AVVENIRE + REPUBBLICA :: IL SILENZIO ASSORDANTE DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE SULLA POPOLAZIONE YAZIDA SOPRAVVISSUTA AL GENOCIDIO DEL 2014 DA PARTE DELL’ISIS. — link sotto

 

 

Risultato immagini per montagna di sinjar

 

 

AVVENIRE.IT -SABATO 3 AGOSTO 2019

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/yazidi-a-5-anni-dal-genocidio

 

 

Iraq. Yazidi, 5 anni fa il genocidio. Ma la ferita resta aperta

Risultato immagini per montagna di sinjarpopolazione yazida nei campi profughi

 

Sara Lucaroni

 sabato 3 agosto 2019

In tutte le cerimonie oggi si mostrano le foto delle ossa e degli stracci che ancora emergono dalle buche o in mezzo ai campi. L’incubo scomparsi: mancano all’appello 3mila rapiti dal Daesh

Profughi yazidi in fuga dal Daesh (Ansa)

Profughi yazidi in fuga dal Daesh (Ansa)

Centinaia di braccia si alzano verso l’elicottero che le sorvola basso. La ferocia del vento sconvolge i vestiti delle donne coi fagotti e i bambini in braccio, e lo stremo di certi anziani portati a spalla. Ivan Watson, giornalista della Cnn, è a bordo e impronta una telecronaca il più professionale possibile sopra il rumore delle pale e delle urla. I soldati americani lanciano viveri ma la risposta dal basso sono mani che chiedono di essere tirate a bordo. Lui tira su quelle che riesce ad afferrare, poi siede in silenzio tra i salvati con gli occhi spalancati.

Erano le prime immagini di un’apocalisse sconosciutainiziata cinque anni fa in Iraqdi un popolo fino ad allora altrettanto sconosciuto e l’anno in cui la minoranza yazida ha vissuto il suo 74esimo genocidio, stavolta per mano dell’organizzazione jihadista più efferata: il Daesh.

 

Che continua ad accanirsi. Pochi giorni fa una decina di miliziani è arrivato fin sotto il cementificio della città di Sinjar. Vistisi scoperti, quattro di loro si sono fatti saltare in aria.

In tutte le cerimonie di commemorazione oggi si mostrano le foto delle ossa e degli stracci che ancora emergono dalle buche o in mezzo ai campi coltivati, che qualcuno da mesi brucia e distrugge. E le foto di quella grande fuga, scalzi, con qualche oggetto preso al volo in casa, e la certezza cruda di quell’aver perduto tutto in pochi minuti. Simboli di un unico messaggio: «Il Daesh è sconfitto solo territorialmente e il nostro genocidio continua».

 

Per giorni tra le rocce della montagna di Sinjar o in carovane di auto verso Dohuk ed Erbil, fuggiva quasi mezzo milione di persone dai villaggi attaccati per rastrellare “miscredenti” e schiave sessuali.

 

Risultato immagini per NADIA MURAD

Nadia Murad Basee, (Kocho, 1993) è un’attivista per i diritti umani irachena yazida. Nell’agosto del 2014 venne rapita e tenuta in ostaggio da parte dello Stato Islamico.Dal settembre 2016, è prima Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, e nel 2018 ha ricevuto, assieme a Denis Mukwege, il Premio Nobel per la pace.

Garantire la sicurezza è quel che si prefigge di fare il neo eletto Mir degli yazidi, la suprema guida della comunità, il principe Hazim Tahsin Beg. L’altra sfida è ottenere rappresentanza politica e sostegno economico. Nadia Murad da sola non basta. E poi ci sono i 3 mila rapiti di cui nulla si sa.

Solo 170 donne e bambini sono stati rintracciati. Chi è ancora nel campo profughi di al-Hol in Siria non ricorda chi è o ha paura. Sui telefoni circolano foto inedite di un’ala dell’ospedale di Sinjar con scarpine, calzature di donne e vestiti. Nelle prime ore dell’occupazione della città, molte yazide lì sono state vestite, truccate e poi violentate. La vecchia scuola di Kojo ospita la mostra con le foto dei vivi scomparsi e dei morti. A poca distanza il governo iracheno e una delegazione delle Nazioni Unite scava per la prima volta una delle più grandi fosse comuni, con lo scopo di incriminare il Daesh.

