ROB.ROD – ROMANZO ” RITORNI E PARTENZE ” — PRIMO CAPITOLO

 

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Chi costruisce chi?

(senza scomodare Pirandello)

 

 

Paul Klee, Strada principale e strade secondarie (1929) olio su tela, 83 x 67 cm, Ludwig Museum (Colonia) Fonte: community.artauthority.netPaul Klee, Strada principale e strade secondarie (1929) olio su tela, 83 x 67 cm, Ludwig Museum (Colonia)

 

 

Con mano incerta Luca accese una sigaretta.

Sono un ragazzo di buona famiglia, io, con padre commerciante e madre casalinga, anzi, coadiuvante per motivi di pensione.

Lavoro quando posso, quando trovo e quando la noia di quel che trovo mi permette di continuare.

Accese una sigaretta e si riadagiò sulla poltrona: se n’era andata e lui non aveva capito niente, parlare parlare e non aveva capito niente.

Fra i fumi del cervello e quelli della sala, era un po’ annebbiato. La musica lo raggiungeva a strappi, scivolando come poteva fra le chiacchiere della gente e lo scalpiccio dei ballerini.

Se ne stava stravaccato sulla poltrona bevendo un negroni dietro l’altro, perché allora era di moda bere negroni, incerto fra il restare o l’andarsene, ma ormai il problema pareva non avere più importanza.

– Ti voglio bene ma non mi fido. Ti voglio tanto bene ma non mi fido. E’ meglio se non ci vediamo più e non telefonarmi più perché non ti risponderò, mi farò negare. Perché sento che potrei volerti bene, ma non mi fido. Non mi fido di te e non mi fido di me e non te l’ho mai detto perché avevo paura.-

Per la Madonna!

Ventitré anni e te la fai sotto per un po’ d’amore. Adesso, me lo dici adesso, e scappi!

– Ma tu l’hai sempre saputo. –

Facile a dirsi, se non so nemmeno cosa penso ora, figurarsi se riuscivo ad immaginare quel che provavi tu.

– E’ meglio se non ci vediamo più. Potremmo restare buoni amici, se vuoi. –

Buona questa. Merda.

Non fidarsi di me, un bravo ragazzo di buona famiglia borghese. E poi, cosa vuol dire fidarsi o non fidarsi, non ci dobbiamo sposare…. O forse tu pensavi che io avrei potuto o tu avresti voluto.

Oh merda! Merda due volte.

Se consideriamo i fatti, quella ragazza lì, Lucia, non mi merita. Meschina, calcolatrice.

Cosa volevo io alla fin fine?

Un po’ d’amore, un po’ d’affetto, un po’ di sesso. Sano, senza troppi problemi. Utile a tutti e due.

Cosa vuol dire non fidarsi di me? Non ho malattie, non la vado neanche a sputtanare ai quattro venti, non sono stupido, non sono carogna.

Cos’eravamo poi, se non due buoni amici. Che cazzo di discorso, con quel che ho combinato con lei, al confronto Platone era un satiro scatenato.

E intanto beveva e forse un po’ troppo per un bravo ragazzo di sana famiglia borghese.

Forse era ubriaco.

Forse era ora di andare a dormire o cambiare locale.

Forse era ora di cambiare e basta.

La corsa pazza verso il telefono, una mattina tutto assonnato. Il telefono che urla, le orecchie che stridono i nervi che saltano.

– Pronto? –

-Ciao Luca, ti amo –

-Laura! Anch’io. –

Tutto naturale, a parte quel cuore maledetto che non lo lascia ascoltare. A parte i conati di vomito che cominciano ad assalirlo in gola.

Tutto naturale.

– Ma da dove chiami? Dove sei? –

– A Udine, dove vuoi che sia? Ciao, mio barbarossa, ti amo ma il telefono costa. E’ la telefonata del buon mattino. –

Il telefono è già muto. Tutto qui. Un ricordo improvviso che spezza il cuore.

Si chiede se è esistito veramente, quel ricordo, quell’amore. E come ha potuto essere.

