IL POST MONDO  DOMENICA 31 MAGGIO 2020 :: Da dove vengono le rivolte americane ::: Un estratto dal recente libro di Francesco Costa sugli Stati Uniti, Mondadori, 2020

 

 

Questa è l’America. Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro

 Francesco Costa

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Editore: Mondadori
Collana: Strade blu. Non Fiction
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 28 gennaio 2020
Pagine: 204 p., Brossura
18 EURO PREZZO PIENO

 

 

Ci sono pochi posti nel mondo dove il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo è tanto ampio quanto nel caso degli Stati Uniti. L’influenza statunitense nei nostri consumi è così longeva che pensiamo di conoscere bene l’America quando in realtà, nella gran parte dei casi, la nostra idea è un impasto di luoghi comuni e poche informazioni concrete. Convinti che gli statunitensi siano tutti armati fino ai denti, non sappiamo, per esempio, che la metà delle armi in circolazione in America è posseduta dal 3 per cento della popolazione. Coltiviamo il luogo comune per cui gli Stati Uniti usino la mano pesante contro l’evasione fiscale e i reati dei cosiddetti colletti bianchi, ma in carcere ci vanno ancora soprattutto ragazzi neri. Ragioniamo e discettiamo sulla cultura americana e sulla sua idea di Stato e libertà, paragonando il tutto a quello che succede qui da noi, senza sapere o tener conto che gli Stati Uniti sono un Paese molto poco popolato: ci sono più persone nella sola New York di quante ce ne siano in 40 dei 50 Stati. Siamo abituati a leggere l’intera politica estera statunitense innanzitutto sulla base del petrolio, e della necessità di trovarlo, ma oggi gli Stati Uniti sono pressoché indipendenti dal punto di vista energetico. L’elenco potrebbe continuare. Allo stesso modo, abbiamo accolto il risultato elettorale più clamoroso in quasi tre secoli di storia statunitense, la vittoria del repubblicano Donald Trump alle presidenziali del 2016, a pochi anni di distanza dell’elezione di Barack Obama, primo presidente nero, come la logica e prevedibile conseguenza dei nostri luoghi comuni. Eppure ci sono fatti e cambiamenti profondi e non sempre visibili che spiegano eventi così straordinari. In quest’anno così cruciale per la politica statunitense, che porterà all’elezione di un nuovo presidente o alla rielezione di Trump, Francesco Costa riflette sulle trasformazioni e i problemi dell’America, quella vera, raccontandoci il doloroso ma inesorabile smarrimento di un Paese speciale che diventa ogni giorno più normale.

 

 

Francesco Costa - Election Days™

Francesco Costa (Catania, 21 aprile 1984) è un giornalista, blogger e saggista italiano.

È vicedirettore del giornale online il Post.

 

NOTIZIE SU DI LUI:

https://www.francescocosta.net/chi-sono/

 

IL POST

 

 

  • MONDO 
  • DOMENICA 31 MAGGIO 2020

 

https://www.ilpost.it/2020/05/31/costa-storia-razzismo-stati-uniti/

 

 

Da dove vengono le rivolte americane

 

Un estratto dal recente libro di Francesco Costa sugli Stati Uniti, per comprendere il più ampio contesto storico alla base delle proteste di questi giorni

 

 Un manifestante a Philadelphia. (Yong Kim/The Philadelphia Inquirer via AP)

Le proteste e le rivolte che avvengono da giorni negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis, non sono comprensibili in tutte le loro ragioni e implicazioni se non all’interno del più ampio contesto dell’oppressione e discriminazione sistematica degli afroamericani negli Stati Uniti, e nelle loro origini storiche. Pubblichiamo un estratto di Questa è l’America, un libro scritto da Francesco Costa, peraltro vicedirettore del Post, che racconta come gli Stati Uniti d’America sono diventati il paese che sono oggi, attraverso otto storie esemplari dei grandi cambiamenti degli ultimi vent’anni. L’estratto che segue è tratto dal capitolo che racconta la storia della città di Flint, la città che dal 2014 per anni ha distribuito acqua tossica ai suoi cittadini, prevalentemente afroamericani.

***

 

Nonostante la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti dichiari notoriamente che «tutti gli uomini sono stati creati uguali», i Padri fondatori pensavano a uomini con la pelle di un colore ben preciso; e la difesa della schiavitù dalla crescente ostilità degli inglesi fu anzi uno dei motivi – e quello di cui negli Stati Uniti si parla meno volentieri – per i quali gli americani cercarono quella stessa indipendenza. Gli schiavi non erano considerati esseri umani: la loro condizione era ereditaria e perenne, e i singoli schiavi potevano essere scambiati, smembrati, venduti, mutilati, comprati, stuprati, dati in pegno, regalati. Niente poteva appartenere agli schiavi, nemmeno i loro figli; tutto si poteva fare di loro, e tutto gli veniva fatto. I pochi afroamericani che riuscivano a riscattarsi dalle gabbie e dalle catene, in senso letterale, venivano spesso uccisi impunemente; le loro imprese distrutte, se osavano aprirne una; le loro fortune saccheggiate.

