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CORRIERE — 13 APRILE 2013 —
GLI ANNI DELLA SPERANZA (1938 – PRIMA PARTE)
Una stagione ballando sull’abisso dell’orrore
articolo di UMBERTO BROCCOLI
Gli italiani si cullano tra le «magnifiche giornate» cantate dalla radio e il sogno di diventare padroni d’Europa. Il 14 marzo Hitler è a Vienna e il Trio Lescano finisce nei guai per le leggi razziali
1938 sull’orlo dell’abisso: questo potrebbe essere lo slogan di un anno cruciale per la storia del mondo. Dittature in tutta Europa, la radio protagonista dei regimi in Italia e in Germania: consapevolmente o inconsapevolmente si stava tutti seduti sull’orlo dell’inferno. E, ciononostante, c’era chi – illudendosi – cantava a squarciagola «oggi che magnifica giornata». L’illusione era creata dalla radio, complice la voce di Carlo Buti, tenore fiorentino. In quegli anni aveva cantato tutto il cantabile: dall’opera alle canzonette d’amore e a quelle politiche. Buti intona da Fiorin fiorello a Faccetta nera, passando per Vivere, di Cesare Andrea Bixio, altro protagonista indiscusso del cantare all’italiana: sue sono Parlami d’amore Mariù, Il tango delle capinere, Il valzer dell’organino e via componendo.
Vivere sembra uno di quei paradossi della storia, proprio se rapportati al momento in cui prende forma. Era il 1936: il 2 novembre Buti incide questa canzone slow fox, colonna sonora di Canto d’amore, film di Guido Brignone. Una storia drammatica, esemplificata bene dalla trama dell’altra canzone guida: Torna piccina mia.
Con questa si piangeva, identificandosi nell’implorar del padre, abbandonato dalla sua piccina. «Torna piccina mia / torna da tuo papà»: e il pubblico piangeva al cinema, ripiangeva ascoltando la radio, piangeva ancora cantando alla Buti la tragedia di un padre abbandonato. Poi si risollevava con Vivere, diffusa proprio in quel 1938.
E allora, nei cantieri, nei lavatoi pubblici, per strada, un po’ ovunque si stonava «Oggi che magnifica giornata / che giornata di felicità, / la mia bella donna se n’è andata / m’ha lasciato al fine in libertà. / Son padrone ancor della mia vita / e goder la voglio sempre più, / ella m’ha giurato nel partir / che non sarebbe ritornata mai più».
In uno schema piuccheperfetto della canzone italiana: una strofa introduttiva per raccontare le premesse, quasi una riflessione per lanciare il ritornello liberatorio «Vivere, / senza malinconia. / Vivere, / senza più gelosia. / Senza rimpianti / senza mai più conoscere cos’è l’amore, / cogliere il più bel fiore / goder la vita e far tacere il core. / Ridere, / sempre così giocondo. / Ridere, / delle follie del mondo. / Vivere, / finché c’è gioventù / perché la vita è bella / la voglio vivere sempre più». Questa ventata di ottimismo trionfava alla radio e quanto più si diffondeva, tanto più ci si illudeva: l’illusione di essere padroni della vita, ma anche padroni di un impero e futuri padroni d’Europa e del mondo. Quante illusioni, tutte di cartapesta: anni scenografici e scenografati con eserciti pronti a imporre l’ordine delle due nuove grandi “democrazie” dell’Europa contro le demoplutocrazie degli altri Paesi. Illusioni paurosamente affacciate sull’abisso della follia, agitata da venti poderosi di guerra.
Ridere delle follie del mondo.È la radio a raccontare i fatti, con la possibilità di captare notizie in arrivo da altre città. Bastava ruotare la manopola e cercare sulla scala della sintonia: le voci arrivavano disturbate, ovattate, frusciate, ora in primo piano ora più lontane, quasi annegate in un mare di altre voci sibilanti e, a loro volta, attraversate da suoni altri, come in una prova d’orchestra generale e aperta a persone e strumenti. Non era semplice orientarsi e capire. E, considerando quanto (non) si volesse capire, certe notizie – pur arrivando – restavano sospese nel limbo dell’indefinito o dell’incomprensibile.
