ONDAROCK– 8 DICEMBRE 2019
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FEDERICO ROMAGNOLI
Con un sentito ringraziamento a Thiago Filardi per appoggio e consulenze.
È l’aprile del 1975 quando un doppio Lp, risultato della collaborazione fra Gilberto Gil e Jorge Ben, raggiunge i negozi brasiliani. Si intitola “Ogum Xangô”, dai nomi di due orixá, spiriti semidivini tipici del candomblé: il primo è il signore del ferro e della guerra, il secondo – dal corpo metà bianco e metà nero – è quello del fulmine e della giustizia.
Il candomblé è una religione brasiliana frutto dall’integrazione sincretistica fra la mitologia yoruba (popolo dell’Africa occidentale fra i più depredati durante la tratta degli schiavi per la colonizzazione delle Americhe), la religione cristiana e i culti degli indios.
Molti orixá si sono nel corso del tempo fusi con i santi cristiani, di cui rappresentano una sorta di avatar e/o alter ego: Ogum è per esempio accostato a San Sebastiano nella zona di Rio de Janeiro, mentre Xangô si sovrappone spesso a San Gerolamo.
Per comprendere meglio il fenomeno, può essere utile sapere che anche il vudù di Haiti e la santeria di Cuba, nettamente più noti nei paesi del primo mondo a causa delle numerose citazioni “pop” (film, romanzi e in internet anche numerosi meme), hanno radice nella mitologia yoruba e nell’intreccio di questa con credenze locali e cristianesimo. Benché cambino i particolari di regione in regione, i paralleli rimangono evidenti: a Cuba, per esempio, Xangô si chiama Chango e si sincretizza con Santa Barbara, pur mantenendo un corpo maschile.
Non è un titolo pretestuoso: misticismo, simbolismo e religione ricorrono non solo in numerosi punti dell’album, ma in generale nelle creazioni di molti fra i più importanti nomi della música popular brasileira di quella generazione. I dischi di Jorge Ben ne sono costellati: per esempio “A Tábua de Esmeralda” (1974), concept album dedicato a Ermete Trismegisto, filosofo probabilmente mai esistito, parte della mitologia greco-egizia dell’era tolemaica, o “Solta o pavão” (1975), che contiene brani dedicati a San Giorgio e San Tommaso (di quest’ultimo anche adattando alcuni versi).
Gilberto Gil, dal canto suo, appena l’anno successivo si sarebbe imbarcato nel supergruppo Doces Bárbaros, all’insegna di croci, oggetti ritualistici, collane e bracciali magici, brani dedicati al libro della “Genesi”, a San Giovanni, ancora a Xangô e chi più ne ha più ne metta.
L’ubriacatura esoterica non riguardava soltanto Ben e Gil, come si accennava: anche Caetano Veloso aveva citato un orixá in una propria canzone (Iemanjá, madre del mare e simbolo di fertilità, in “Sol negro”), mentre il padre del soul brasiliano, Tim Maia, dedicò ben due album al pensiero della cultura racional, setta locale che si poggiava su un intruglio di filosofia e spiritismo. Questo spiega l’uscita di così tanti album che, nel corso degli anni Settanta brasiliani, toccarono simili tematiche: una cospicua fetta dell’intellighenzia artistica del paese ne era, se non soggiogato, perlomeno affascinato. Meno il pubblico in realtà, che non sempre salutò con entusiasmo simili operazioni: lo stesso “Ogum Xangô” all’epoca fu un fiasco commerciale, nonostante l’imponente fama dei due intestatari.
Come talvolta accade a progetti così estremi, il tempo gli ha tuttavia reso giustizia e oggi è considerato uno dei migliori album di ambo i cantanti.
Nato su suggerimento del discografico André Midani, che aveva assistito a una jam acustica fra i due, il disco venne registrato presumibilmente in presa diretta, sotto la direzione di Perinho Albuquerque e Paulinho Tapajós (produttori fra i più importanti del giro, al fianco, fra i tanti, anche di Gal Costa e Maria Bethânia).
