MINIMA & MORALIA
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15 settembre 2014
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MARX 2.0? “IL CAPITALE DEL XXI SECOLO” – INCONTRO CON THOMAS PIKETTY
di minima&moralia
pubblicato lunedì, 15 settembre 2014 · 3 Commenti
Pubblichiamo l’intervista che Marco Cicala ha fatto all’economista francese Thomas Piketty per il Venerdì di Repubblica, in occasione dell’uscita italiana del suo libro Il capitale nel XXI secolo (edito da Bompiani, traduzione di Sergio Arecco). Ringraziamo l’autore e la testata. (Fonte immagine)
di Marco Cicala
Parigi. L’hanno definito il Marx 2.0. Sul suo libro hanno oscillato il turibolo benedicente guru della stazza di Paul Krugman o Joseph Stiglitz. I consiglieri economici di Barack Obama lo hanno convocato a palazzo per farsi spiegare le sue ricette in materia di lotta alle disparità sociali. Per gli accusatori, il francese Thomas Piketty non sarebbe invece che l’ennesimo gauchista plutofobo, magari tendenza Occupy Wall Street, dispensatore di soluzioni retrò, interventiste, vetero-stataliste – tipo una tassazione progressiva sui grandi capitali. Insomma, l’ultimo coniglietto spuntato dal cilindro di un keynesismo fuori tempo massimo. Per confutare le sue idee, la cosiddetta stampa neoliberista – Financial Times in testa – ha sguinzagliato tutta una muta di esperti, giornalisti da punta e da riporto. Ma il risultato della demolizione è stato piuttosto deludente. Si è cercato di cogliere in castagna Piketty aggrappandosi a minutaglie, errori marginali stanati nelle 950 pagine del suo Il capitale nel XXI secolo, che adesso esce in Italia da Bompiani. In Francia ne sono andati via 150 mila esemplari. Però, con mezzo milione di copie vendute, è stata la versione in inglese a farne un caso editoriale e un titolo à la page.
Hanno scritto: miracoloso che un ponderosissimo saggio di economia irto di cifre e tabelle sia diventato un bestseller. Forse non si erano accorti che Le capital au XXIe siècle non è solo un libro di economia. La chiave del suo successo risiede probabilmente nel fatto che torna a piazzare al centro della riflessione un tema di calda popolarità quale quello delle diseguaglianze, trottando fra storia, politica, sociologia, letteratura – da Balzac a Jean Austen; con occhiate sbarazzine al cinema – Titanic, Django Unchained – e alle serie tv americane: Dr. House, West Wing, Dirty Sexy Money… Intendiamoci, non è danzante pop economy, ma nemmeno un volumone per roditori di equazioni, grafici e statistiche. «Più che un economista, mi considero un ricercatore in scienze sociali. Le frontiere disciplinari non sono così nette come pretendono molti economisti, sentendosi depositari di un sapere scientifico esclusivo. Un’illusione totale» dice Piketty, 43 anni, nel suo ufficetto all’Eep, L’École d’économie de Paris, dove insegna. Uno studiolo monastico, angusto. C’è spazio solo per un paio di scaffali, non più di due sedie e la scrivania. Sopra, il cellulare del professore: non proprio di ultima generazione.
«Nel libro, che è il risultato di un lavoro collettivo, cerco di riprendere una tradizione di economia politica, studio dei processi sul lungo periodo, che si è un po’ eclissata» sintetizza. «Ho provato a ripercorrere la storia della ricchezza nei secoli e in una ventina di Paesi. Se vuole, è il racconto delle metamorfosi del denaro e delle forme di potere che le hanno accompagnate». C’è chi ha visto nel titolo un ammiccamento astutamente commerciale a Das Kapital di nonno Marx. Ma Piketty precisa: «Io parlo di capitale, non solo di capitalismo. Il capitale – nel senso di fortuna, ricchezza, patrimonio più o meno consistente, pubblico o privato – precede il capitalismo. Ed eventualmente continuerà a esistere anche dopo di lui». È grosso modo nel XVIII secolo che inizia ad affiorare una documentazione sistematica sullo stato delle ricchezze nazionali. «In Francia, la Rivoluzione non ha creato una società ideale, ma è da quel momento che si cominciano a monitorare i patrimoni immobiliari e finanziari». Piketty insegue le avventure del denaro nella modernità attraverso il rapporto fluttuante fra tassi di remunerazione del capitale – cioè quanto rende un patrimonio – e tassi di crescita, vale a dire – semplificando – i redditi da lavoro, salari e stipendi, da che esistono cose del genere. Nel confronto tra capitale e crescita è schematizzata la parabola delle diseguaglianze. Che oggi, secondo Piketty, sarebbero tornate ad acuirsi retrocedendo ai livelli di oltre cent’anni fa. Zona Belle Époque, per capirci. Coi patrimoni che crescono di nuovo cinque o sei volte più velocemente dei redditi. Una regressione? «Diciamo la ripresa di una continuità storica. Nei secoli, la divergenza tra capitale e crescita è stata la costante, la regola. E il passaggio dalla società agraria a quella industriale ha mutato la situazione meno di quanto si creda. È solo in una fase circoscritta del Novecento che si produce provvisoriamente un’inversione di rotta. Specialmente nel cosiddetto Trentennio glorioso 1945-’75, assistiamo a una diminuzione delle disparità. Per un concorso di fattori. Da un lato la brutale contrazione dei patrimoni polverizzati dalle Guerre mondiali. Dall’altro per effetto delle politiche di ricostruzione. Sono gli anni della tassazione progressiva, dello stato sociale, delle conquiste sindacali». La compresenza di questi elementi – unitamente all’impennata della produttività e allo sviluppo demografico culminato nel baby boom – «portò a un riequilibrio. Fu una parentesi, ma i suoi esiti sono stati talmente prolungati da far pensare che si fosse entrati irreversibilmente in un mondo nuovo».