Tanto era sempre e comunque una magnifica giornata e Carlo Buti spronava a «Ridere, / sempre così giocondo. / Ridere, / delle follie del mondo. / Vivere, / finché c’è gioventù / perché la vita è bella / la voglio vivere sempre più».
E in molti immaginavano una follia di quel mondo e di quell’anno da quanto arrivava via radio dall’Austria.
Il cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg informa Mussolini dell’intenzione di indire un plebiscito sull’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania.
Il 12 febbraio Hitler gli aveva imposto un ultimatum: si doveva realizzare il partito nazista austriaco. Mussolini non approva l’idea del plebiscito e consiglia di accettare le condizioni di Hitler. Von Schuschnigg, contrario all’annessione, è costretto a dimettersi.
Alle 15.45 dell’11 marzo il cancelliere parla così alla radio: «Il presidente della Repubblica mi ha incaricato di dire al popolo austriaco che ci arrendiamo alla violenza, abbiamo dato ordine al nostro esercito, in caso vi sia un’invasione, di ritirarsi senza opporre resistenza perché non vogliamo in nessun caso, neanche in un momento così drammatico, che sia versato del sangue tedesco. Dio protegga l’Austria!».
Primi venti di guerra. Il 12 marzo l’esercito tedesco entra in Austria, dichiarandola annessa al territorio del Reich. Il 12 marzo il Gran consiglio del fascismo esprime la propria approvazione per la soluzione adottata nella questione austriaca. «Non lo dimenticherò mai!», così risponde Hitler a Mussolini: una versione politica contemporanea di Non dimenticar le mie parole, canzone diventata un successo della radio proprio in quei giorni resi indimenticabili.
Indimenticabile Hitler: dopo l’Anschluss piomba a Braunau, dov’era nato, e va a togliere il confine di persona, tronfio, appagato, osannato, divinizzato. Fu un’apoteosi da leggenda nibelungica, senza splendore.
E, sempre per “non dimenticar le sue parole”, questo il proclama di Hitler, entrando a Vienna.
Era il 14 marzo 1938: «Come Führer e cancelliere della Nazione tedesca e del Reich annuncio al cospetto della storia l’ingresso della mia patria nella Nazione tedesca». La sua voce sottile, stizzita, sibilante, oggi ben al di là del ridicolo, entrava nelle case della gente grazie alla radiodiffusione. E tutto si mescolava in una specie di minestrone dagli ingredienti più vari: la voglia di goder la vita assieme al desiderio di annullare quella altrui, rincorrendo la follia della guerra. Appunto: la follia del 1938, la follia della guerra, la follia del mondo, trasformata nella follia della guerra del mondo, la guerra mondiale. E c’era ben poco da ridere delle follie del mondo, perché quel mondo volava verso l’abisso, cantando a squarciagola, illudendosi di vivere una magnifica giornata.
La radio lancia i primi divi. Illusioni amplificate dalle parole, dalle canzoni, dai discorsi, dalla radio diventata compagna – anzi camerata – della vita quotidiana di allora, con gli attori, con i registi, con le canzoni, con le orchestre, con i suoni evocatori di fantasie antiche.
L’Eiar (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) vede nascere l’uccellino della radio, un segnale tecnico andato in onda per decenni e decenni. Aveva scatenato la fantasia degli ascoltatori, nonché degli autori di canzoni. Si lasciava credere la presenza reale di un usignolo negli studi, a Roma, come a Torino, come a Milano, come a Firenze e in tutte le altre sedi della radio italiana.
