GIANCARLO BOSETTI :: IL POPULISMO SPIEGATO A CHI C’E’ — SUL LIBRO DI YVES MENY — RICERCA.REPUBBLICA.IT — 21 APRILE 2019

 

RICERCA.REPUBBLICA.IT — 21 APRILE 2019

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GIANCARLO BOSETTI ( Varedo, 1946 )

direttore di RESET, fondata nel ’93 con NORBERTO BOBBIO

e  VITTORIO FOA

Il populismo spiegato a chi c’è

 

Giancarlo Bosetti

 

 

Vent’anni fa, Yves Mény analizzò prima di altri il fenomeno dilagato negli Stati Uniti e in Europa. Ora ci torna su dimostrando il paradosso: gli elettori che chiedono più voce si consegnano a un “capo” oggetto di culto

«Finita la lotta di classe, si è aperta quella del “noi” (il popolo) contro di “loro” (i dirigenti)». Yves Mény aveva già regolato magistralmente i conti con il populismo in un importante volume, Populismo e democrazia, scritto insieme a Yves Surel, nel lontano 2000. Così si apriva il libro apparso ben prima della grande deflagrazione del fenomeno. Ora che però si è passati dallo “spleen della democrazia” e dei suoi partiti a una crisi galoppante, e dagli albori di un fenomeno “nuovo”, ai suoi trionfi attuali negli Usa, nell’Europa dell’est, in Italia e altrove, questo celebre politologo francese, di casa in Italia, ritorna sul tema con una monografia, penetrante e di facile lettura, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico (Il Mulino).

 

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel tempo:

 

Le Pen padre si sarebbe affacciato al ballottaggio presidenziale nel 2002, il M5S nascerà solo nel 2009. Allora la scienza della comunicazione era dominata ancora dalla televisione commerciale, oggi dal FAGA (Facebook, Apple, Google e Amazon) e dai social, con quel che ne segue in termini di mercatizzazione globale contro controllo degli stati sovrani e in termini di liquefazione dell’opinione pubblica.

Mény raccoglie con la sua documentatissima analisi la storia del buon senso che si prende la rivincita sull’expertise, delle emozioni sulla ragione, delle credenze contro la scienza e di tutta la valanga che sommerge la sfera pubblica oggi.

Dove il discorso di Mény ha la sua maggior forza nei confronti della ormai vastissima letteratura sul tema populista (di cui lui stesso è punto di riferimento fondamentale) è nello sfondo storico del fenomeno, che ha negli Stati Uniti un punto di origine (e di vistoso arrivo).

Il People’s Party si affaccia là alla fine dell’Ottocento, acquista una influenza che non riesce però mai a scalzare i partiti dominanti, fino alla svolta del 2016: Trump.

Quello, come altri fenomeni analoghi — il poujadismo in Francia, l’Uomo Qualunque in Italia nel dopoguerra — trovano spazio nella natura della democrazia rappresentativa, che fin dalle origini non solo si basa su una delega a un corpo eletto di legislatori e governanti, ma introduce limiti all’esercizio del potere, il che costituisce l’essenza del liberalismo, che, spiega Mény, «è stato raramente un valore delle masse, perché implica di solito moderazione, pluralismo, mediazione» ed è stato invece «frequentemente rivendicato da élite spaventate dalla “tirannia della maggioranza”» come «strumento di resistenza alla democrazia, intesa come potere illimitato del popolo sovrano».

Uno dei padri fondatori della Costituzione americana, James Madison, fu molto esplicito: la delega a pochi scelti consente di «meglio discernere l’interesse effettivo del proprio Paese» e rende «meno probabile che si sacrifichi il bene del Paese a considerazioni particolarissime».

 

Negli stessi anni Edmund Burke, eletto parlamentare a Bristol, rivendica il libero arbitrio e l’uso della ragione, no al mandato imperativo.

 

L’elemento liberale e quello democratico si sono lungamente bilanciati e contrastati nella storia delle moderne democrazie, ma — qui Mény è molto netto — nell’ultima fase il secondo è stato svantaggiato, tanto che ci dobbiamo chiedere: «Non ci siamo spinti troppo oltre? I populisti hanno già tanti difetti e non bisogna attribuire loro quelli che non hanno».

I cittadini non hanno quasi più voce in capitolo in scelte che li riguardano. I processi di governance, la moltiplicazione di poteri amministrativi non eletti, e la traiettoria dell’Unione Europea, che ha introdotto tante norme “di soppiatto” all’insaputa di tutti, hanno come costruito bersagli perfetti per movimenti populisti che rivendicano “voce” per gli elettori, anche se poi finiscono per consegnare il bastone del comando a un “capo”, che al “controllo” (tanto liberale come democratico) preferisce il “culto”. Minaccioso terreno di incontro tra populismo e autoritarismo.

 

 

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