Ecco invece che dagli anni Ottanta la crescita riprende a calare, «riassestandosi su quote ottocentesche», e la curva della natalità inizia a precipitare. «Oggi in alcuni Paesi europei la crescita è dell’1 per cento o addirittura in negativo. Valutata in senso strettamente economico, questa situazione non sarebbe più problematica di tante altre. Lo diventa se analizzata sul piano delle conseguenze sociali che determina». E che potrebbero essere riassunte in nuova vertiginosa concentrazione delle ricchezze. Il cocktail di crescita debole e bassa natalità allestisce secondo Piketty uno scenario dove patrimoni, rendite, eredità riacquistano un peso «del quale negli ultimi decenni ci eravamo dimenticati». I capitali accumulati nel passato staccano in volata quelli che sono frutto del lavoro dei vivi. «Le generazioni del baby boom si sono fatte in larga misura da sole. Mentre per quelli nati tra i 70 e i 90 l’eredità, o comunque il patrimonio familiare, assumono un’importanza pressoché sconosciuta ai loro coetanei del dopoguerra». Una situazione su cui la demografia ha la sua bella incidenza – insiste Piketty, con un esempio iperbolico: «In una società dove molti hanno, mettiamo, dieci figli, non puoi fare troppo assegnamento sull’eredità, visto che ogni volta dovresti dividerla in dieci parti».
Se l’andazzo è questo, rischia di ridiventare di preoccupante attualità il cinico pistolotto che in Papà Goriot di Balzac (1835), quell’irresistibile farabutto di Vautrin rivolge al giovane rampante Eugène de Rastignac. Dicendogli in sostanza: che futuro vuoi aspettarti in una società come la nostra sgobbando a forza di studio e lavoro? Tanta fatica e sottomissione per poche e risibili soddisfazioni. Meglio addentare subito una cicciosa dote quale quella della signorina Victorine che, d’accordo, sarà pure una racchia, ma ti garantirebbe una rendita annua di 50 mila franchi. Chiosa Piketty: «Ora non intendo sostenere che nel 2014 ci troviamo ricatapultati nelle condizioni del mondo balzachiano. Sarebbe esagerato. Titoli di studio, competenze, diffusione delle conoscenze giocano ancora un ruolo importante nella riduzione delle diseguaglianze». Ma resta il fatto che le nuove sproporzioni tra patrimonio e reddito ammaccano di brutto l’idea meritocratica – sia essa favola o realtà – che è il sale delle democrazie di mercato. Cioè società fondate sul valore lavoro. Dove, per tradizione, la rendita è guardata con sospetto, se non con odio. Cascame parassitario di un capitalismo Ancien régime dal quale, con più di un’illusione, ci si credeva emancipati. Mentre eccolo riemergere nelle forme di un sistema in cui le famose chances sembrano anchilosate e le derive oligarchiche sono dietro l’angolo.