Il trillo dell’uccellino (ovviamente meccanico) serviva anche per permettere la connessione delle varie sedi e a dare loro il segnale per iniziare a trasmettere. «Della radio l’usignol / stamattina ha preso il vol», si cantava immaginando tecnici, registi, annunciatori e attori alla ricerca affannata del volatile scappato, lasciando tutti orfani del cinguettio. Ed era solamente una scatoletta di legno con un piccolo carillon caricato con una chiave. Lasciata andare la carica, iniziava il cinguettio: ed era allegria. Quando l’usignolo meccanico della radio comincia ad annunciare con un trillo prolungato l’inizio dei programmi serali, era il 1932, decimo dell’Era Fascista, come si scriveva retoricamente sulle iscrizioni celebrative, sulle testate dei giornali, sugli atti pubblici e cosi via.
Gli apparecchi radio dell’Era Fascista (abbreviata sempre in E.F.) si surriscaldavano ed emanavano un odore di pentola dimenticata sui fornelli, attirando la curiosità dentro le loro viscere. Sul retro del mobile lucido c’era un pannello di amianto forato, facile da togliersi. E appariva allora una misteriosa fabbrica in miniatura, ronzante, sulla quale troneggiavano le valvole oblunghe argentate e illuminate da un pallore vagamente surreale. Sul finire degli Anni Trenta ci voleva un bel po’ per orientarsi nell’intrico delle varie stazioni raggruppate nelle reti già funzionanti. Una programmazione seria: musica classica, opera, operetta, radiodrammi in prosa e musica leggera con cantanti e orchestre.
Il debutto di tanti divi futuri: Aldo Fabrizi, Nunzio Filogamo, Vittorio De Sica.
Già, Vittorio De Sica. Il pubblico dell’Eiar lo ascoltava volentieri come attor comico assieme a Umberto Melnati e a Giuditta Rissone nelle Scenette radiofoniche, in onda una volta alla settimana, dal 1937 e offerte dalla ditta Bisleri. Insieme lanciano modi di dire, ripresi dalla pubblicità degli anni a venire, fino a Carosello. Melnati e De Sica commentano i fatti del giorno con quel fare vagamente rassegnato con qualche venatura di qualunquismo e dicono tra loro: «Dura minga, non può durare », «Dura no!». E Vittorio faceva divertire i ragazzi e non solo, quando – sempre alla radio – addolciva tutti con: «Lodovico, sei proprio un vero amico / di stampo antico, non sai dir no. / Lodovico, sei dolce come un fico / più caro amico di te non ho». Spensierata come poche, Lodovico rimbalzava fra finestre e chiostrine, apriva le giornate degli artigiani lasciando loro credere alla possibilità di incontrare prima o poi un amico del genere: «Fra tanti amici miei, ci sta un amico / e ve lo dico, è Lodovico, / che degli amici è l’araba fenice / la Beatrice che fa felice. / Domandagli un favor, te ne fa due / gli chiedi mille lire e sono tue / e se gli chiedi il naso, non si sbaglia / lui se lo taglia e te lo dà».
Versi ingenui, ma ben calibrati di Luciano Ramo e ben adattati alla musica di Vittorio Mascheroni in questa canzone scritta per una commedia musicale: Le lucciole della città.
In un’Italia degli Anni Trenta, provinciale, ma con velleità di primeggiare in Europa: sostanzialmente contadina, maschilista, gerarchizzata. Con una casta di statali visti come privilegiati: professori, funzionari, classe dirigente autoreferenziale, inebriata dal concetto di autorità. Giovani cresciuti con una educazione paramilitare: a scuola si entrava e si usciva marciando, con il grembiule indossato come una uniforme. Sulle maniche, come i gradi militari, l’anno di frequenza in cifre romane. Ci si alzava in piedi sull’attenti davanti ai professori aspettando l’ordine di “riposo”.
Tutto era autoritario e non autorevole: anche il bidello. E questa tendenza sarà traghettata nella scuola del dopoguerra.
