ANTONIO GNOLI, Gianni Berengo Gardin: “Non credo in Dio ma nelle foto. Ogni volta mi fanno rinascere” Intervista a uno dei più importanti fotografi italiani –REPUBBLICA.IT / CULTURA / 18 MAGGIO 2015 — disegno/ ritratto di Berengo Gardin di Riccardo Mannelli

 

 

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Gianni Berengo Gardin: “Non credo in Dio ma nelle foto. Ogni volta mi fanno rinascere”

Intervista a uno dei più importanti fotografi italiani, autore Contrasto, vincitore del World Press Photo nel 1963 e del Leica Award nel 1995: “Ho amato fino a perdere la testa. Mia moglie ha sofferto e mi ha ripreso. I miei figli mi sfottevano. Se vuoi fare il reporter non ti devi sposare”

 

di ANTONIO GNOLI

18 maggio 2015

 

Gianni Berengo Gardin: "Non credo in Dio ma nelle foto. Ogni volta mi fanno rinascere"Gianni Berengo Gardin

 

NELL’AUTOGRILL dove sostiamo guardo con una certa curiosità Gianni Berengo Gardin mentre mangiucchia una scheggia di Toblerone. Gli 85 anni di questo grandissimo fotografo sembrano improvvisamente svanire dentro un piccolo desiderio infantile. Dice che tre sono le cose cui non ha mai rinunciato: la cioccolata, le donne (oggi solo un ricordo, aggiunge) e la fotografia.

 

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MARIO DONDERO

 

 

Stiamo andando a Fermo per un saluto a Mario Dondero che da qualche giorno è ricoverato in ospedale:

 

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UGO MULAS

 

 

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IL BAR JAMAICA NEGLI ANNI ’50

 

 

“Ho conosciuto Mario a Milano, al bar Giamaica. Lui e il suo amico Ugo Mulas erano già famosi. Io alle prime armi. Timido e impacciato”.

 

Sei nato a Milano?

“Sono nato, per caso, a Santa Margherita Ligure. Mia madre gestiva un albergo importante. Ogni stanza aveva il suo bagno. Ci svernavano i Savoia. Un giorno si presentò mio padre. Veneziano. Era lì per una regata. Si videro, si piacquero, si amarono. Fui la conseguenza di quella storia. Dopodiché ci trasferimmo a Roma, dove ho trascorso la mia adolescenza,dal 1937 al 1945“.

 

La Roma fascista e imperiale.

 

“Grottesca. Odiavo le adunate del sabato, gli esercizi ginnici, le prove maschie. La fede nell’uomo del destino. Avevo un tratto dolcemente ribelle. Quando i tedeschi occuparono la città ci fu l’obbligo di consegnare sia le armi che le macchine fotografiche, presi quella di mia madre e due rullini. Andai in giro a fotografare la città. Fu il mio modo di protestare. Non so che fine abbiano fatto quelle foto. Immagino che siano andate perdute”.

 

Cominciasti allora a fotografare?

 

“No, passarono anni prima che mi chiarissi con me stesso. Mio padre aveva partecipato a parecchie guerre ed era finito per alcuni anni in un campo di concentramento in Kenya. Al suo ritorno fu irremovibile. O studi o vai a cercarti un lavoro, perché io non ti mantengo. Ci trasferimmo a Venezia.

Mia madre aveva aperto un negozietto di vetri su piazza San Marco. Ce la passavamo bene e non capivo perché mio padre dovesse avercela con me. Aveva sofferto in prigionia, era tornato malandato. Ma io che c’entravo? Cos’era quel rancore? Quel bisogno di mangiarsi il figlio?”.

 

E tu come reagisti?

 

“Mi creai un altro mondo. Era in pieno corso la stagione degli scrittori americani. Li divoravo. Steinbeck, Dos Passos, Baldwin, ovviamente Hemingway, erano i miei numi tutelari. Sognavo la loro America. Volevo raggiungerla. Provare a rivivere le sensazioni che i loro romanzi trasmettevano. Alla fine scelsi Parigi. Fu una specie di compromesso con una città che mi avrebbe dato diverse sorprese”.

 

In che anni andasti?

 

” Era il 1954. Rimasi lì per quasi tre anni. Per vivere cominciai a fare il cameriere. Passai, in seguito, a portiere d’albergo all’Hotel de Paris. Avevo l’intero pomeriggio libero. Per un ragazzo poco più che ventenne fu un periodo straordinario. Naturalmente cominciai a frequentare l’ambiente dei fotografi. Fu così che divenni grande amico di Willy Ronis.

Mi insegnò tutto quello che c’era da sapere sulle tecniche fotografiche e soprattutto mi fece capire l’importanza che in una foto riveste il lato umano nella sua quotidianità. Conobbi anche Robert Doisneau“.

 

Hai conosciuto anche Henri Cartier-Bresson?

 

“Lo vidi anni dopo. Ma non diventammo amici. Lui era molto legato a Scianna. Però ricordo con soddisfazione una dedica che mi fece a un suo libro: “con simpatia e ammirazione” “.

 

Conosceva il tuo lavoro?