 

 

 

 

repubblica del 12 ottobre 2016

 

https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2016/10/12/news/donne_yazide_dimenticate_dalla_comunita_internazionale_dopo_la_schiavitu_l_oblio-149600284/

 

 

Donne yazide dimenticate dalla comunità internazionale, dopo la schiavitù l’oblio

La maggior parte delle sopravvisute deve fare i conti con i traumi psicologici, fisici e con i debiti contratti per pagare i riscatti. Il tutto di fronte all’indifferenza della comunità internazionale

 

 

di CHIARA NARDINOCCHI

 

 

Donne yazide dimenticate dalla comunità internazionale, dopo la schiavitù l’oblio

 

 

ROMA –

Struprate, affamate e vendute come fossero animali. È questa la storia di migliaia di donne e bambine yazide che per mesi sono state schiave dell’Isis. Alcune sono riuscite a fuggire, altre sono state riscattate dalle famiglie. Ma una volta finito l’incubo della schiavitù, ritornare alla vita non è semplice. Ai traumi psicologici e fisici, si aggiungono povertà, mancanza di risorse e il silenzio assordante di quella comunità internazionale che tanto si è indignata di fronte alle storie strazianti di queste donne, ma che ad oggi troppo poco ha fatto per garantire loro un futuro.

 

Due anni.

Il calvario della comunità yazida, una minoranza di religione preislamica del Sinjar iracheno, è iniziato nell’agosto del 2014 quando i miliziani del Daesh hanno attaccato la regione nord occidentale dell’Iraq. Migliaia i morti massacrati per non aver abbracciato il credo millantato dai terroristi che ben poco ha a che fare con la religione islamica. Diverso il destino delle donne che in gran parte sono state rapite, schiavizzate e usate come merce di scambio. Sebbene non ci siano numeri ufficiali, si conta che siano all’incirca 3800 le donne e i bambini yazidi ancora in mano ai miliziani del Daesh. Alcune sono riuscite a fuggire o sono state riscattate dalle famiglie costrette a indebitarsi. Amnesty International ad agosto ha incontrato 18 sopravvisute che hanno deciso di raccontare le loro tragiche storie per aiutare quelle che a differenza loro sono ancora nelle mani del sedicente Stato Islamico.

Meglio morire.

“Non voglio nascondere cosa è accaduto, in modo che le persone possano aiutare chi è ancora nelle mani di Daesh e coloro che sono sopravvissute a rifarsi una vita”. Sono queste le parole di Jamila (nome di fantasia), una ragazza di vent’anni per 17 mesi nelle mani del Daesh. Jamila ha raccontato che nella città di Mosul è stata costretta a denudarsi per poi essere fotografata prima di essere venduta. Inutili due tentativi di fuga: una volta scoperta è stata legata ad un letto, ha subito uno stupro di gruppo, affamata e picchiata con dei cavi elettrici.  Nermeen che di anni ne aveva appena 13 è stata rapita e assieme alla madre e alla sorella di 17 anni è stata picchiata, stuprata, venduta e umiliata. Un dolore troppo forte da sopportare anche dopo la liberazione che ha portato la ragazza  a preferire la morte. Si è data fuoco nel campo profughi di Zakho, nel Kurdistan iracheno ed è morta dopo tre giorni di agonia. “In ospedale – ha raccontato la madre di Nermeen –  le ho chiesto perché l’avesse fatto e mi ha risposto che non ne poteva più” e poi ha ribadito come  la famiglia aveva chiesto più volte che Nermeen potesse ricevere cure specialistiche all’estero.

 

La vita dopo la prigionia.