Usciti da scuola ci si doveva sistemare: questo era il verbo riferito al matrimonio. E ci si sistemava, perché si poteva creare una mezza ricchezza, mettendo insieme due povertà. Le case fredde d’inverno, calde d’estate, con forti odori di cucinato: austerità ovunque, poiché in definitiva “potevamo fare a meno degli inglesi”. Al lavoro sei giorni su sette, sabato mattina compreso, ma la domenica era festa per tutti. La domenica mattina era il momento trionfale dei dolci e delle pasticcerie. Le paste venivano esposte in vetrinette sistemate al di sotto del piano di vendita perché i bambini più piccoli potessero scegliere. E anche in una grande città ogni pasticcere aveva la sua clientela fissa, salutava il capofamiglia riconoscendogli il titolo e recitando con orgoglio i nomi dei bambini che sfilavano ordinatamente davanti alle vetrine. Odore di vaniglia, bignè a forma di oca con il collo ritorto (ochette), poca cioccolata, ma tanta panna, crema, zabaione e marmellate.
Ogni cliente aveva il suo “vizietto”, una predilezione per qualche dolce in particolare. E, comprando dolci, si canticchiava la dolcezza di Lodovico. Sul finire del pranzo la signora offriva le paste, contese dagli uomini, schiamazzando. Volendo, ecco il budino Elah: la signora aveva imparato a cucinarlo con le bustine, mentre friggeva le frittelle di bianco d’uovo e di mela. I dolci però erano un’eccezione: si preparavano solo se c’erano ospiti, magari i bambini della vicina di casa. Ma se c’era una ricorrenza, un compleanno, allora le mamme preparavano torte, con tanto di ornamenti.
E ancora. In quella fine degli Anni Trenta fa la sua apparizione il gelato “pinguino”: un tronco di piramide di crema ricoperto di uno strato di cioccolato fondente e infilato su di una stecca di legno. Fino ad allora il solo gelato da passeggio era quello contenuto nel cono o tra due biscotti e il “pinguino” è una delle rivoluzioni di quello scorcio di Anni Trenta. La giornata si avviava a chiusura con il notiziario della radio delle ore 20 trasmesso da tutte le stazioni.
Era un martedì, il 1° marzo del 1938. Ancora Cesare Andrea Bixio (questa volta con Bruno Cherubini) firma una Canzone sospirata da Vittorio De Sica. Nelle case entra con garbo la voce elegante del divo radiofonico, teatrale e cinematografico. Anche se disturbate dal fruscio di fondo sempre presente, le parole dell’annunciatore arrivano chiare e scandite dal modo di leggere al microfono, retorico, ridondante, oggi ridicolo: «Gabriele D’Annunzio è spirato improvvisamente questa sera alle 20.05, colpito da emorragia cerebrale, mentre si accingeva a passare dallo studio alla sala da pranzo. La salma rivestita della divisa di generale d’aviazione, con la medaglia di Fiume, veniva composta su un letto funebre attorno al quale hanno prestato la prima veglia gli intimi e le altre personalità accorse alla prima notizia».
È morto il Vate. Sul cancello del Vittoriale un velo nero, unico segno di lutto. Nella portineria, un comunicato dove si danno notizie dell’accaduto. Gabriele D’Annunzio era da tempo indisposto, ma i medici non ritenevano che ci fossero motivi seri di preoccupazione. Lo scultore Minerbi provvede a ricavare la maschera funebre secondo la precisa volontà lasciata dal poeta. Dopo la sosta sulla nave Puglia, la bara viene trasportata nel loculo dove rimarrà fino alla traslazione nelle arche dei legionari fiumani. Il feretro è portato a braccia dai fedelissimi del poeta e comandante.
