“I fratelli Tanner” – Robert Walser — LO LEGGE CON NOI… :: RAFFAELE, IL COLLEZIONISTA DI LETTURE, 19 FEBBRAIO 2020

 

 

 

 

Foto di R. Walser morto nella neve

Il corpo di Robert Walser morto nella neve, durante una passeggiata, il giorno di Natale del 1956 a Herisau

 

 

Querido y diminuto Robert Walser

 

 

 

 

 

 

“I fratelli Tanner” – Robert Walser

RAFFAELE 

IL COLLEZIONISTA DI LETTURE

19 FEBBRAIO 2020

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I fratelli Tanner | Robert Walser - Adelphi Edizioni

 

 

“I fratelli Tanner” – Robert Walser

Ci sono dei momenti, nella vita di un lettore, in cui si sente, in modo particolare, il bisogno di ricevere da ciò che si legge un senso di pace e di levità, di distacco e di libertà. Il bisogno di allontanare da sé, dedicandosi ad un certo libro e ad un certo autore, la pesantezza del mondo, trovando in quel libro e in quell’autore la possibilità di farsi trasportare in un altrove e di venire avvolti da aloni di poesia. E, indiscutibilmente, se è questo ciò che si cerca e si vuole nessuno, secondo me, più e meglio di Robert Walser è capace di darcelo. Quanto ciò sia vero autorevoli quanto affettuose descrizioni di Walser lo testimoniano, ben illuminando quella che era la sua natura umana e artistica.

Lo scrittore viennese Franz Blei (1871-1942) – che conobbe personalmente Walser e lo sostenne – in quel suo originale e divertente compendio che è “Il bestiario della letteratura” in cui classifica e definisce, come in una sorta di manuale zoologico, gli scrittori del suo tempo così descrive Robert Walser: “E’ un animaletto oltremodo leggiadro, grazioso e lunatico. Appartiene alla famiglia degli scoiattoli. Non lo si vede su alberi altissimi, su cui del resto non tenta neppure di arrampicarsi. Tuttavia, la grazia ingenua e contemporaneamente maliziosa di Walser conferisce agli alberi di media altezza una gaia vivacità.” (F. Blei – “Il bestiario della letteratura” – Il Saggiatore – 1980 – p.103)

E Winfried Sebald che di Walser è stato lettore partecipe, in quella sua bellissima raccolta di “profili” di alcuni autori a lui cari, che ha per titolo “Soggiorno in una casa di campagna”, tra i quali autori vi è appunto Robert Walser, così lo descrive: “Robert Walser era nato, credo, per un viaggio silenzioso…un viaggio nell’aria. Sempre, in tutte le sue prose, egli vuole innalzarsi oltre la pesante vita terrena, vuole dileguarsi tacito e lieve in direzione di un mondo più libero”(W. Sebald – “Le promeneur solitaire. In ricordo di Robert Walser” in W. Sebald – “Soggiorno in una casa di campagna” – Adelphi – 2012 – p. 135)

Se quindi vi è un autore che è riuscito a immaginare e creare un “mondo” letterario – che era poi il suo mondo interiore – improntato alla più totale assenza di costrizioni, di legami, di appartenenze, facendo “viaggiare” sia narrativamente che stilisticamente il contenuto dei suoi libri senza stabilire regole e identificazioni questo è stato sicuramente Robert Walser. E ciò in un modo, a suo modo, paradossale perché Walser è stato un autore in cui vita e opera si sono profondamente compenetrate. Nel senso che nei suoi libri la sua natura e il suo spirito sono fortemente presenti sia attraverso ciò che racconta e sia attraverso i personaggi che crea. In Simon Tanner, il protagonista de “I fratelli Tanner”, per esempio, i tratti autobiografici sono evidenti e, a loro volta, “i fratelli Tanner”, rispecchiano, per molti aspetti, i suoi propri ed effettivi fratelli.