 

“Sì e sospetto che gli piacesse. Ad ogni modo, a parte i fotografi, a Parigi frequentavo gli artisti. Erano gli anni dell’esistenzialismo. Conobbi Juliette Gréco. Si diceva che prima di fare la cantante era stata una specie di “buttafuori” di un caffè parigino. Poi si ammalò la cantante e lei prese il suo posto”.

 

Così nascono le leggende.

 

“Hanno sempre qualcosa di vero. Sentivo ancora parlare della sua storia con Miles Davis, si erano conosciuti alla fine degli anni Quaranta. Poi lei liquidò lui. Fantastico: lo mollò con tutta la sua tromba senza un’apparente ragione. Di leggende vere ho sfiorato Edith Piaf. Nessuna fu come lei. Quando cantava tutto risplendeva intorno a questa donna decisamente bruttina. Avevo 24 anni, sognavo di uscire con lei. Invece mi dovetti accontentare di portare un pomeriggio Jean-Paul Sartre al cinema”.

 

Come accadde?

 

“Per caso. Mi conosceva di vista. Ero il giovane italiano. Simpatico e sveglio. Mi chiese di accompagnarlo a vedere un film. Scoprii così che amava il western. Non ricordo che cosa andammo a vedere. Ma si divertì molto. E quando uscimmo dalla sala  –  in una stradina del Quartiere Latino  –  mi disse: ti chiami Berengò? Non dire a nessuno che mi piacciono i film di cowboy. Il più grande filosofo di Francia era un fan di John Wayne! Parigi mi ha insegnato molto.

Tornai in Italia, a Venezia. Al negozietto. La prospettiva di occuparmi di vetri e di perle mi deprimeva. Ero un foto amatore. Un dilettante che rischiava di affogare. Decisi di lasciare Venezia e trasferirmi a Milano

 

“.Volevi fare il fotografo o cosa?

 

“Volevo, certo. Ma che professione era? Avevo una moglie e due figli. Come li avrei mantenuti? Fu allora che rividi Romeo Martinez, grande amico di Ronis, e direttore di Camera la più importante rivista fotografica del mondo. Mi disse: hai tutte le qualità per fare il salto. Dacci dentro. Deciditi”.

 

E tu ti decidesti?

 

“Alla fine scelsi di dedicarmi interamente alla professione. All’inizio con qualche compromesso. Che mi consentiva di guadagnare. In spiaggia facevo le foto dei “bimbi belli”, che se oggi ci provi ti mandano in galera come pedofilo. Allora no. Le mamme facevano a gara per far fotografare i loro bambini. Ma era un’altra Italia. C’erano già i primi tormenti sociali. Le prime rivolte in fabbrica e da parte mia il desiderio di testimoniare tutto questo”.

 

Che tipo di fotografo sei?

 

“Non penso che la fotografia sia un’arte. La mia idea è che il mezzo testimoni la realtà. La racconti. Il resto sono balle. Grazie alla collaborazione con Olivetti ho raccontato il mondo delle fabbriche. Sono diventato comunista non perché avessi letto i sacri testi di Marx e Lenin. Mi è bastato vedere cos’era la catena di montaggio, la fatica operaia. E la loro forza. Per scegliere da che parte stare”.

 

Sei ancora comunista?

 

“Lo sono sentimentalmente. Ho l’impressione che neppure la carta vetrata riuscirebbe a raschiare quella pelle che ho addosso. A volte mi dico: Berengo, tu lo sai, il comunismo ha prodotto solo cazzate e dolore. Però alla base c’era il bisogno di difendere la dignità umana. È quella che mi interessa. Quando con Carla Cerati abbiamo fotografato, per Franco Basaglia, alcuni manicomi italiani, scoprii che cosa fosse la dignità offesa e umiliata del malato di mente”.

 

Hai conosciuto Basaglia?

 

“Molto bene. Dovremmo fargli un monumento. In un pomeriggio di neve, a Gorizia, mentre a fatica camminavamo, si fermò e mi disse: tu credi che io faccia tutto questo per chiudere gli ospedali. È quello che la gente pensa, gli risposi. La verità è che o cambiamo questa società o sarà tutto inutile. Non ci può essere dignità a fasi alterne, a mezzo servizio”.

 

C’è qualcosa che ti affascina dei luoghi di segregazione?

 

“Non lo so. Mi attraggono nel loro essere eccezione. Mondi patologici. Zone estreme in cui la società confina il diverso. Ma la parola segregazione mi fa orrore. A volte c’è chi la sceglie spontaneamente”.

 

A cosa pensi?

 

“Ai conventi di clausura. A un certo punto volevo assolutamente fotografarne uno. Entrarvi dentro. Raccontarne la vita. Era difficilissimo avere il permesso. Alla fine riuscii a ottenerlo. Insieme a un giornalista del Touring Club riuscimmo a varcare la soglia di un convento non distante da Assisi“.

 

Cosa trovaste?