Così qualche anno dopo, sempre alla radio, il 2 marzo 1952 Giuseppe Bozzini intervista Vittorio Duse, medico di D’Annunzio dal 1921 fino alla sua morte. Parola di Vittorio Duse: «La morte fu fulminea, istantanea: sono arrivato subito dopo. Sono venuti a prendermi con la macchina ma quando sono arrivato non c’era più niente da fare. Aveva sempre desiderato una fine così rapida, che aveva poi cercato anche sul campo di battaglia vero più di una volta tanto che lui diceva che la morte lo aveva tradito, la chiamava la sua nemica. La cosa che colpiva subito l’interlocutore era di vedere questo, la chiarezza di quella memoria, e di quella parola, il più grande pericolo, la più grande insidia del comandante, diciamolo pure, era quella di lasciarsi prendere dal suo fascino, subito, lui affascinava tanto gli uomini quanto le donne, tanto gli amici quanto i nemici».
Le tre sorelle. Anno di contraddizioni, quel 1938: del resto e a ben vedere, ogni anno è un anno di crisi, di cambiamento, di contraddizioni. Forse perché ogni anno è il risultato dei giorni vissuti dagli uomini e gli uomini sono da sempre tutto questo: crisi, cambiamento, contraddizioni. Per cui nel 1938 sull’orlo della catastrofe si continua a cantare «oggi che magnifica giornata» e, quando muore D’Annunzio, maestro delle parole, il Trio Lescano ed Emilio Livi fanno ballare l’Italia con Non dimenticar le mie parole.
Erano “le tre grazie del microfono”. Tre sorelle olandesi: Alexandra, Judith e Kitty Leschan, i cui nomi vennero italianizzati in Alessandra, Giuditta e Caterinetta (Caterina) Lescano. Un successo fragoroso, costruito su virtuosismi vocali raffinati, contaminando swing e jazz. Un successo esplosivo, tutto radiofonico, centrato proprio su quello scorcio di Anni Trenta, anni nei quali tra i sogni dell’italiano medio c’era anche quello di guadagnare mille lire al mese («se potessi avere / mille lire al mese», note scritte sul pentagramma della speranza). Alexandra, Judith e Kitty Leschan guadagnavano mille lire al giorno: lo stesso Mussolini – dice una leggenda – pare le salutasse con curiosità, passando lui sotto il loro balcone. Un successo fragoroso ed esplosivo finito in una tempesta con il sapore dell’incredibile. Il 1938 è l’anno delle leggi razziali e la mamma delle tre sorelle era una cantante d’operetta olandese ebrea: del resto, una delle tre grazie si chiamava Judith, italianizzata in Giuditta. Dalle stelle alle stalle, nel giro di pochi mesi: non solo sgradite al regime perché ebree, ma anche accusate di spionaggio. Il regime con loro dà il meglio di sé, come in altre occasioni del genere. L’accusa: le “tre grazie del microfono” passano informazioni alle plutocrazie avversarie con i testi delle loro canzoni.
Oggi, dopo oltre settanta anni, è ancora difficile individuare quale messaggio in codice fosse nascosto dietro «Non dimenticar le mie parole, / bimba tu non sai cos’è l’amor, / è una cosa bella come il sole, / più del sole dà calor», peraltro firmata da Bracchi e D’Anzi, autori celeberrimi della musica del periodo e non solo.
Forse il messaggio era più evidente in «Ma Pippo Pippo non lo sa / che quando passa ride tutta la città / si crede bello / come un apollo / e saltella come un pollo», anche questa cantata dal trio e, quindi, in odore di fuga di notizie.
Qui la delazione era a firma di Mario Panzeri, Nino Rastelli e Gorni Kramer, autori di parole e musica della canzone, già accusata di voler prendere per i fondelli Achille Starace, gran federale del regime. Perché in quel 1938 la politica si era accorta da tempo della capacità di coinvolgimento della radio e, da tempo, aveva iniziato la propaganda. Il regime, pur esercitando un controllo un po’ su tutto quanto andava in onda, si riserva dieci minuti serali dopo il giornale radio: dalle 20.20 alle 20.30.