Ma pur essendo così presente all’interno dei suoi libri Robert Walser, in realtà, mette in scena attraverso i suoi personaggi il loro (e il suo) autoannullamento. Il suo (e il loro) Io è un Io inappariscente di cui Walser ci descrive e ci racconta la sua assoluta inappartenenza a qualsivoglia istanza, credo, compito, ruolo, destino, vocazione, futuro. Dice infatti a un certo punto Simon Tanner: “Del resto io non voglio assolutamente far carriera nella vita, voglio soltanto vivere con un minimo di decenza. Nient’altro”. E poi ancora: “Io non voglio un avvenire, voglio avere un presente. Mi sembra più prezioso. Si ha un avvenire soltanto quando si ha un presente, e quando si ha un presente si dimentica anche solo di pensare a un avvenire”

E ciò trova corrispondenza in quel continuo muoversi dei protagonisti dei libri di Walser in una sorta di eterno presente – che è ciò che accade anche a Simon Tanner – senza mai radicarsi, fermarsi, attaccarsi a niente. Da cui l’idea vagabonda che i suoi personaggi trasmettono. Quindi muoversi non per affermare un progresso o il raggiungimento di un obiettivo ma come una farfalla che va incessante, per un po’ si posa, e poi riparte, intenta a svolgere quel suo cercare e ricercare continuo. E questo procedere di Walser attraversa non solo le sue singole opere al loro interno, ma la sua opera complessiva che è un insieme interconnesso di quest’ Io presente eppure sempre sfuggente. Scrive in tal senso Winfried Sebald: “Lo stesso Walser ha osservato una volta che lui, da un breve testo in prosa all’altro, lavorava in fin dei conti sempre al medesimo romanzo, un romanzo che si potrebbe definire un “libro dell’Io” a più fasi o frammenti. Ci sarebbe ancora da aggiungere che, in questo libro dell’Io, il protagonista, l’Io appunto, non si affaccia quasi mai sulla scena, ma rimane lì in un angolo, o per meglio dire nascosto in mezzo alla folla delle altre figure di passaggio” (W. Sebald, cit. – p. 120)

Walser, quindi, nei suoi libri ci parla di se stesso, della sua visione del mondo e delle cose, della sua vita e della vita, ma creando l’affresco di una esistenza che sceglie e afferma il disconoscimento dal mondo e nel mondo, insediata come essa è in un altro mondo la cui natura è squisitamente “poetica”. Walser, in altre parole, ci parla di lui ma per parlarci del suo scomparire e volatilizzarsi in un mondo tutto suo che ci offre un’idea e una possibilità dell’ esistenza altra e diversa. Che è poi il significato stesso e più importante della letteratura laddove, come afferma Milan Kundera: “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane” (M. Kundera – “L’arte del romanzo” – Adelphi – 1988)

E in questa descrizione che Walser fa di Simon Tanner, in cui peraltro è riconoscibile in pieno lo stesso Walser, si coglie bene la natura e lo spirito del protendersi verso quel disconoscimento di cui si diceva: “Venne l’inverno. Simon, ormai abbandonato a se stesso, era seduto al tavolo di una stanzetta, ricoperto di un mantello, e scriveva. Non sapeva come occupare il tempo, e siccome per la sua professione era abituato a scrivere, così stava scrivendo quasi automaticamente senza volerlo, e precisamente su delle striscioline di carta che aveva ritagliato con la forbice. Fuori il tempo era piovoso, e il mantello di cui Simon era avvolto serviva a sostituire una stufa…Si sentiva a suo agio a starsene lì seduto a far qualcosa e ad abbandonarsi all’idea di essere un dimenticato.”

E subito dopo, “come in un sogno”, Simon evoca la sua fanciullezza, quasi ancora vi appartenesse, come se la sua natura e la sua storia l’avessero tenuto sospeso in una separatezza che non ha tempo ed è fuori dal tempo: “Ripensava alla sua fanciullezza, che non era poi così indietro nel tempo eppure era lontana come un sogno, e scriveva”

Ma anche stilisticamente – come si può osservare ne “I fratelli Tanner” – nel passare inopinatamente da un argomento, da un’ambientazione, da un incontro ad un altro senza un evidente nesso vi è quest’ impressione di toccata e fuga come se Walser procedesse per associazioni spontanee, seguendo percorsi suoi che gli nascevano da dentro, dando libero sfogo a un procedere creativo in un clima di grande libertà espressiva, fino a diventare molte volte dichiaratamente onirico, tanto che a un certo punto dice di Simon Tanner: “Nella calda ora di mezzogiorno stava sdraiato nell’ erba giallognola sotto il dolce, splendido cielo, lungo la sponda del fiume, e non solo poteva, ma era addirittura costretto a sognare”. Laddove il riferire i sogni che Simon fa e l’ evocare il sognare come “abitudine” di Simon ricorre assai di frequente.