 

Ci venne incontro la Madre Superiora. Un’anziana badessa segaligna e zoppicante. Ci disse che due suore ci avrebbero accompagnato nel giro. Una aveva poco meno di quarant’anni. L’altra neanche venti. Apprendemmo che quest’ultima era stata un’accesa extraparlamentare e che dopo una crisi mistica si era fatta suora. Ora non ti sto a raccontare i dettagli. Ma sentivo spargersi nell’aria uno strano erotismo. Una sensualità insolita”.

 

Dovuta a cosa?

 

“Sensazioni. A un certo punto, attraversando l’orto, suor Giovanna, la più grande, sollevò leggermente la veste e vidi quelle caviglie bianchissime che contrastavano con la stoffa ruvida e grigia. Ti lascio immaginare. Poi ci fecero visitare alcuni alloggi. In quello di suor Giovanna notai una fila di libri tra cui un paio di romanzi di Dostoevskij e saggi di Marx. Madre legge queste cose? Chiesi, sbalordito. Il Signore non ha mai messo niente all’indice, rispose. Prima di congedarci mi disse che sarebbe dovuta andare a Como a trovare la vecchia madre malata. E che se volevo mi avrebbe rivisto volentieri”.

 

E tu?

 

“Ero incuriosito. Ci rivedemmo in un bar. Vidi avanzare una figura scialba. Anonima. Ero imbarazzato. Senza quella veste, fuori da quel contesto, suor Giovanna mi pareva invecchiata precocemente. Ci salutammo in fretta, con la scusa che sarei dovuto rientrare a Milano”.

 

Hai molto amato?

 

“Sì, fino anche a perdere la testa. Il mio lavoro mi ha portato a stare fuori, spesso a lungo. India. America. Australia. Cina. Ci si disabitua alla vita familiare. Perciò sono giunto alla conclusione che se vuoi fare il fotoreporter, non il fotografo, non ti devi sposare”.

 

Dicevi di aver perso la testa.

 

“Mi è accaduto. Non ti dico i sensi di colpa. Per aver trascurato a lungo la famiglia. Avrò avuto quarant’anni. Lei una ventina. Ero innamorato. È durato parecchio. Poi quando l’amore è finito ho capito tutto il male che avevo fatto a mia moglie. Una grande donna. Che ha sofferto e mi ha ripreso”.

 

La generosità di certe donne.

 

“Un mistero per come a volte le trattiamo”.

 

I tuoi figli come hanno reagito?

 

Mi sfottevano. Sono stati tirati su bene da mia moglie”.

 

Credi in Dio?

 

“No, ma credo nella fotografia”.

 

Alla fine cosa hai avuto da questo mestiere?

 

“Molto. Dal rapporto con Mario Pannunzio al Mondo. Arrivavo in treno a Roma e ripartivo la mattina seguente. Dormivo sulle panchine della stazione. Poi gli anni con l’Olivetti, il Touring Club, la De Agostini e la bellissima collaborazione con Renzo Piano. Ogni volta è stato come apprendere qualcosa di nuovo. Rinascere per non morire”.

 

La fotografia ha qualcosa di associabile alla morte?

 

“Forse sì. Mi pare lo dicesse Roland Barthes. Ma alla fine penso che le persone muoiono, non le foto”.

 

Cosa ti suscita una persona che non c’è più?

 

“Un amico che non c’è più non sparisce mai del tutto. Però non è una foto sul comodino. Non è un morto incorniciato. È aria che circola e che tu respiri. Ogni tanto apri una porta e senti quel refolo che ti investe. Mi torna in mente un episodio”.

 

Quale?

 

Quando 15 anni fa con Ferdinando Scianna andammo a trovare Mario Giacomelli.

Gli mancavano pochi giorni. Era disteso nel letto, non si poteva alzare. Lucido, però. Ci guardò come fossimo gli ultimi avventori di un bar, all’ultimo brindisi. Pensai a cosa sarebbe stata la sofferenza senza l’amicizia e l’affetto di quel momento. E che era valsa la pena farsi quel viaggio fino a Senigallia”.

 

È bello quel “è valsa la pena”.

 

“Lo sai dopo, quando scopri che la vita, anche all’ultimo scambio, conserva un senso. Mia moglie dice che sono un po’ matto. Perché non ho mai voluto in casa i ritratti di mio padre e mia madre. Li voglio ricordare com’erano secondo la mia sensazione. Non credo nelle foto dei defunti. Non credo nei cimiteri”.

 

Nessuna nostalgia?

“No. Alcuni anni fa tornai con mia moglie e i figli nell’albergo dove ero nato. Era diventato un residence e poi di nuovo albergo. Mi impressionò vedere certi oggetti di allora che aveva comprato mia madre: alcune tazzine, un porta ombrelli, un servizio di posate, una pendola a muro. Ebbi un momento di sgomento. Come rivivere qualcosa che non avrei dovuto più percepire. Non era nostalgia per la giovinezza passata. Ma una fotografia impossibile. Un fantasma. Inoffensivo e reso vano dalla distanza. Pensavo alla mia incompiutezza. Alle cose morte, anche quando resistono. Pensavo a me, a noi. Al fatto che da qualche parte avremmo ricominciato a camminare”.

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