Nessuna paura d’amarlo. Un ricordo che fa sempre male.

Ubriacarmi per amore? Lucia. No. Rabbia, piuttosto, noia.

In fondo, che c’è stato tra noi?

Ti conosco appena e già dici che non ti fidi. Mia cara, nessuno ti chiede di fidarti di questo bravo ragazzo di buona famiglia borghese, anche se la famiglia, lasciamelo dire, a volte è una garanzia.

Sono fatti tuoi.

Diventa una tua scelta, al momento che ti poni una scelta.

Prendere o lasciare, a scatola chiusa. Una punta di rischio in amore è necessaria.

No, tu tutto calcoli, tutto misuri.

Vorresti aprire la scatola prima di decidere.

Mi offendi per principio, certo non per convinzione, perché lo so, nel tuo mondo dove io non c’entro, hai ragione tu: tutti abbiamo ragione nel nostro piccolo mondo dove non lasciamo entrare gli altri.

Ma non accampare diritti su di me per quei due o tre ricordi che stentatamente porteremo in comune per qualche giorno appena.

Tu non mi resti.

Mi offende il tuo rifiuto e mi lusinga: la mia mascheratura regge.

Chi sono io, piccolo scribacchino presuntuoso di provincia, con due o tre vizietti innocui, fatti di sole chiacchiere e di sogni, perché tu ritenga di contaminarti al mio contatto?

Una fetta di pizza, piccolina in verità e subito digerita, fu il loro cupido: regalata allo spilungone con la barba rossa e incolta e lo sguardo spiritato, sulle scale della facoltà a Genova, dove era andato a manifestare insieme a tanti altri, non sapendo cos’altro fare.

Con un vago senso di necessità e di inutilità, perché il suo tempo era passato.

…..Gliela strappai di mano nel dubbio che non volesse insistere nel gesto.

E fra un boccone e l’altro si può anche parlare.

Le buttai subito addosso il mio essere poeta, e perché no?, l’aver fatto del cinema, in uno stampatello grondante di vino e cappuccini.

Sprecai così una rara possibilità di modestia: lei mi conosceva già. Anche Lucia era di Sanremo.

Il pavone ingigantì :” Questa me la faccio qui sulle scale” pensò quel bravo ragazzo di famiglia borghese, travestito.

Macché: fica consacrata fica inviolata.

Dopo mezz’ora di chiacchiere inutili, per lo più mie:

– Devo andare a messa. – mi disse senza alcun pudore.

Rimasi lì come uno scemo a vederla andare via, pensando per salvare il mio amor proprio, che incontri strani se ne fanno sempre, ma mezz’ora sprecata malgrado la pizza, era troppa.

E invece no, come un cretino recidivo andai a cercarla la settimana dopo a Sanremo, accontentandomi, fra una messa e l’altra, di due baci a labbra strette col cazzo duro nei pantaloni, represso fino a fargli venire il complesso d’inferiorità.

Facemmo così tante belle passeggiate lungo il porto, tenendoci per mano e tante e tante parole.

Ripresi perfino colore ed ingrassai di qualche etto.

…..Ma che vita volevi che cambiassi?

Non capivi le continue mascherature del buffone: il bicchiere di vino in più, le parole buttate in faccia per nascondere la maledetta timidezza?

Quei quindici giorni palpeggiando solo la tua mano ( Oh cazzo, che erotismo!) non ti hanno aperto gli occhi su questo sfrontato bugiardo?

No. E stasera, suffragetta dell’esercito della salvezza, con passo incerto hai osato scendere gli scalini del vizio. Come la favola d’Orfeo con scambio di ruoli, il tuo amore ha aperto le porte dell’inferno ma all’ultimo momento non ti ha permesso di salvarmi: come sempre la vanità ha vinto.

Ma tu, grazie al cielo, ne sei uscita indenne.

Perché no, tu non puoi fidarti di questo bravo ragazzo di famiglia per bene.

Lucia. Lucia, non è per te, non è solo per te che non trovo pace. Sono tante piccole storie dentro altre storie. Ti giuro, ti ho quasi dimenticata.