Vi è quindi in Simon Tanner questo vivere da nomade della vita, cambiando lavori, luoghi, case, ma anche persone, interlocutori, compagni di strada, fratelli con cui, nel corso del romanzo, si intrattiene. Sviluppando, in ciascuna di tali circostanze, riflessioni ed elaborazioni, analisi ed autoanalisi nelle quali vi è sempre un tratto di stupore e di scoperta, di grazia e di candore. Ed è proprio questa sorta di mondo epifanico che a Simon si dischiude e che, a sua volta, egli dischiude di fronte a noi che fa sortire la poesia e la leggerezza che la narrazione emana. E il dar vita a tale mondo – che è ciò che dà senso e valore all’esistenza di Simon – consente a Robert Walser di esprimere ciò che egli sentiva e provava. Perché per Walser tutto era degno di essere raccontato e quindi verso ogni cosa si poteva andare incontro nell’intento non di possederla ma di afferrarne la sua segreta e intima bellezza. Anzi è proprio dall’osservazione delle piccole cose e dai gesti minimi del quotidiano che Walser traeva nutrimento per le sue storie.

Simon perciò si muove secondo i propri impulsi personali e quindi – come un tipico flaneur walseriano quale egli è – è spinto dalla curiosità, dall’estro e dalle circostanze, stando in dialogo (soprattutto con sé) ma anche, molto, in silenzioso ascolto degli altri: “A una persona riservata come te si confideranno volentieri segreti e questioni sentimentali, e nel tacere e nel parlare con discrezione ti rivelerai quasi sempre un maestro, inconsciamente, intendo dire, senza che tu faccia il minimo sforzo” gli dirà sua sorella Hedwig.

Ne scaturisce un romanzo fatto di sequenze di narrazioni che sorgono dai e nei contesti in cui Simon si viene a trovare, dando vita ad una sorta di piccole prose, non dissimili da quelle prose brevi nelle quali Walser eccelleva. Peraltro già il primo libro che Walser scrisse e che gli fu pubblicato, “I temi di Fritz Kocher” si configurava come “Una raccolta di piccoli pezzi di prosa che furono alla base della sua fama di narratore di prose brevi. Walser è sempre rimasto fedele a questo genere di narrazione e ha scritto i suoi romanzi con la tecnica del racconto breve senza una vera e propria costruzione” (Peter Bichsel – “Leggere i fratelli Tanner” in “Zibaldoni e altre meraviglie” – sito on-line – 30.4.2006)

La narrazione quindi, lungi dall’essere riconducibile all’idea di una trama, si dipana seguendo il girovagare e il bighellonare di Simon, trasmettendo a noi lettori, ma anche allo stesso Simon, l’idea di essere un perdigiorno e un fannullone: “…un perdigiorno come me” si definisce infatti lui stesso a un certo punto. E poi, con un accenno di biasimo ma anche di grata riconoscenza per quel suo vivere alla giornata, si sofferma a dire: “Mi sembra che la giornata mi sia stata gettata là da un dio benevolo che butta di buon grado qualcosa a un fannullone”

Ma se l’impressione è che Simon si gingilli con la vita, comportandosi come uno svagato perdigiorno, incapace com’è di radicarsi nel mondo, autoespellendosi da esso sistematicamente: “Cacciato via, finora, non sono mai stato, me ne sono sempre andato per la pura voglia di andarmene, lasciando impieghi e uffici che promettevano una carriera e sa il diavolo che altro, ma che mi avrebbero ucciso se vi fossi rimasto”, tuttavia – nonostante una lettura ricorrente che ne è stata fatta – Simon Tanner non è assimilabile al perdigiorno per antonomasia cioè quello narrato in “Vita di un perdigiorno” da Joseph von Eichendorff che costituisce il modello di questo tipo di personaggio. Non avendo il perdigiorno di Eichendorff, rispetto a Simon, la stessa “profondità” e prevalendo in esso l’aspetto ludico, lirico e fantastico.