Ma i paradossi della ricchezza non si sgranano soltanto lungo il confine tra facoltosi e meno abbienti. Sbocciano pure nel cuore dei maxi-capitali. Prendi Bill Gates. Tra 1990 e 2010, il patrimonio di Mr. Microsoft è cresciuto da 4 a 50 miliardi di dollari. In proporzione, allo stesso ritmo di quello su cui siede Liliane Bettencourt, ereditiera L’Oréal, la cui fortuna è passata nello stesso ventennio da 2 a 25 miliardi di verdoni. Embè? Dove sta la bizzarria? «Nel fatto che Gates è un imprenditore, mentre Bettencourt non ha mai lavorato. Tutto le viene da papà Eugène Schueller che fondò l’azienda cosmetica nel 1907 ed è morto 57 anni fa!». Da allora, Madame alloggia nell’Olimpo delle rendite monstre. Ma Piketty frena: «Non si tratta di fare distinzioni morali tra l’imprenditore buono e dinamico contrapposto al perfido, arroccato rentier . Perché nei grandi patrimoni le due figure spesso convivono». Come testimoniavano già i capitalisti balzachiani: «Prima di diventare rentier , Goriot è un pastaio che fa fortuna vendendo vermicelli. Quanto a César Birotteau, sul finire si lancia in un’operazione immobiliare che segnerà la sua rovina, ma aveva cominciato coi prodotti di bellezza. Esattamente come Monsieur L’Oréal». Audacia e speculazione; denaro che cresce nel movimento, nell’innovazione, nel rischio o che si autoriproduce da solo, se non altro perché è proprio tanto. «Deregulation e complessità crescente dei prodotti finanziari hanno certamente esacerbato la diseguaglianza tra i rendimenti da capitale». Oggi – dai fondi petroliferi con cui hanno fatto bingo gli oligarchi russi alle maxi-dotazioni delle grandi università americane – «i grossi portafogli possono accedere a remunerazioni dell’8-10 per cento che restano precluse a chi si presenta in banca con diecimila euro».
Tallonando l’avvitamento a spirale di un capitalismo sempre più patrimoniale, dinastico o familistico, il libro di Piketty analizza anche lo stato della ricchezza in Italia. A suo parere, «un caso estremo e perciò paradigmatico». Perché, da noi, alle tendenze generali condivise con altre economie europee si sommano fattori peculiari. In sintesi: «Livelli demografici che, senza l’immigrazione, sono quasi negativi. E una pauperizzazione dello Stato più marcata che altrove». Questo «sostanzialmente per via delle privatizzazioni – che hanno ridotto gli attivi pubblici, – e a causa dell’entità del debito». In compenso, sebbene una parte del Paese sia sempre più indebitata, la ricchezza privata è aumentata. A livelli persino spettacolari. Scrive Piketty: «Anziché pagare le tasse per equilibrare i bilanci pubblici, gli italiani – quantomeno la media – hanno prestato denaro allo Stato acquistando buoni del tesoro o attivi pubblici e accrescendo così il loro patrimonio senza accrescere il patrimonio nazionale». E dove sono finiti i quattrini del risparmio? In stragrande maggioranza nel caro vecchio mattone. Magari a gonfiare il soufflé delle bolle immobiliari. Aggiungeteci che da noi il rapporto tra capitale e reddito è ormai sbilanciato in favore del patrimonio a livelli record e avrete Renditopoli. L’Italia paradiso dei rentier.
Le peripezie della ricchezza variano naturalmente a seconda delle latitudini, ma Thomas Piketty è convinto che una crescita sempre più in affanno dietro alle remunerazioni patrimoniali sia tendenza che accomuna ormai i Paesi industrializzati e la chiave per spiegare l’aumento delle disparità. Diseguaglianze di cui si fa un gran parlare anche negli States. Dove – checché se ne pensi – non sono sempre state così aspre. «In Europa» dice il professore «abbiamo tendenza a considerare gli Stati Uniti terra dei grandi contrasti di ricchezza. Perché ci fissiamo sulla fase del post- reaganismo. Ma guardi che fino agli anni 30, gli Usa sono più egualitari dell’Europa. Il Paese era giovane; i capitali non tanto concentrati essendoci stato meno tempo per accumularli; la tassazione su patrimoni e successioni molto elevata. In America, tra le due guerre, questo sistema era segno di distinzione e motivo di vanto: non volevano riprodurre le società classiste del Vecchio continente, non volevano assomigliargli. Oggi sono alle prese con un tasso di diseguaglianza incompatibile con quella tradizione». A proposito di States: negli anni 90, dopo aver insegnato al Mit, Piketty volta le spalle all’America e se ne torna a lavorare in Europa. Divergenze di metodo: «Nei dipartimenti di economia delle università americane c’è una specie di disprezzo verso le altre discipline. Rientrando in Francia volevo riavvicinarmi a una tradizione più aperta allo scambio tra saperi. Detto questo, come fai a parlar male dei campus americani? Sono posti formidabili. Mentre le università francesi o italiane spesso fanno acqua». È stata comunque la contraerea anglosassone a respingere con più zelo le sue tesi: «Sulle prime il Financial Times mi ha trattato con curiosità e una certa simpatia. In seguito sono forse rimasti spaventati dal successo del libro. La curiosità è finita dove cominciavano gli interessi materiali dei lettori. O almeno: di quelli che il FT immagina siano gli interessi dei suoi lettori. Certa stampa ritiene di avere come missione quella di difendere gruppi sociali che il mio libro minaccerebbe» dice con smorfia perplessa. Ma è legittimo il sospetto che in un’epoca dove identità e culture politiche si fanno sempre più fluide, quello delle diseguaglianze non sia più un tema esclusivamente di sinistra? «Beh, in Inghilterra il governo Cameron, che non è tanto a gauche , ha tassato i patrimoni immobiliari più dei laburisti. In Spagna, il centrodestra di Rajoy ha reintrodotto l’imposta sul patrimonio abolita dal socialista Zapatero».