Nascono i Commenti ai fatti del giorno dedicati alla politica internazionale. Erano vere e proprie invettive lanciate da Roberto Forges Davanzati, Mirko Giobbe, Rino Alessi, Mario Appelius pronti a raccomandare agli italiani il disprezzo per Francia e Inghilterra. Il loro linguaggio stonava in una radio tutto sommato bene educata, né gli ascoltatori capivano perché mai improvvisamente si dovessero maltrattare pubblicamente capi di Stato accolti in pompa magna, anche di recente da Mussolini e dal re.
Hitler a Roma. A proposito: era martedì 3 maggio 1938. Per la radio e non solo per la radio, ma per tutta l’Europa, significava l’arrivo di Adolf Hitler a Roma. Ettore Scola ha rivisitato quella giornata in Una giornata particolare. Sofia Loren e Marcello Mastroianni si trovano insieme in quella giornata: lei, casalinga vagamente insoddisfatta anche per l’esaltazione fascista di marito e figli, coinvolti come tutta Roma in quell’evento vissuto come epocale in quella primavera del ’38. Lui, Mastroianni, annunciatore dell’Eiar, lasciato a casa perché non proprio in linea con il regime, troppo maschio per un omosessuale. Avrebbe dovuto commentare l’arrivo del Führer, cosa lasciata fare ad altri con voce virilmente fascista, arrivata comunque fino a noi. Era una colonna sonora unica. Per strada, camicie nere, balilla, giovani italiane e tutta la gioventù del Littorio accanto ai militanti. Nelle case, la radio raccontava a chi non poteva o non ne voleva sapere di partecipare a questa sfilata in maschera. Apparentemente, una messa in scena: con il senno di poi, un antefatto delirante dell’abisso.
(fine prima parte, continua)
Umberto Broccoli (Roma, 4 settembre 1954) è un archeologo, autore televisivo, conduttore radiofonico, conduttore televisivo, saggista e accademico italiano, dal 2008 al 2013 sovrintendente ai beni culturali di Roma capitale.
Pubblicazioni
Ha pubblicato numerosi saggi e libri con Laterza, Curcio, Le Monnier, Rai Eri, e ha collaborato con settimanali e quotidiani (La Repubblica, Avvenimenti, Ultime Notizie, TV Sorrisi e Canzoni, Reset, Archeo). Qui di seguito le principali:
- L’abbazia delle Tre Fontane. (1980)
- Corpus della scultura altomedievale. (1981)
- Il catalogo del museo di Terracina. (1982)
- Terracina. Museo e raccolte civiche (1). (1982, Bardi editore)
- Ostia paleocristiana. (1984)
- Archeologia e Medioevo. (1986, Laterza, ISBN 978-88-420-2710-2).
- Le storie della Storia. (con prefazione di Jacques Le Goff, Armando Curcio Editore).
- Luna Park. La Zingara. (1996, Rai Eri, ISBN 978-88-397-0953-0).
- Mamma Rai. Storia e storie del servizio pubblico radiotelevisivo. (con Claudio Ferretti e Barbara Scaramucci, Le Monnier 1997, ISBN 978-88-00-84014-9).
- Telesogni dalla A alla Z.(con Claudio Ferretti, 1999, Rai Eri, ISBN 978-88-397-1050-5).
- Segni, in Massacciucoli il lago di Puccini, Greentime, 2002;
- Voce del verso amare. (2003, Rai Eri, ISBN 978-88-397-1243-1).
- La poesia dell’amore/L’amore fa rima. (2009, Arnoldo Mondadori Editore, ISBN 978-88-04-58453-7).
- Luoghi Comuni. Da Catullo a Battisti, il gioco eterno delle passioni. (2013, Rizzoli, ISBN 978-88-17-06735-5).