Simon Tanner è invece un personaggio assai più complesso, mosso da una necessità del cercare che è la ricerca intrinsecamente poetica del sentire le cose e del sentirle in tutta la loro intensità: “Si troverebbe tutto meraviglioso se si fosse capaci di sentire tutto, perché non può essere che una cosa sia meravigliosa e l’altra no” dice infatti Simon. Perché la poesia non sta nel trovare e conquistare le cose ma proprio nel cercarle e quindi nello scoprirle, ispirando ciò il vero sentire, come aveva affermato Walser stesso in “Studio intorno alla natura”, una sua prosa contenuta in quella sua raccolta di prose che ha per titolo “Seeland”: “Ero sempre in cerca di qualcosa…mi rallegravo in anticipo delle scoperte che avrei fatto, le quali peraltro non mi davano mai lo stesso piacere della ricerca, che è molto più gradevole dei risultati a cui approda. Quant’ è stimolante, quanto rallegra ogni acquisizione, ma come appare poi insulsa qualsivoglia cosa acquisita…Attraverso una scrupolosa ricerca, finiamo per trovare; ma preferiremmo perdere ciò che abbiamo appena trovato, pur di volgerci daccapo a cercare” (R. Walser – “Seeland” – Adelphi – 2017 – p.77). E Simon porta al massimo grado ciò quando, a un certo punto, afferma: “Devo cercarmi una vita, una vita nuova, anche se la vita intera dovesse consistere soltanto in una ricerca di vita”

Ma Simon non è neanche il Wilhelm Meister di Goethe, avido di assaporare il mondo e di elevarsi andando sempre più oltre. Al contrario Simon si espone, quasi si offre, alla disfatta e al fallimento senza però provare alcun senso di disfatta o fallimento. Quell’ “arte” dell’ inesistere, dello svanire, del dileguarsi, che Walser infonde in Simon, non è infatti fonte di sensi di colpa o di conflitti tanto che, parlando dei rimproveri, Simon stesso dirà: “Non me ne faccio…e parola d’onore ne avrei certo bisogno”. Perché in Simon Tanner se “…la coscienza lo vorrebbe spingere a lavorare, la volontà non può seguire la coscienza e il più delle volte vi si oppone ostinatamente.” (P. Bichsel cit.). Finendo Simon per incarnare la figura dell’eterno principiante che gli consente di avere sempre qualcosa da cercare e per cui sperare. Dice infatti Simon: “…io ho poche speranze. Cioè, anche questo non lo posso dire, se devo essere veritiero. Io sono pieno di speranza. Non mi abbandona mai, mai.”

In questo senso Simon Tanner non è diverso dai personaggi di Walser nel loro insieme i quali, come è stato osservato, “…tendono a nascondersi e a scomparire, ma mai viene loro meno la convinzione di essere nel giusto; in tal senso sono dotati di straordinaria forza e coerenza….L’apparente fragilità dei personaggi walseriani nasconde un inesorabile rifiuto del compromesso e una sicura percezione del pregio della propria scala di valori rispetto a norme e regole socialmente e spesso passivamente condivise. Tali figure pur soffrendo per la propria natura, non vorrebbero mai essere diverse da quel che sono” (Anna Fattori – “La fortuna di Robert Walser in Italia” in “Homo sapiens” Anno I, Numero 1 – Giugno 2009. Numero monografico di “Homo sapiens” dedicato a Robert Walser prodotto in occasione del ciclo di incontri su Robert Walser: “Passeggiare, divagare”, organizzato a Roma dalla libreria “Simon Tanner” tra Dicembre 2006 e Febbraio 2007)

Ma questa sorta di intransigenza che è in Simon e, tramite lui, in Walser nasce dalla consapevolezza che quello sfuggire è l’unico modo per non essere afferrato e fatto prigioniero dalle costrizioni e dai meccanismi, finendo per essere espropriati di ciò che di se stessi è ancora salvabile, laddove, della vita, può salvarsi solo ciò che si è reso inafferrabile: “…preferisco essere fra quelli che non posseggono nulla, così la mia anima, almeno, mi appartiene ancora”, dice Simon e poi, in modo ancora più perentorio: “Io non ho mai posseduto nulla, non sono mai stato nulla, e nonostante le speranze dei miei genitori non sarò mai nulla”.