Questo andazzo proseguì per molto tempo dopo la formale abolizione della schiavitù – seguita a una guerra nella quale centinaia di migliaia di persone erano morte pur di difenderla – grazie all’imposizione legale di una vera apartheid costruita allo scopo di continuare a trattare i neri come subumani, e isolarli dalla vita pubblica. «Separate but equal», stabilì la Corte suprema, ma di equal non c’era niente. La segregazione informale era onnipresente – tutto esisteva in due versioni, dalle scuole alle cabine telefoniche, dai parcheggi ai cimiteri, e solo una delle due era dignitosa– e così la violenta sottomissione dei neri, che non potevano testimoniare contro un bianco, che dovevano fargli spazio sui marciapiedi o al bancone del bar, che erano soggetti a ogni tipo di prepotenza. Nessuna vera emancipazione poteva essere consentita. Dopo aver impedito per secoli ai neri di imparare a leggere e scrivere, si stabilì che solo chi sapeva farlo poteva votare. Quando con il New Deal il governo federale si impegnò a sostenere il mercato immobiliare attraverso i mutui garantiti dallo Stato, stabilì che queste agevolazioni non sarebbero arrivate ovunque: i quartieri abitati in gran parte da afroamericani vennero evidenziati in rosso nelle mappe – da qui il nome che prese questa pratica, redlining – e non avrebbero percepito niente.

 

Ancora in pieno Novecento gli imprenditori afroamericani di successo venivano uccisi e derubati senza conseguenze, mentre chi osava ribellarsi veniva linciato. Le cose sono cambiate lentamente e inesorabilmente, per fortuna, ma sono ancora lontanissime dalla normalità. Il funzionamento del sistema giudiziario nel corso degli anni, per esempio, riflette ancora oggi questa asimmetria: non esiste un solo tipo di reato che non veda ancora una gigantesca sproporzione di pene e condanne a svantaggio dei neri; e il progressivo strumentale irrigidimento delle norme ha permesso di condannare all’ergastolo anche ragazzini di tredici anni che avevano commesso reati non violenti. Quasi tutti neri: come peraltro sono in maggioranza i detenuti negli Stati Uniti, il paese che mette in proporzione più persone in carcere in tutto il mondo, nonostante gli afroamericani siano il 13 per cento della popolazione.

Nel frattempo le storie di neri uccisi dalla polizia a un posto di blocco o in mezzo alla strada circolano settimanalmente, senza conseguenze, e molti Stati continuano a cercare norme e cavilli per limitare la partecipazione degli afroamericani alle elezioni.

In una nazione che ha solo trecento anni di vita e ne ha passati duecentocinquanta a sottomettere i neri con tutta la forza dello Stato – la legge sui diritti civili è solo del 1964 – una segregazione così sistematica e con radici così profonde si è riprodotta spontaneamente a Flint quando il suo sistema economico è crollato: la maggior parte dei bianchi se l’è cavata o se n’è andata, la maggior parte dei neri è rimasta e nessuno si è più occupato della città, se non per commissariarla e ignorare quasi due anni di proteste mentre le persone bevevano rifiuti tossici.

La deindustrializzazione ha fatto male a tutto il Michigan, ma a pochi posti ha fatto male come a Flint: e mentre Flint affondava, e i suoi bambini subivano danni irreparabili, a pochi chilometri si trovava comunque un qualche modo di restare in piedi, in città che avevano almeno l’acqua pulita e l’asfalto senza buche. Come ha scritto Richard Manning, giornalista e scrittore originario di Flint, quello che è capitato è una specie di piccolo esperimento sociale: non è che i posti come Flint fossero i soli ad avere problemi in Michigan o nel Midwest, ma quelli sono i posti in cui è stato tirato il confine. Nei posti come Flint è stata praticata per decenni una specie di esternalizzazione dei problemi, per cui tutto quello che funzionava è stato progressivamente portato via e tutto quello che non funzionava è stato abbandonato lì, per cui a ogni crisi è seguita un’altra crisi, a ogni disastro è seguito un altro disastro, dando la città per irrecuperabile e in questo modo rendendola effettivamente irrecuperabile.

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