Si tratta di un’opera fortemente sperimentale, con otto brani su nove a estendersi oltre i sei minuti, ben oltre la durata delle canzoni tradizionali. Gli arrangiamenti sono all’insegna degli strumenti acustici e del minimalismo: ci sono solo le chitarre di Ben e Gil, le percussioni del professor Djalma Corrêa (studioso delle correlazioni fra le musiche di Africa e Brasile) e occasionalmente il basso del turnista Wagner Dias, unica presenza elettrica.
Il primo vinile si apre con la preghiera di “Meu glorioso São Cristovão”, scritta da Ben: “Mio glorioso san Cristoforo, mio glorioso martire. Mio glorioso martire portatore di Cristo, intercedi per noi. Nel flagello di terremoti, inondazioni e incendi, in viaggio per terra, sottosuolo, mare e aria, liberaci dal peccato, dal peccato della perdizione. Ci rivolgiamo a Dio, nel rifugio sicuro della felicità eterna. Imploriamo per Gesù Cristo, che hai portato sulle tue spalle. Amen”.
Il brano fa da stampo per tutta la scaletta: una jam acustica che fluisce torrenziale fra arpeggi intrecciati e percussioni, con l’influenza ritmica di samba e baião che affiora ciclicamente, mentre le due voci ripetono il testo a oltranza. Jorge Ben guida la melodia, talvolta interrompendola con tratti parlati, Gil lo segue copiandone le frasi e armonizzando, non di rado arrampicandosi in impressionanti acuti. All’occorrenza si fa ricorso a onomatopee e vocali estese, per riempire gli spazi il più possibile, laddove non bastasse il profluvio metrico del testo.
“Nega” è un blues di Gil cantato in inglese e originariamente pubblicato nell’album del 1971, realizzato durante l’esilio a Londra imposto a lui e Veloso dal regime militare dell’epoca. La rivisitazione qui presente è radicale, tanto che si stenta a riconoscere la canzone: non solo dura il doppio, ma la sua forma si è sfaldata, la componente blues diluita, mentre il testo originale, dedicato a una donna esotica e misteriosa di cui il narratore è innamorato, viene esteso con l’aggiunta di frasi inedite o replicando le parole come in una sorta di ascesi: poco dopo l’inizio del sesto minuto Gil ripete “Nega” almeno venticinque volte di fila (il numero è approssimato perché a un certo punto diventa uno scioglilingua inintelligibile), mentre Ben domanda, di nuovo parlando: “My tropical woman, is it you, Nega?”.
L’ilare “Jurubéba” prende il titolo da una pianta medicinale diffusa in tutto il Brasile, da cui viene ricavato anche un liquore. Pare che gli autori ne abbiano consumate quantità importanti durante le sessioni dell’album, come ben dimostrato dall’energia delle chitarre e dal delirio di vocalizzi astratti sputati a raffica, parole mozzate, grida, ululati, e proclami sulle proprietà curative del prodotto espressi con tono da ubriaco. Testo e musica sono di Gil, ma Ben sembra accoglierli con grande passione, tramite alcuni dei vocalizzi più rauchi che abbia mai registrato.
“Quem mandou (Pé na estrada)” è un brano di Ben inizialmente pubblicato da Wilson Simonal nel 1973 (del resto, anche la celebre “País tropical” era stata donata a Simonal, prima che Ben decidesse di inciderla in proprio). La versione di Simonal è un vivace pop per basso e organico elettrico, mentre Gil e Ben la trasformano in pezzo più pacato, che defluisce in un finale al rallentatore, non dopo averne dilatato ancora una volta struttura e testo.
Il secondo vinile si apre con due riprese dall’album “Ben”, del 1972: “Taj Mahal” e “Morre o burro, fica o homem”.
La prima è uno degli inni dell’autore e viene per la prima volta dotata di un testo: nell’originale infatti l’artista non diceva altro che “Taj Mahal, karma, Krishna”, oltre al celebre refrain “Tê tê, têtêretê” (poi abusato, sotto forma di scadenti remix, nelle musiche di capodanno di mezzo mondo).
