoldo Trieste
Saro Urzì
Ma in vero per evitarne una – è questa la morale del regista – si assumeva una condanna più pesante come quella che si prospetta per la futura vita di Peppino, anche lui trascinato all’altare per evitare il disonore e la galera, destinato ad una vita d’inferno assieme ad una donna che lo disprezza, condannato a vivere per sempre in un’unione che allora si poteva solo sciogliere con un “divorzio all’italiana”.
Una piccola parte ma che costituisce un cammeo è quella interpretata da Leopoldo Trieste, un noto caratterista del nostro cinema, che ancora una volta, come nel precedente film di Germi, rappresenta nei tratti del suo volto espressivo, la figura del siciliano estroso e bizzarro dalle movenze disarticolate e stralunate.
Su tutti giganteggia, quasi fisicamente, l’interpretazione del grande Saro Urzì nei panni di Don Vincenzo Ascalone, che si dibatte attraversato da mille ansie in un frenetico e grottesco agitarsi nel trovare complicate soluzioni barocche per conservare il mitico onore siciliano della famiglia. Egli diventa il simbolo della cattiva sicilianità: quella degli “amici degli amici”, dell’ipocrisia sociale, dell’egoismo del proprio “onore” in nome del quale sacrificare anche i suoi stessi figli. Su di lui s’abbatte la critica corrosiva del regista che non si ferma neppure dinanzi alla morte del personaggio, anch’essa rappresentata grottescamente..
«Il film ironizza in modo più che sardonico su quella Sicilia in cui salvare il cosiddetto “onore” è di importanza vitale, in cui sono le apparenze quelle che contano (memorabile la scena in cui il padre della ragazza costringe tutta la famiglia, appena usciti dal commissariato, a ridere per far credere alla gente che si era trattato di un malinteso), e le donne hanno l’importanza di un soprammobile. Sicilia questa che all’epoca di Germi esisteva ancora e che oggi non è del tutto scomparsa. Incantevolmente dimessa la Sandrelli e prepotentemente sanguigno il grande Saro Urzì (nella parte del padre della ragazza). Germi non è mai stato così pungente e sferzante, con un stile poi da lasciar a bocca aperta. Un capolavoro della “commedia all’italiana”.»
(Morando Morandini, Dizionario dei film, 2007[10])
PREMI E RICONOSCIMENTI::
- 1964 – Festival di Cannes
- Migliore interpretazione maschile a Saro Urzì
- Candidatura alla Palma d’oro a Pietro Germi
- 1964 – David di Donatello
- Miglior regista a Pietro Germi
- Miglior produttore a Franco Cristaldi
- 1964 – New York Film Critics Circle Awards
- 2º posto Miglior film in lingua straniera (Italia)
- 1965 – Nastro d’argento
- Migliore attore protagonista a Saro Urzì
- Migliore attore non protagonista a Leopoldo Trieste
- Miglior produttore a Franco Cristaldi
- Migliore sceneggiatura a Pietro Germi, Luciano Vincenzoni, Age & Scarpelli
- Candidatura al regista del miglior film a Pietro Germi
- Candidatura al miglior soggetto a Pietro Germi e Luciano Vincenzoni
- Candidatura alla migliore fotografia in bianco e nero a Aiace Parolin
- Candidatura ai migliori costumi a Carlo Egidi