Suvvia, il Piketty-pensiero potrà non piacere, ma come si fa a dare dell’anticapitalista a uno che in ogni intervista ribadisce: «Il capitale è qualcosa di socialmente utile. La proprietà privata e il mercato sono necessari non solo all’efficacia economica, ma alle libertà e all’emancipazione»? Con uno spruzzo di ecologia, anche la croissance gli piace un sacco: «Non sono un decrescista. Sono per la crescita e penso che possa ripartire se inventiamo energie pulite. Sono anche per la natalità. Ho tre figli: di 11, 14 e 17 anni. E vorrei averne altri». Auguroni. Quanto al suo preteso neomarxismo, lo liquida con un sorrisetto: «Sono diventato adulto assistendo al collasso dei regimi dell’Est. Come molti giovani ho abbastanza viaggiato in Romania, Bulgaria, Russia per immunizzarmi da ogni tentazione comunista».
Alla fine, riemergendo dalla lettura di Le capital… come da una nuotata di fondo, ti dici che le analisi di Piketty sono innovative e persino avvincenti, mentre i suoi rimedi inducono a qualche scetticismo. Per esempio: come si fa a tassare capitali ormai senza frontiere? «Mica è così complicato, questioni quali il surriscaldamento climatico sono molto più rognose! Non è un problema tecnico, ma di organizzazione politica. E nessun Paese può più pensare di affrontarlo da solo. Per questo difendo l’idea che l’Europa o un nucleo duro di Paesi Ue facciano squadra in questo senso. Non si può rinunciare alla sovranità monetaria, portare avanti l’Euro mantenendo 18 sistemi fiscali e sociali in feroce concorrenza tra loro. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: populismi, ripiegamenti nazionali… Tendiamo a dimenticare che, malgrado tutto, i fondamentali dell’Ue sono buoni. L’Europa è ancora un posto molto ricco: rappresenta un quarto del Pil mondiale, più degli Stati Uniti. E a quanti gridano contro l’invasione dei capitali stranieri andrebbe ricordato che sono molti di più gli interessi europei all’estero che non il contrario! Quando disponi di una forza simile avrai pure qualche capacità di pressione». Già, ma in fatto di concertazione, l’Europa continua a dar pessima prova di sé. Contro chi taccia le sue soluzioni di velleitarismo, Piketty argomenta: «Nel secolo scorso la tassa sul reddito sembrava fantascienza, eppure ci si è arrivati. Però facciamo un esempio più recente: fino a pochissimi anni fa il segreto bancario in Svizzera pareva intoccabile, ma sono bastate un po’ di sanzioni americane contro le banche per cambiare le cose. La storia è piena di sorprese».
Sarà, ma quando il sorpresone di François Hollande fu la cosiddetta tassa Depardieu sulle grandi fortune tutto finì in un flop: «Perché, ripeto, nessun Paese può più illudersi di poter agire in solitario. Ad ogni modo, se i grossi patrimoni procedono a un ritmo compatibile con i redditi della classe media non c’è motivo di tassarli tanto. Se invece crescono al 7-8 per cento, come ci raccontano le classifiche Forbes, non si può dire che un’imposta del 1-2 per cento ammazzerà la crescita!». Epperò «da sole, più crescita e più concorrenza non risolveranno i problemi dell’Europa». Vallo a raccontare ai mercatisti . Chi sono? Quelli parodiati in un storiella apocrifa che tra gli economisti è un piccolo classico. Pare che il grande studioso e cattedratico a Yale Irving Fischer avesse addestrato un pappagallo. Che a qualsiasi domanda gli rivolgessero gli studenti dava sempre la stessa risposta: È la legge della domanda e dell’offerta! È la legge della domanda e dell’offerta, sgnak-sgnak!
THOMAS PIKETTY E ALTRI::::PER UN TRATTATO DI DEMOCRATIZZAZIONE DELL’EUROZONA ( ” T-DEM ” )