3 febbraio 2020
Soliloquio
so-li-lò-quio
Discorso rivolto a sé stessi, senza interlocutori
voce dotta, presa in prestito dal latino tardo soliloquium, composto di solus ‘solo’ e loqui ‘parlare’.
Questa parola è davvero rilevante, ma può restare al margine della nostra vita. In effetti, probabilmente il caso più normale in cui qualcuno può imbattersi nella mera nozione di questo termine è nella panoramica scolastica sui drammi di Shakespeare, in cui i soliloqui hanno un peso particolare e in cui è particolarmente interessante distinguerli dai monologhi (sembrerebbero sinonimi, e invece…). Ma sarà bello notare che il soliloquio permea le nostre vite — e come il suo nome abbia una nascita sorprendente.
Il soliloquio è il discorso pronunciato a sé stessi. Tutto interiore, anzi introverso, senza interlocutori; quando è in scena, dà al ‘solo’ pubblico lo scorcio segreto su pensieri e sentimenti di un personaggio. In questo si distingue dal monologo, in cui c’è ugualmente una persona sola che parla, ma apertamente a qualcuno che la ascolti (anche nella finzione).
A dispetto della semplicità della definizione, non sempre monologhi e soliloqui si distinguono benissimo, ma facciamo qualche esempio classico, magari scespiriano, così s’intende meglio di che si sta parlando: quello che pronuncia Marco Antonio ai funerali di Cesare è un monologo (Friends, Romans, countryman lend me your ears, atto III del Giulio Cesare); è un soliloquio invece quello del dubbio di Amleto (To be or not to be?, atto III dell’Amleto). Un soliloquio quello che pronuncia Macbeth quando apprende della morte della moglie e viene investito dalla realizzazione della vacuità della vita (Tomorrow and tomorrow and tomorrow, atto V del Macbeth), mentre sono monologhi quello con cui Shylock si difende nel III atto de Il mercante di Venezia, quello con cui Enrico V accende gli animi dei suoi (nel IV atto dell’opera omonima), sul giorno di San Crispino.
Il soliloquio è quindi una meditazione compiuta fra sé; di rado ne facciamo di plateali, tali da averle o anche solo sentirle nero su bianco; ma nel filo dei nostri pensieri affiorano spesso dalle profondità della mente dorsi veloci di brevi soliloqui. La nostra vita scorre fra brani di soliloqui nostri. Tant’è che il soliloquio, anzi il soliloquium, disciplinato per iscritto, nasce nel latino tardo con una matrice religiosa e filosofica.
Sappiamo chi ha coniato questo termine. Se il colloquium era (e il colloquio è) un parlare insieme, il soliloquium sarebbe stato un parlare con sé stessi: così sant’Agostino coniò il termine e scrisse i suoi Soliloquia, che sono appunto meditazioni. Non solo l’esordio di uno strumento letterario fortunato, ma il momento di individuazione di un concetto che, come si vede, ci portiamo dietro.
Così, Shakespeare a parte (e che, vuoi tutta la scena te?), si può parlare dell’avventore del bar che alle sette di mattina sorseggia vinsanto e legge il giornale commentandolo in un fittissimo soliloquio, del soliloquio che pronunciamo a mezza bocca mentre ci laviamo le mani (e interrompiamo bruscamente schiarendoci la voce quando entra la collega), del minaccioso soliloquio con cui chi ha scoperto una nostra responsabilità si interroga sulla giusta conseguenza.
Una parola culturalmente ricca e, insieme, intima.
Necessari tutti e due, il soliloquio e il colloquio. Attenzione a non fare soliloqui quando si parla con altri.