Francesca che con aria tranquilla gli domanda: – Hai idea del perché i miei si sono separati? –

No di certo, Luca non ne sa niente e nemmeno gli interessa saperlo: quella ragazza lì l’ha appena conosciuta, cosa gli importa?

Laura che gli ha appena scritto una lettera. Lunga. Tre pagine fitte fitte, lette in fretta.

C’è un senso di scoramento, di inutilità che intravvede tra le righe.

Cosa fare, scrivere? Telefonare?

Non basta. Non serve.

Si vedranno a febbraio.

Ma che senso avrà?

Fa segno di no con la testa mentre guarda Francesca come se la vedesse.

Francesca parla con voce tranquilla ma Luca non la sta ascoltando, anche se sono seduti appartati in una nicchia di quel locale di Sanremo Vecchia, vecchie travi fumose e gente a bere vino seduta al banco.

Un’ora dopo la deve accompagnare a casa, sbronza fradicia che neanche si regge in piedi: Francesca è docile, come assente, solo non sa dove sia la sua casa.

Anche così può nascere una storia.

Laura Francesca Lucia. Tre storie diverse. Tre storie finite.

Ed ora tu mi dici, lo sento chiaro perché era ieri :

– Non sono sicura. – E ridi. Ma non ti vuoi prendere gioco di me, lo so.

– Non sono sicura di volerti bene ( non oseresti mai dire “d’amarti”, suona scandaloso), no, non è vero, ti correggi, so di volerti bene.-

Ma non mi dici mai una parola d’amore: pudore? Ipocrisia?

E ridi per mascherare l’imbarazzo.

Sono a Padova, alla ricerca di un letto per dormire. In quella sudicia pensione, pensione Bologna?

Si barricano nella stanza perché la porta non chiude bene, pensando ad un’irruzione della polizia o solamente del proprietario.

Chiusi nella stanza si guardano. Si sentono intimiditi dopo tanto desiderio. Si spogliano lontano uno dall’altro, con gesti misurati. Si guardano, si scrutano per vedere se sono ancora uguali, se sono cambiati. Si sorridono. Entrano nel letto cigolante ciascuno dalla propria parte.

Tutta la notte sarà come una musica. Non diranno una parola, solo quel letto cigolante che è una musica, che resterà nei loro ricordi come una musica di sottofondo, per un amore sempre in bilico, sempre cigolante come un vecchio letto.

La mattina dopo si ritrovano pesti al bar della stazione ma la notte passata non si può dimenticare.

Una di quelle notti che si pensa debba essere l’ultima.

Quando si soffre per un amore che s’immagina finito e non si vorrebbe tale.

I suoi occhi, gli occhi di Laura, erano di vetro trasparente quella notte.

Poi, solo come non è più abituato ad essere, si è infilato in quel treno pieno zeppo e puzzolente. Si è rincantucciato in un angolo del vagone di coda vedendo passare tutto il tempo trascorso, sulle rotaie lucide.

Ogni due minuti accende una sigaretta per leggere le raccomandazioni di non fumare che Laura gli ha scritto sul pacchetto.

Aveva l’abitudine di scrivere appunti, Laura, ricordi suoi dappertutto, anche sui fazzoletti di carta.

– Un modo per non dimenticarmi.- Diceva.

Laura, nessuna sfiducia verso di me, non aveva giudizi, mi accettava com’ero.

“Ma è tutto finito. Sepolto!” Si disse, sprofondato nella poltrona, ed era ormai talmente ubriaco che neanche ricordava a cosa pensasse.

Ricorda la prima volta che l’incontra.

La vede come una ragazza scialba, non bella, piuttosto comune, trasandata e con le scarpe impolverate.

Strano come certi particolari inutili restino a mente.

Sono le otto del mattino ed è seduta su una panchina alla stazione di Fano, assonnata ed indifferente.

Così hanno inizio gli arrivi e le partenze.

Mentre sono lì ciondoloni, che dondolo col vento che non c’è – un’intera notte di viaggio su dure panche di legno per di più corte, che sdraiandomi mi restavano le gambe completamente fuori – arriva il treno.