Nel difendersi tenacemente dall’ abbraccio con la realtà e nel riconoscere la propria precarietà, abdicando al suo primato, Simon, in realtà, esprime una consapevolezza ulteriore e superiore, quella della provvisorietà ed imprevedibilità della vita, rispetto alle quali l’affannarsi e il “sistemarsi” appaiono vani e inutili: “Forse che la vita non rimescolava con violenza i destini degli uomini come i dadi in un bussolotto” dice Simon e poi ancora: “…noi vogliamo trovare una spiegazione a qualcosa, ma a qualcosa che certamente rimarrà sempre inspiegabile”.

Ed anche il mantenersi di Simon in quel suo eterno presente: “…formarmi definitivamente è una cosa che desidero fare il più tardi possibile”, dice Simon, oltre che un bisogno in sé è, a sua volta, un’ulteriore istintiva strategia di difesa da ogni illusoria integrazione nelle dinamiche del “progresso” consapevole che la vita ha un ordine e un senso superiore e più vasto. E nutrire le proprie sensibilità e vivere diverse esperienze – “Ho sempre paura che possa sfuggirmi anche una sola esperienza di vita” dice infatti Simon – è, per lui, assai più importante e gratificante, così come lo era peraltro per Robert Walser nella sua vita.

Come è stato infatti rilevato: “…esiste davvero in Walser un tratto infantile, una sorta di disarmata e disarmante gioia dello stare al mondo; ma questa caratteristica di Walser…non nasce da un ritorno all’infanzia mitica, bensì da un netto rifiuto del concetto di progresso, di sviluppo, di crescita. Ogni giorno per il Walser che ci ha lasciato testimonianza di sé è giorno di scoperte, di novità, di curiosità…le sue parole, il risuonare della sua voce, la sua stessa persona si localizzano di continuo nel mondo, mai lo vogliono dimenticare. Ma sul fondale su cui si fissa questa presenza tutto svanisce con il finire del racconto, lasciando intuire una prosecuzione oltre i limiti della scrittura e dentro i contorni astronomici dell’avventura…a leggere con attenzione alcune pagine walseriane [esse] rimandano a una estetica atemporale, che guarda più lontano della sua immediata collocazione storica.” (Stefano Beretta – “Una specie di racconto” in “Homo Sapiens”- cit., pp.10 – 11).

E, a proposito della “prosecuzione oltre i limiti della scrittura” che ha il narrare di Walser, ne sono esemplare testimonianza proprio le parole con cui si concludono “I fratelli Tanner”: “Venga. Andiamo fuori nella notte d’inverno. Nel bosco dove il vento rumoreggia. Devo dirle tante cose. Sa che io sono la sua povera, felice prigioniera? Non una parola di più, non una. Ora venga…”, dalle quali scaturisce l’evocazione di un dopo e di un oltre che non solo rimanda a un non finito ma evoca un’idea di infinito.

Quindi, attraverso l’oscillare di Simon fra l’aprirsi al mondo, mosso da un anelito a scoprirne la sua inesauribile vita, e il sottrarsi al mondo, rifiutando di stabilirvisi, Walser esprime una duplicità in cui apparire e svanire convivono, nella consapevolezza che tutte le cose sono parte di un tutto che le contiene. Tuttavia la natura di questo tutto resta segreta e così come può essere portatrice di bellezza e di poesia essa è anche fatta di cose che ci sfuggono le quali hanno a che vedere con il vuoto e con il nulla. E i personaggi di Walser, che di quel vuoto e di quel nulla ne percepiscono l’esistenza, si preservano dall’angoscia che il contrapporvisi procurerebbe muovendocisi in quel nulla e “rinunciando” a vivere, nell’accettazione della propria condizione.“C’è un profumo, una forza, anche nel rinunciare a qualcosa.”, dice Walser nell’ altro suo grande romanzo, “Jakob von Gunten”.

“Da un lato dunque “la beatificante esperienza della bellezza” e dall’altro la “lacerante consapevolezza del vuoto su cui essa fluttua”” (A. Fattori – cit. p.40). Il che consente anche di comprendere quella considerazione fatta da Elias Canetti secondo cui: “…la particolarità di Walser consisteva nel fatto che, scrivendo, egli disconosceva sempre l’angoscia nel profondo del suo animo e di continuo lasciava in ombra una parte di sé” (W. Sebald – cit., p. 107). Tanto che, a un certo punto, Simon Tanner dice: “…l’inquietudine è una brutta condizione, indegna dell’uomo”. Rifuggendo quindi dal dar voce e volto alle sofferenze per non farsene catturare e affermando un distacco che serve a non ferirsi.

