LIMES ONLINE DEL 4 GENNAIO 2020 :: FEDERICO PETRONI, Gli Usa, il Medio Oriente e come strategia ed emotività possono cozzare — dal numero 12 / 2019 :: AMERICA CONTRO TUTTI

 

LIMES ONLINE DEL 4 GENNAIO 2020

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Gli Usa, il Medio Oriente e come strategia ed emotività possono cozzare

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Dettaglio dalla copertina del numero 12/2019 “America contro tutti”, a cura di Laura Canali.

 

 4/01/2020

Per spiegare l’uccisione di Soleimani bisogna ricorrere anche ai fattori emotivi. Un estratto da un articolo del numero del mese, America contro tutti.

di Federico Petroni

 

ARTICOLI, USA, SCONTRO USA-IRAN, SIRIA, MEDIO ORIENTE, USA E CANADA

Uccidere il generale iraniano Qassem Soleimani è un gesto clamoroso da parte degli Stati Uniti. Per spiegarlo, non basta ricorrere all’analisi degli interessi strategici. Nel determinare l’atto più ostile da parte americana contro Teheran degli ultimi 40 anni, hanno inciso anche fattori emotivi e il bagaglio culturale dell’establishment di Washington.

 

Ne abbiamo parlato in un’analisi dal numero del mese, America contro tutti, di cui pubblichiamo un breve estratto.

[…] Benché conti assai più del presidente, il corpo militare non può ciò che vuole. Non incarna alla perfezione la strategia geopolitica. Non è un monolite che risponde con lucidità a ogni assestamento tattico.

 

Il Medio Oriente lo illustra alla perfezione. È da più di vent’anni che gli Stati Uniti danno la caccia ai jihadisti. […] Benché astrategici, i conflitti in questa regione si sono infilati sotto la pelle di una fetta considerevole delle Forze armate.

 

Questa eredità culturale ha un peso. E quando le impersonali e spesso disumane necessità della strategia bussano alla porta, ingiungendo un cambio di missione, il bagaglio culturale protesta. È successo in Siria.

 

In Medio Oriente, gli americani hanno interesse a che le potenze regionali (ed extraregionali, vedi la Russia) continuino a scannarsi tra loro, impedendo l’emersione di un attore dominante sugli altri. Per questo stanno con i due soggetti più deboli, Israele e Arabia Saudita, contro l’Iran e, in prospettiva, la Turchia. Questa è la missione primaria. Distruggere Stato Islamico e soci: importante, ma secondario. Rimuovere al-Asad da Damasco: ci hanno mai davvero provato?

 

Tanto prioritario è il contenimento dell’Iran che nel 2019 Washington ha inviato 14 mila militari in Medio Oriente, per rassicurare alleati attaccati (i sauditi) e libertà di navigazione nel Golfo.

Se si esclude l’Afghanistan, che è Asia centrale, in questa regione Trump ha spedito più truppe del suo predecessore, Barack Obama. L’unico paese della regione senza soldati americani, oltre ovviamente alla Repubblica Islamica, è lo Yemen – ma non ci giureremmo.

Nell’area operativa del Centcom (questa volta Afghanistan incluso) i militari sono ora 60-70 mila.

 

Carta di Laura Canali - 2018Carta di Laura Canali – 2018

 

Approfittando della guerra al califfato e del caos in Mesopotamia e Levante, l’Iran ha negli ultimi anni esteso la propria sfera d’influenza. Teheran è diventata il bersaglio più urgente dell’azione americana. Gli Usa però si rendono conto che è interesse anche di tutte le altre potenze regionali contenere Teheran. E non sono disposti a sobbarcarsi l’intero onere. A partire da Trump. Così, quando la Turchia ha dimostrato l’intenzione di invadere un pezzo di Siria, Washington ha voluto cogliere due piccioni con una fava: sovraestendere Ankara, testandone le ambizioni imperiali, e delegarle parte del presidio del cuscinetto che sottrae alla Repubblica Islamica la continuità della sfera d’influenza dall’altopiano iranico al Mediterraneo.

Addirittura Trump intravedeva un terzo piccione: dichiarare missione compiuta, ritirare tutti i soldati e andare alle elezioni dicendo di aver chiuso una guerra. Ne è nata una confusione enorme. Con i media impegnati a raccontare il tradimento degli alleati curdi e la vergognosa ritirata americana. Poi, però, le truppe non hanno abbandonato la Siria, sono tornate a posizionarsi nel Nord-Est all’arrestarsi dell’offensiva turca e dei mille e passa soldati ne resteranno circa seicento.

 

Di questi eventi conta sottolineare un punto. Gli interessi strategici, ossia un cuscinetto contro l’Iran e la sovraestensione della Turchia, sono stati garantiti. Ma né il presidente né le Forze armate hanno ottenuto tutto ciò che volevano. Trump ha riportato a casa qualche ragazzo, ma non tutti. I militari hanno lasciato un contingente, ma non quello che speravano. Soprattutto, in quelle convulse ore, avevano protestato per il sacrificio, sia pur temporaneo, delle milizie curde, alleate affidabilissime perché disperatamente sole; e per aver dovuto allentare la pressione sui jihadisti, temendo di avvantaggiarli. Non si tratta di pretesti: nel valore guerriero e nella missione antiterrorista le Forze armate credono davvero. Anche a costo di ignorare il preminente impulso strategico.

 

In virtù della stessa dinamica, da decenni militari e intelligence mantengono un dannoso odio nei confronti della Repubblica Islamica d’Iran, che incarognisce il confronto e complica ogni riavvicinamento. Questa vicenda serve a ricordare che le Forze armate non sono la strategia degli Stati Uniti.

I rispettivi interessi possono non coincidere. Risulta difficile ricordarselo, specie di fronte a una nazione così marziale e a una strategia sempre più fatta esclusivamente da chi si occupa di sicurezza. Eppure è cruciale per discernere come si muove Washington. Le cui mosse sono il frutto di un intenso, rapsodico negoziato fra attori diversi, cangianti a seconda dell’area di riferimento. Nell’impossibilità di nominare lo stratega. Persino la persona più vicina a questo idealtipo, il defunto Andrew Marshall a capo dell’Office of Net Assessment per quarant’anni, era visto come astruso corpo estraneo all’interno del Pentagono. Bizzarro, agli occhi dei colleghi, perché chiamato a occuparsi del lungo periodo, non del qui e ora. Lusso non concesso a quasi nessun funzionario invischiato nei vicoli del quotidiano esercizio del primato mondiale.

Forse questo processo garantisce più ponderazione. Forse queste mosse raccontano l’ingresso dell’America in una fase più matura del suo impero – di certo non l’inizio del suo ritiro. Una fase in cui saprà scegliere con più cura le battaglie da combattere. In attesa che il prossimo schiaffo ne tiri fuori tutto il proverbiale furore. Lanciando tutto il suo peso su una sfida totalizzante. Ciò che meglio le riesce. Una cosa è certa: lo farà da una posizione avanzata. Da una base.

 

QUESTO TESTO E’ PARTE DI UN ARTICOLO MOLTO PIU’ VASTO DAL TITOLO::

 

 

LE BASI DELL’IMPERO

Pubblicato in: AMERICA CONTRO TUTTI – n°12 – 2019

Carta di Laura Canali

 30/12/2019

Le installazioni militari all’estero – almeno ottocento, forse molte più – sono l’impronta della postura imperiale. La scelta di impiantarsi nel mondo deriva dalle lezioni della seconda guerra mondiale. Il contenimento dell’Eurasia è la priorità. Ma chi comanda davvero?

 

di Federico Petroni

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