Come al mio solito mi attardo sulla pensilina, come se avessi dubbi sul treno da prendere, classico atteggiamento dello svagato costruito.

– Anche lei va ad Urbino? –

Così mi sento apostrofare da un accento morbido e cantilenante che mi dà del “lei”.

– Si. – rispondo con tutto il mio fascino addormentato, con la stessa gentilezza con cui ci si toglie una mosca dal naso e rimango immobile al mio posto.

Ma la voce insiste:

– Allora guardi che il treno è arrivato! –

A quel punto, il fantastico sbadato (quant’è letterariamente gratificante sentirsi inadeguato a compiere le azioni più comuni, come quella di salire su un treno!) si riscuote, si guarda intorno con aria perplessa e vede la scialba bruttina dalle scarpe impolverate che gli arriva appena alla spalla, che lo guarda con occhi ansiosi e protettivi.

Vede anche che bruttina e scialba non lo è affatto.

Le restano solo le scarpe impolverate ed un viso stanco come il mio.

Fui dunque gentilissimo e premuroso per la durata di due lunghissimi minuti, il tempo di prenderle le valige logore e pesantissime, scaraventarle sul vagone, quindi, con evidente fatica, trasferirle sulla retina porta bagagli.

Sorrisi anche, con alito e sguardo bovino, ed il mio gesto successivo poté venir interpretato per un inchino, da come restai piegato, dopo aver sollevato tutto il bagaglio.

Nel frattempo, mentre la guardavo, avevo dimenticato la mia sacca per terra.

Rischiammo di perdere il treno e la sacca.

Ma così sentivo di averla intrappolata: col suo bagaglio nelle mie mani non poteva scappare ed è risaputo che a Luca, affascinante parlatore, bastano poche chiacchiere per mietere conquiste.

Salimmo finalmente. Faticosamente io, con piede danzante ed impolverato lei, e ci sedemmo vicini vicini, nell’unico posto rimasto libero.

Fu il nostro primo treno e la nostra prima stazione in comune.

Attraverso il finestrino sporco ed impolverato intravvedevo il mare ancora in ombra ed una lunga lingua di sabbia tutta uguale, talmente monotona che, se non fosse stato per qualche ragazzotto mattiniero, mi sarebbe parso che il treno non si muovesse nemmeno.

Ma io ero incurante di tutto, troppo grande essendo la sensazione percettiva del corpo della ragazza appena incontrata e, soprattutto, la mia completa libertà.

Quella era la prima volta che mi trovavo solo e lontano da casa, libero delle mie azioni, senza dover rendere conto a nessuno.

Non ricordo nulla di quel momento se non l’eccitazione del mio stato e la consapevolezza determinante del corpo di lei appoggiato senza problemi sul mio fianco.

Il fianco mi bruciava e la sensazione di rigidità che aveva assunto il mio corpo mi assaliva fino al collo, permettendomi di girare appena la testa.

Il treno era stracolmo di persone oscillanti alle otto del mattino. Tutti pendolari, tranne noi.

Così eravamo seduti stretti in quell’unico posto galeotto. Galeotto?

Ma si, chiappa a chiappa invece che guancia a guancia.

Mi aveva visto distratto e perso. Le ero sembrato uno che non sapesse cosa fare o dove andare. Per questo, mi spiegò come per scusarsi, si era ritenuta in obbligo di aiutarmi.

– E’ stato un impulso, dice, di solito non rivolgo la parola agli sconosciuti.

Ride guardandomi: visto di sfuggita mi sei parso molto più vecchio. Non uno studente! –

Io cerco di vedermi anche senza specchio: jeans e maglietta gialla che non nasconde le costole evidenti. Alto, magro come un chiodo, aria sofferta (questa me la sentivo veramente addosso), naso prominente e prorompente, incorniciato da una barba rossa ed incolta, capelli arruffati sugli occhi.

Mi sento soddisfatto ed orgoglioso del mio aspetto e per questa sua prima impressione, così evito di chiarire che ho solo diciannove anni e sono una miserabile matricola.

