FEDERICO PETRONI, I missili dell’Iran in Iraq sono uno schiaffo, non una dichiarazione di guerra agli Usa — LIMES ONLINE DEL GIORNO 8 GENNAIO 2020

 

 

LIMES ONLINE DEL GIORNO 8 GENNAIO 2020

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I missili dell’Iran in Iraq sono uno schiaffo, non una dichiarazione di guerra agli Usa

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali, 2018.

 

 8/01/2020

Teheran e Washington continuano a non volere un conflitto aperto. Con l’attacco di stanotte, gli ayatollah tracciano una linea rossa. E individuano il campo di battaglia: la Mesopotamia.

 

 

di Federico Petroni

QASSEM SOLEIMANI, ARTICOLI, SCONTRO USA-IRAN, IRAN, IRAQ, USA, BASI USA, MEDIO ORIENTE

Doveva rispondere, lo ha fatto. Ma nella speranza di non spingere gli americani a dichiarare guerra.

Queste le uniche certezze del lancio di missili che la Repubblica Islamica d’Iran ha condotto nella notte di mercoledì contro due basi statunitensi in Iraq come rappresaglia per l’uccisione del generale Qassem Soleimani.

Tra i 15 e i 22 vettori balistici Farah-110 sono stati scagliati contro le installazioni militari di Erbil e di Ain al-Asad dove sono stanziati oltre 1500 soldati statunitensi, finora impiegati nella guerra ai jihadisti dello Stato Islamico (Is). Nelle due strutture erano presenti membri delle Forze armate di Germania, Regno Unito, Italia, Polonia, Danimarca e Norvegia, parte della coalizione anti-Is, i cui governi hanno escluso la presenza di feriti fra i propri ranghi.

La tv di Stato iraniana ha parlato dell’uccisione di “ottanta terroristi americani”, mentre le fonti militari a Washington e a Baghdad hanno smentito vittime tra il personale statunitense e quello iracheno.

Aggiungendo un dettaglio chiave: le truppe hanno avuto sufficiente preavviso per mettersi al riparo.

 

Se davvero non ci fossero morti, significherebbe che Teheran ha scelto di fermarsi a un passo dal dichiarare guerra agli Stati Uniti. Che ha individuato la risposta più grave fra quelle al di qua della soglia dell’accettabilità per Washington.

Uno schiaffo, come ha detto alla nazione la guida suprema Ali Khamenei, non una vendetta.Un attacco tutt’altro che simbolico, ma condotto con la speranza di non innescare una rabbiosa reazione negli americani. Il presidente degli Usa Donald Trump, nel prendere tempo annunciando una risposta pubblica per mercoledì mattina (ora di Washington), ha difatti provato a gettare acqua sul fuoco, dichiarando “va tutto bene“.

Usa e Iran continuano a non volere una guerra aperta. Parlano la stessa lingua, si scambiano gli stessi messaggi. Non la voleva l’amministrazione Trump uccidendo Soleimani. Infatti i vertici americani si erano premurati, dopo l’inaudita eliminazione del generale, di chiarire a Teheran di non desiderare un aumento delle tensioni. E non la vogliono gli ayatollah con l’attacco di stanotte. Con il ministro degli Esteri Javad Zarif che su Twitter ha scritto di aver “concluso misure proporzionate” e di “non cercare un’escalation o una guerra“.

 

Così come gli Stati Uniti avevano detto “per noi bene così” dopo Soleimani, allo stesso modo la Repubblica Islamica sta dicendo al mondo “ci fermiamo qua”.

E sta tracciando linee rosse. Tutte le fonti ufficiali puntano in questa direzione. Il Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica ha dichiarato che se Washington dovesse bombardare il territorio iraniano il suolo statunitense verrà colpito da attentati. E ammonito tutti i paesi da cui dovesse partire un’eventuale rappresaglia americana che verrebbero considerati come bersagli. Inoltre, il capo di Stato Maggiore delle Forze armate, generale Mohammad Baqeri, ha sostenuto che “ogni nuovo misfatto degli americani incontrerà una risposta più schiacciante e definitiva”.