E infatti non vi è mai in Simon Tanner alcunché di tragico o di disperato, né egli è preda di sentimenti panici o tormentanti. Vi è sempre, anche nei momenti di difficoltà in cui si viene a trovare, un adattarsi vissuto ora con sfrontatezza, ora con mitezza, che lo protegge e lo sorregge. Emergendo caso mai tratti di sommessa malinconia come quando parlando delle sue difficoltà economiche dice: “Il fatto è che io sono critico e al tempo stesso malinconico perché non ho soldi…E poi c’è un’altra cosa: la sera! Di sera sono quasi sempre stanco e scoraggiato” E’ quindi un sottofondo malinconico ad attraversare “I fratelli Tanner”, per effetto di un anelito ad una pienezza che non c’è e non ci può essere.

Ed è proprio di questa duplicità di Walser, di quel convivere in lui di luce e ombra e di quello scomparire nel nulla che ritroviamo nei suoi personaggi e nella sua prosa che parla Sebald quando afferma: “Come interpretare un autore che, pur così minacciato dalle ombre, sapeva diffondere a ogni pagina una luce tanto amabile…che era in tutto e per tutto con i piedi per terra e si librava senza ancoraggio nell’etere, uno scrittore la cui prosa ha la capacità di dissolversi alla lettura, sicché già dopo poche ore quasi non ricordiamo più i personaggi, gli eventi e gli oggetti effimeri di cui parlavano le pagine appena lette” (W. Sebald – cit., p. 108)

Ma se è vero, come detto, che per Walser tutte le cose sono parte di un tutto che le contiene merita di essere compreso ciò in cui consiste per Walser quel “tutto”. A un certo punto egli fa dire ad uno dei personaggi femminili de “I fratelli Tanner” – Klara – le seguenti parole: “Se ora pensiamo a un paesaggio tranquillo, là fuori ci sono i boschi e le colline e i grandi prati, e noi siamo qui seduti in un teatro sfavillante. Che strano. Forse però tutto è natura. Non soltanto le cose grandi e quiete là fuori, ma anche quelle mobili e piccole create dagli uomini. Anche un teatro è natura. Ciò che la natura ci chiama a costruire può anche essere soltanto natura, sebbene, certamente, una sottospecie della natura. La cultura può affinarsi finché vuole, ma resta sempre natura, poiché è soltanto una lenta invenzione attraverso i tempi, opera di creature che dipenderanno sempre dalla natura. Quando lei dipinge un quadro, Kaspar, questo diventa natura perché dipinge con i suoi sensi e le sue dita, che lei ha pur avuto dalla natura. No, noi facciamo bene da amarla, a ricordarci sempre giustamente di lei, ad adorarla, se così posso dire, perché in qualche posto gli uomini devono ben pregare, altrimenti diventano cattivi”

Vi è in queste parole il sentirsi una cosa sola con la natura, l’esserne parte e l’esserne una parte, travalicando l’idea di natura in senso fisico e affermando una onnicomprensività di tutte le cose, anche di quelle prodotte dallo spirito, come risultato di una natura che è oltre noi. Al punto da divenire destinataria di una sorta di religiosità laica, ricordandoci sempre di lei e, nel fare ciò, avere un antidoto all’incattivirsi degli uomini, trovando in tal modo pace e dandosi pace. In altre parole vi è in Walser una sensibilità che rimanda ad una dimensione di tipo metafisico di cui la natura, così come descritta, è espressione. E di cui Walser coglie la bellezza e il fascino ma anche il mistero e l’ineluttabile dipendenza che da essa hanno gli uomini. Non a caso, nel brano su riportato, parlando delle opere umane, le definisce opere “di creature che dipenderanno sempre dalla natura.” Tanto che in un passo successivo afferma in modo ancora più esplicito quanto la stessa arte, nel suo insieme, appaia vana di fronte alla natura: “…non posso simpatizzare con la boriosa arte, che al momento mi sembra la cosa più secondaria del mondo; e in realtà pensiamo una buona volta che cosa essa è a confronto della natura che muore e torna sempre a rinascere”