E su per la salita, fino ad Urbino antica.

Non mollai per un attimo le sue valige: già avevo paura di perderla, prima ancora di averla.

La lasciai camminare per due ore, seguendola come un mulo da soma, alla ricerca di un’impossibile camera (la sprovveduta, in tempo di esami se n’era venuta così alla cieca, sperando nella provvidenza!), prima di proporle, con aria di angiolo innocente, appena disceso da un dipinto, l’ovvia soluzione:

– Ho una stanza enorme…- dissi.

Pausa ad effetto e la guardai.

– Con due letti. – finii laconico, perché ora toccava a lei parlare, anzi, soluzione ovvia: accettare.

E accettò!

Cristo, accettò!

Questa non me l’aspettavo, giovane imberbe, demi-vierge, ci avevo provato per darmi delle arie di uomo di mondo.

Detto e non pensato seriamente.

Naturale no?

Due buoni amici dividono la stanza: metà spesa e comodità per entrambi.

” Amici? Amici del cazzo, tutti e due del cazzo, del cazzo!” Pensai, e sapevo pensare solo a questo.

Avevo perso ogni loquacità. E forse mi si leggeva negli occhi che cosa pensavo.

Mi si rizzò di colpo, duro come un bastone ed era doppia fatica: nascondere il bozzo nei pantaloni, far finta di niente e trascinare quelle maledette valige .

Credevo che tutti me lo leggessero negli occhi che cosa pensavo: folli notti erotiche.

Ma mi sentivo inibito prima ancora di provarci, prima ancora di arrivare alla camera, di arrivare alla notte.

Ma saremmo arrivati alla notte?

Saremmo arrivati alla camera?

Forse, se non avessi avuto la responsabilità di quelle due valige ed il senso del ridicolo sempre presente, sarei scappato.

Se non fosse stato per lei, gli occhi neri dietro i leggeri occhiali da vista, i capelli castani coi riflessi rossi, lunghi sulle spalle, il naso piccolo e diritto, la bocca morbida, le labbra piene sottolineate da un tocco di matita scura, gambe snelle e il corpo….Il corpo.

Cristo!

Aveva anche il corpo, ed il corpo aveva proprio tutto.

Ero uno sprovveduto, malgrado le mie arie di seduttore navigato, sfigato, smaliziato, cinico scettico ( o così mi sembrava di avere l’espressione):

tre straniere acchiappate al volo tra un sussurrato ” I love yu” e ” du yu lake my?” imparate a memoria dagli amici, invidiati poliglotta.

Logico, loro conoscevano tutte le canzoni dei Beatles e si erano fatti una cultura.

Ed ora, l’ignobile cretino incauto, si trova nei pasticci:

– Ho una camera grandissima.- Pausa ad effetto – Con due letti. –

– Ma allora abbiamo risolto! Potevi dirmelo prima….Ma, non ti disturbo? –

Senza neanche pensarci. Senza neanche pensare a me.

Ed io, chi ero io ? Un materasso anch’io o solo un inutile soprammobile?

” Un mezzo, mi dicevo strada facendo, solo un mezzo.”

E in quel momento forse, mi andava anche bene di essere solo un mezzo.

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1 risposta a ROB.ROD – ROMANZO ” RITORNI E PARTENZE ” — PRIMO CAPITOLO

  1. roberto scrive:

    Premesso che “chi costruisce chi” lo trovo un buon titolo!! Grazie. Tu che ne dici?
    Era da anni che ero alla ricerca di un titolo.
    Per il resto però ti trascrivo pari pari quanto ti ho scritto sotto la lettera a Daniele che è già l’inizio del romanzo, anzi, uno dei punti centrali.
    Poi, è vero che ti go detto di stare attenta agli spazi, ma sospetto che tu abbia esagerato 🙂 non riesci a rispettare ( o nell’invio sono spariti) gli spazi come nel testo che ti ho inviato?
    Intanto: grazie! io mi sarei già mandato a quel paese! Ti abbraccio!

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