In questa nuova versione, che dura quasi il triplo, Ben si premura di spiegare l’origine del mausoleo indiano che la intitola: “È stata la più bella storia d’amore che fino a oggi abbia sentito, dell’amore del principe Shah-Jahan per la principessa Nunts Mahal”. Sfiorando il quarto d’ora di durata, è forse il brano in scaletta che spiega meglio il significato di trance reiterativa: attenzione però alle ristampe in Cd, alcune delle quali ne tagliano un paio di minuti.
L’ultimo lato contiene due di inediti di Gil: “Essa é pra tocar no rádio” e “Filhos de Gandhi”. La seconda è diventata nel corso del tempo un classico, grazie alle riduzioni che l’autore ne ha proposto dal vivo durante tutta la carriera. È però questa la versione da tramandare, nei suoi tredici imponenti minuti, miscela culturale definitiva: “Omolu, Ogum, Oxum, Oxumare, tutte le persone mandate giù per vedere i figli di Gandhi. Iansã, Iemanjá, chiamate Xangô e anche Oxossi, mandateli giù per vedere i figli di Gandhi. Commerciante, cavaliere di Baghdad, oh figlio di Obá, mandali giù per vedere i figli di Gandhi. Signore del Bonfim, fammi un favore, chiama la gente, mandala giù per vedere i figli di Gandhi. Oh mio Dio del cielo, nella terra del carnevale chiama la gente”.Il brano si riferisce ai figli di Gandhi, blocco del carnevale di Bahia che conta migliaia di adepti, tutti rigorosamente devoti al candomblé.
Si chiamano così in onore di un personaggio che è però estraneo alla propria religione, il Mahatma Gandhi, di cui seguono la dottrina non violenta. Oltre all’invocazione di numerosi orixá, il testo si riferisce al Signore di Bonfim, santo transreligioso dalla pelle nera e protettore dei balli carnevaleschi, prima di concludere riallacciandosi al Dio cristiano.
Il cavaliere di Baghdad è invece più difficile da identificare: si potrebbe ipotizzare sia il protagonista di una delle infinite varianti della parabola ebraica sull’ineluttabilità della morte, ma non ci sono spiegazioni ufficiali al riguardo. Dopo un lento, inesorabile accumulo, il brano sfocia in un’apoteosi corale, con Gil che si produce in un vocalizzo angelico e Ben che gli fa eco con una sorta di drone borbottato, dopodiché tutto va a spegnersi gradualmente in una palude di arpeggi e rumori bucolici.
In coda spunta un divertente frammento di un minuto e mezzo, “Sarro”, sorta di folk/funk in forma libera.
“Ogum Xangô” può oggi essere considerato uno dei manifesti di un’era non facile per la vita del Brasile. Uscì quando il regime andava lentamente allentando la presa, pur mantenendo una certa severità: ai musicisti esiliati era stato concesso il ritorno, ma al prezzo di evitare le canzoni di protesta. Eppure, l’aver incentrato un intero disco sulla cultura delle fasce più deboli della popolazione brasiliana (la mitologia yoruba non era certo popolare fra i borghesi bianchi di Rio de Janeiro e i fanatici della bossa nova), è interpretabile come forma di dissenso camuffato. È un fatto che i regimi dell’America del Sud durante gli anni Sessanta e Settanta, quasi tutti appoggiati dai servizi segreti americani, vedessero con forte antipatia le culture indigene e il folclore locale, spesso considerati armi propagandistiche della resistenza.
Anche le jam che compongono l’opera, fra i più evoluti esempi di quello che oggi chiamiamo avant-folk, simbolizzano in fin dei conti un grido di libertà contro il rigore delle regole della musica pop.
(08/12/2019)
Magnifica questa mescolanza di riti, di personaggi più o meno santi, di religioni. Neppure al tramonto dell’impero romano se ne potevano contare tanti. Comunque questo miscuglio è affascinante e indice di una grande cultura.