E di questa natura, che tutto contiene e sovrasta, ne è testimone lo scorrere del tempo che come un flusso inarrestabile porta tutto con sé, essendo a tutto indifferente, così come Walser fa dire a Simon: “Strano: il tempo passava altrettanto sicuro sopra tutti i buoni propositi come sulle cattive qualità che uno non riusciva a dominare. C’era qualcosa di bello, qualcosa che spazzava via e che perdonava in questo scorrere del tempo. Passava sul mendicante come sul presidente della repubblica, sulla peccatrice e sulla infermiera. Faceva sentire come piccole e insignificanti tante cose, esso soltanto rappresentava il grande e il sublime. Che era mai tutto quel vivere e trafficare, quell’agitarsi, quel lottare per farsi avanti, di fronte a questa grandezza che non si curava minimamente se uno diventava un uomo o un idiota, alla quale era indifferente se si desiderava ciò che era buono e giusto oppure no? Simon aveva questo mormorio delle stagioni sopra la sua testa, e quando un giorno la neve volò giù nel vicolo buio, nero, egli si rallegrò del progresso dell’ eterna e trepida natura”

Walser quindi non ha paura della natura, né la mitizza fantasticando paradisi perduti, ma è lucidamente ma anche poeticamente consapevole della sua oggettiva potenza e riconoscerla, abbandonandosi al suo fluire “eterno”, è la condizione esistenziale che egli abbraccia. In questo senso come è stato osservato: “Walser, come nessun altro poeta del Novecento si pone in sovrana condizione di non decidere tra le due antitesi, il vivere e il morire, ma ne prende atto.” (S. Beretta, cit., p. 12)

E Simon nell’andare fiero della sua nullità – “Per quanto mi riguarda, sono rimasto fino ad ora il più inetto di tutti gli uomini. Non ho nemmeno un vestito indosso che possa mostrare di me che ho dato ordine in qualche modo alla mia vita. Lei non scorge nulla in me che indichi una determinata scelta nella vita” dice di se stesso – in realtà si rivela “neutrale” rispetto a qualsiasi idea di salvezza e di redenzione. e sia la colpa che la giustizia se le lascia alle spalle. Simon Tanner vive della e nella sua inadeguatezza ma celebrando, attraverso Simon, questo limite Walser ci offre la possibilità di accogliere l’inadeguatezza come insita nella nostra natura. Non più colpa da cancellare ma possibilità di liberarsi degli atteggiamenti difensivi, delle corazze soggettive, dell’idea di personalità che deve imporsi sul mondo.

Per questo Simon si offre, si dona e lo fa, come dice lui, “per essere usato”: “…mi offro a loro per essere usato. Per questo si esiste.” In questo modo egli unisce non appartenenza (al ruolo) e appartenenza (a sé), poter esistere non per quello che si fa ma per quello che si è. Come ha rilevato Claudio Magris, “Walser celebra ripetutamente l’ideale del servire [laddove per Walser], servire significa liberarsi dal peso della libertà e dall’intima schiavitù della responsabilità…desiderando diventare anonimo e insignificante” (C. Magris – “Nelle regioni inferiori: Robert Walser” in C. Magris – “L’anello di Clarisse” – Einaudi – 1999 – p.168). Ma in questo annullarsi ed estraniarsi vi è si una forma di autoestinzione, ma per poter preservare il proprio io poetico, la propria interiorità, la propria essenza e i propri sogni. Dice infatti Simon Tanner “Non sono niente altro che uno che ascolta e attende, come tale però perfetto perché ho imparato a sognare mentre attendo”

L’essere usato, il rendersi oggetto, il mettersi al servizio, il diventare orecchio per l’altro consente a Simon di “salvare” la propria trasognatezza e l’intima convivenza con il proprio sé, liberandosi da scopi e utilità. Rifiutandosi, come egli fa, “…di “partecipare”, la dipendenza gli assicura l’interiore estraneità” (C. Magris, cit. p. 171) Ma anche di instaurare con colui o colei da cui si dipende un rapporto che si gioca ad un altro livello, diventando in realtà di sottile e reciproca dipendenza. Dice Simon: “A me fa piacere essere uno che dipende dalla benevolenza altrui, mi piace in genere dipendere da qualcuno, per volere bene a questo qualcuno e tender l’orecchio per sentire se non ho ancora demeritato la sua bontà. Bisogna assumere un atteggiamento particolare per questa condizione che è la più dolce delle servitù, un contegno che sta fra la sfacciataggine e la delicata, sommessa, naturale attenzione, e io lo conosco a meraviglia”