Le ferite più profonde inferte dal Daesh alle donne e bambine yazide non sono visibili ad occhio nudo. Molte hanno scelto il suicidio incapaci di sopportare la rabbia e la depressione per quanto vissuto. Altre fanno i conti ogni giorno con i problemi economici che il pagamento di riscatti elevati per liberare amici e familiari fa gravare sulle loro già esili spalle di sfollate e sopravvissute. Una donna di 42 anni assieme ai suoi quattro figli è stata per 22 mesi ostaggio del Daesh. “Picchiava i miei figli – ha detto –  e poi li chiudeva in una stanza. Loro piangevano e io piangevo a mia volta, fuori dalla porta. Lo supplicavo di ucciderci e lui rispondeva che non voleva andare all’inferno per colpa nostra”.  Ora la sua preoccupazione riguarda come trovare il modo per rendere la somma presa in prestito per la loro liberazione tanto da sacrificare le cure mediche.  “Le sconvolgenti testimonianze che abbiamo raccolto – ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice delle ricerche presso l’ufficio regionale di Amnesty International a Beirut  – evidenziano la necessità urgente di un maggiore sostegno internazionale che aiuti le sopravvissute a convivere col trauma fisico e psicologico di ciò che hanno subito e visto, un trauma destinato a durare a lungo”.

Un silenzio assordante.

Alla luce di quanto emerso sugli orrori vissuti dalla popolazione yazida, la comunità internazionale ha fortemente condannato le atroci violazioni dei diritti umani in atto nel nord dell’Iraq. Eppure a distanza di quasi due anni, ad eccezione di qualche caso isolato, poco è stato fatto per coloro che sono riuscite a sfuggire alla morsa dei carnefici del Daesh. Si tratta per lo più di azioni di attori singoli come la Germania che attraverso un programma statale ha permesso a 1800 sopravvisute di ricevere cure specialistiche. Ma ancora manca un sistema unico e organico che permetta di valutare i bisogni delle vittime. “La comunità internazionale – ha aggiunto Maalouf – deve tradurre in azioni concrete lo shock e l’orrore per i crimini compiuti dall’Is e la solidarietà verso le yazide sopravvissute a terribili violenze sessuali e altre brutalità. I donatori devono impegnarsi ulteriormente, attraverso l’istituzione e il finanziamento di programmi di sostegno e trattamento specialistico, in consultazione con le sopravvissute, gli attivisti e gli operatori sanitari locali”.

 

 

“Per loro eravamo kuffar, infedeli cui si può fare qualsiasi cosa”.

 

Lo ha raccontato Nour, una ragazza di 16 anni che ha avuto un figlio durante dai suoi aguzzini –  Durante la prigionia ci hanno umiliato: non ci davano da mangiare; picchiavano tutte, persino le bambine piccole; ci compravano e ci vendevano e ci facevano ogni cosa gli venisse in mente. Era come se non fossimo esseri umani. Io ora sono libera, ma altre si trovano ancora in questo inferno. Non abbiamo abbastanza denaro per sostenere noi stesse e riavere indietro le nostre parenti”.  Tre sorelle e una zia di Nour sono ancora prigioniere dell’Is.

 

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  1. Donatella scrive:

    E’ incredibile che una situazione del genere, analoga a quella dei campi nazisti, non venga messa in rilievo e condannata dalle organizzazioni internazionali. Naturalmente occorrerebbe un aiuto straordinario per le vittime ( le vittime dell’Olocausto ritornarono dai campi tra l’indifferenza generale), ma si può imparare qualcosa dalla storia, se lo si vuole. Gli USA continuano ad assassinare singoli personaggi, considerati da loro i terroristi più pericolosi. Ma occorrerebbe un tribunale internazionale, con ben altra dignità di una specie di terrorismo di stato, per fare luce sugli orrori accaduti in quelle disgraziate terre del Medio Oriente. Si rischia che l’orrore si ripeta tra qualche anno, quando nuove generazioni maltrattate e dimenticate, ricorreranno al terrorismo e al fanatismo per vendicarsi dell’indifferenza e dell’odio.

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