 

Avrebbero potuto condurre operazioni ben più audaci e irreversibili. Attentati contro altre basi americane in Medio Oriente o ambasciate statunitensi. Bombardamenti contro infrastrutture civili (prime fra tutte quelle del petrolio, come successo con quelle saudite a settembre). Chiusura dello Stretto di Hormuz o assalti alla navigazione nel Golfo. Ciberattacchi distruttivi (ne hanno la capacità, chiedere alla saudita Aramco).

 

Invece hanno scelto di non allargare lo scontro, limitandosi all’Iraq, la posta in gioco geopolitica di questa partita. A installazioni militari, peraltro premurandosi di non causare vittime. Hanno sì rispettato le condizioni fissate da Khamenei: una risposta diretta, proporzionale e attribuibile all’Iran, prima volta in tutta la storia che Teheran esce dalle ombre per assumersi la responsabilità in prima persona. Però si sono mossi anche nel solco tracciato da Zarif, che nei giorni scorsi aveva provato a tranquillizzare le cancellerie straniere sulla limitazione della risposta di Teheran.

Gli americani speravano in una fra le seguenti reazioni: sottomissione o rappresaglia razionale. Gli iraniani hanno scelto la seconda, a quanto pare. Ma non si fermeranno qui. È del tutto plausibile attendersi altre operazioni contro gli statunitensi. Magari meno spettacolari e visibili. Però a suggerirlo è innanzitutto la strategia persiana.

Gli iraniani hanno detto in queste ore di volere gli Stati Uniti fuori dal Medio Oriente. Non hanno fatto altro che ripetere l’obiettivo di lungo periodo della strategia persiana: togliere la pressione americana ai propri confini, per essere liberi intanto di sopravvivere e poi eventualmente di estendere la propria influenza nel Golfo, in Mesopotamia e nel Levante.

 

Non hanno enunciato un programma operativo per farlo, però puntano a sfruttare questi giorni di crisi per spingere Baghdad acacciare i circa 6 mila soldati a stelle e strisce dall’Iraq.

Lo segnala il fatto che i bersagli di stanotte sono Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, e una località nell’Anbar sunnita, dunque esterne alla tradizionale sfera d’influenza sciita persiana in Mesopotamia. Quasi a voler segnalare alle comunità locali che su di esse ricadranno le conseguenze di continuare a ospitare soldati americani. È questa, al momento, la posta in gioco del conflitto. È qui che si concentrerà la sfida. Decisiva per i persiani per non perdere il cuscinetto che protegge a ovest l’altopiano iranico. E per gli statunitensi per impedire il dilagare degli iraniani verso il Mediterraneo, che sarebbe uno scacco al mantenimento in posizione di debolezza di tutte le potenze mediorientali, obiettivo strategico degli americani nella regione.

Ma la crisi in corso non può non avere ricadute globali.

Le avrà sul programma nucleare di Teheran, che riprenderà con più vigore per minacciare il mondo di dotarsi della Bomba a scopo negoziale – gli iraniani hanno già annunciato che non rispetteranno più l’accordo del 2015 e in ogni caso le scosse sismiche vicino al reattore di Bushehr non fanno ben sperare. Le sta avendo sugli europei, che mugugnano di fronte all’ennesima scelta di Washington contraria ai propri interessi. Le sta avendo sui turchi, che pur intimoriti da una fase di grande instabilità sperano di approfittare del caos per migliorare le proprie posizioni in Siria, attorno a Cipro e in Libia. E le sta avendo sulla strana coppia Russia-Cina, che potrebbe sfruttare l’ennesima, inutile e autoinflitta distrazione mediorientale degli Stati Uniti per condurre la competizione fra grandi potenze nell’ombra. Il terreno che preferiscono.

 

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