Questo vale anche per i coinvolgimenti affettivi, ai quali Simon si sottrae pur essendo pronto a “donarsi” mettendosi al servizio della felicità dell’altro, ma restando sempre e comunque fedele a se stesso. Quando il personaggio di Klara gli esterna con passione i suoi sentimenti e il suo trasporto, “…Simon se ne difese, con molta dolcezza, come era suo solito. Disse che voleva fare una passeggiata. Lei lo guardò mentre si allontanava, ma egli non si curò minimamente del suo sguardo. …disse fra sé “Probabilmente darei la mia vita per lei, se servisse al suo benessere di pretenderlo…ma…Ho altre cose a cui pensare. Stamattina per esempio sono felice, sento le mie membra come sottili, flessibili fili metallici. Quando sento le mie membra sono felice, e allora non penso proprio a nessuno, né a una donna né a un uomo, semplicemente a niente. Ah come è bello qui nel bosco, in una mattina di sole così. Come è bello essere libero…” Si gettò supino sul prato e sognò”.

Simon si pone quindi anche qui nella condizione di farsi nemico dell’adeguatezza, in questo caso di quella dell’uomo che possiede una donna, sottraendosi dall’esercitare anche questo tipo di possesso e riaffermando così la “sua” inadeguatezza, basata sulla sua libertà e sulla sua inappartenenza. In questo modo Walser e i suoi personaggi proteggendo il sogno si proteggono dalle “esclusioni” a cui la vita prima o poi conduce. Mantenendo infatti un divario incolmabile fra sogno e realtà ciò consente di differire l’impatto con la realtà e, al tempo stesso, di destituirla di senso. Il farsi tiranneggiare: “Nulla mi dava” – dice Simon – “maggior piacere che prendere da loro ceffoni, perché questo mi dimostrava che avevo la capacità di renderli furiosi contro di me”, toglie alla realtà riconoscimento, impedendole di essere presa sul serio e mantenendo, in questo modo, un’inconfessata idea del mondo come gioco.

Il distacco dalle cose materiali, così come dal possesso amoroso, è in Walser il distacco dalle cose prima che esse prendano “forma” e, in quanto tali, entrino nell’ordine delle cose e si infrangano a contatto con l’esistenza. E, in questa sua immaterialità, che è poi il luogo puro e assoluto della poesia, Simon Tanner può alla fine sollevarsi e librarsi leggero, libero e liberato dai desideri e, soprattutto, libero e liberato dagli struggimenti che essi portano con sé: “…io salto, vede, così come il vento fischia, e rovescio e calpesto con noncuranza tutti i ricordi solo per poter correre ancora più leggero. Il mondo intero vola con me, la vita intera! Così è bello. Solo così! Niente è mio al mondo, ma io non ho più nemmeno bisogno di nulla. Non conosco più lo struggimento”

 

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2 risposte a “I fratelli Tanner” – Robert Walser — LO LEGGE CON NOI… :: RAFFAELE, IL COLLEZIONISTA DI LETTURE, 19 FEBBRAIO 2020

  1. MGP scrive:

    Un vero piacere leggere questi commenti alla scrittura e alla persona di Robert Walser.
    Riporto dei passaggi un po’ a memoria . L’immagine che lo fa appartenere alla famiglia degli scoiattoli, dei viaggiatori silenziosi. . . un viaggio nell’aria, il suo. E lo stesso Simon, il suo scrivere come necessità e piacere mentre fuori piove e la visione della sua fanciullezza non troppo indietro nel tempo e sdraiato al sole non solo poteva, ma era costretto a sognare. Era capace di allontanarsi e allo stesso tempo di essere proprio lì, in quel piccolo pezzetto che raccontava.

    Dice Simon: “…io ho poche speranze. Cioè, anche questo non lo posso dire, se devo essere veritiero. Io sono pieno di speranza. Non mi abbandona mai, mai.”

    Dice ancora Simon Tanner “Non sono niente altro che uno che ascolta e attende, come tale però perfetto perché ho imparato a sognare mentre attendo”

    Bello, bello Chiara . E’ stato un piacere leggere di lui Grazie

  2. Donatella scrive:

    Mi attira, grazie alle vostre preziose notizie, questo autore, che non conoscevo.

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