GIOVANNA GIACONIA, PSICOANALISTA, SPIWEB, SOCIETA’ PSICOANALISI ITALIANA, 18 MAGGIO 2013 :: Rileggere Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza–prima parte del Seminario

 

 

NOTA DEL BLOG:

 

Le parti in corsivo, come è facile da immaginare, sono il commento della psicoanalista

 

 

18 maggio 2913

 

Rileggere Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza

 

Rileggere Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza

Matisse 1

Centro Veneto di Psicoanalisi

Padova, 18 maggio 2013

 

INTRODUZIONE.

 

Al Centro Veneto di Psicoanalisi, nell’ambito dei Seminari Teorico Clinici, Giovanna Giaconia e Cristina Saottini hanno proposto due interessanti riletture di Pinocchio che hanno suscitato una vivace discussione nel pubblico.

Giovanna Giaconia. Rilettura di Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza. 

Cristina Saottini. Pinocchio, un mito italiano. 

 

 

Rilettura di Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza

Giovanna Giaconia

 

“Le avventure di Pinocchio” nasce come racconto a puntate pubblicato sul giornale dei bambini a partire dall’anno 1881 e termina nel 1882 al 15esimo capitolo con l’impiccagione di Pinocchio da parte della losca coppia il Gatto e la Volpe. Pare che i bambini non si rassegnassero a questa fine e chiedessero che Pinocchio tornasse in vita. Fatto è che la pubblicazione riprende per concludersi nella forma nota nel gennaio 1883 al 35esimo capitolo.

Un libro per bambini, edificante, educativo, letto anche dagli adulti.

Nasce in Toscana, una regione povera dell’Italia post unitaria, scritto nella lingua parlata distante dal linguaggio aulico dei poeti, per una società che l’autore guarda con critica partecipazione e spirito libertario. Libro per bambini, dicevo, letto dagli adulti, una commedia umana che ha evocato, per me, la fantasia autobiografica di un adolescente: nascita, vita infantile, passaggio all’adolescenza e all’età adulta.

Pinocchio è un burattino o un ragazzo burattino, irrequieto, perennemente affamato (in Toscana la fame era, a quell’epoca, di casa). Come ogni personaggio è per l’autore vagamente autobiografico “Madame Bovary c’est moi” scrive Flaubert.

L’autore nasce infatti in una famiglia povera primo di una numerosa fratria, il padre cuoco, la madre lavora come sarta per far fronte alle necessità familiari. Forse la nostalgia per una mamma tanto contesa ha ispirato la scelta del cognome Collodi, dal villaggio di provenienza materna, al posto del paterno Lorenzini. A Collodi ha forse goduto momenti di intensa vicinanza alla madre in un libero ambiente agreste, ha forse sperimentato o fantasticato quella relazione contiguo-autistica di cui parla Ogden

.Pinocchio nasce da un pezzo di legno da catasta, anima arborea, parla ancor prima di essere nato. Voce evocativa nella fantasia infantile: ogni bambino chiede “dov’ero prima di nascere? Prima di essere nella pancia della mamma?”

La voce spaventa mastro Ciliegia ma è accolta da Geppetto “il maieuta che rivela le proprietà nascoste del pezzo di legno” (Manganelli). Mastro Ciliegia e mastro Geppetto, detto Polendina per la parrucca gialla, sono due personaggi contrapposti, concreto preda di allucinazioni alcoliche mastro Ciliegia, poetico sognatore surreale mastro Geppetto, un eterno adolescente non giunto all’età adulta. Nella sua misera casa solitaria, una stanza che prende luce da un sottoscala, crepita dipinto sul muro un fuoco sui cui bolle fumante una pentola.Vuole farsi un burattino che sappia saltare, ballare, tirar di scherma, e con lui girare il mondo per guadagnarsi un pezzo di pane e un  bicchiere di vino. Al di là della consapevolezza dà vita a un figlio che lo trasforma da sognatore in padre reale e amorevole. Pinocchio, insolente e derisorio anche prima di essere del tutto nato, oppositivo verso colui che lo mette al mondo, ribelle, con quel naso che non si lascia accorciare, più Geppetto lo taglia più diventa lungo, muove i primi passi condotto per mano dal padre e scappa, salta come una lepre, fa un chiasso che farebbero gli zoccoli di venti contadini, ignaro epigono della filosofia della natura, corre, corre verso la libertà naturale, verso la fusione con l’onnipotente Madre Natura, sfugge alla natura umana cui Geppetto lo destina.

La gente ride, non ascolta le richieste d’aiuto di Geppetto, lo guarda con sospetto, è un personaggio surreale, un diverso, quindi lo accusa “certo sarà un cattivo padre, picchierà il povero burattino” e così il Gendarme, che aveva acchiappato Pinocchio, lo lascia libero e porta in carcere Geppetto.

Penso a un comportamento sociale che non ha tempo, un comportamento gruppale che Freud definirebbe “identificazione a massa” e Bion “un gruppo che funziona per assunti di base”.

Pinocchio è ormai nato e come ogni bambino è deluso dal sogno onnipotente. Il ritorno a casa dopo la fuga è desolante. Geppetto è in carcere, la casa è vuota e silenziosa, solo la voce del Grillo Parlante rimprovera Pinocchio, gli fa una predica severa, come severo è il Super-Io primitivo che risveglia la “scheggia assassina” (Manganelli); Pinocchio gli lancia il martello e lo uccide, ma sappiamo che il Grillo-Coscienza parlerà ancora; intanto il freddo e la fame sono una terribile punizione, nessuno lo soccorre, sfinito si addormenta, posando i piedi su un caldano pieno di braci accese e i piedi si bruciano. Affranto, con i piedi bruciati, lo ritrova Geppetto tornato dalla prigione. Lo rimbrotta un po’ ma poi lo nutre con la sua povera colazione, gli fa con perizia i piedi nuovi “come fossero modellati da un artista di genio”. Pinocchio conosce la frustrazione e la gratitudine, promette che andrà a scuola e ancor più grato sarà al padre che si vende la vecchia giubba per comprargli l’abecedario.

Inizia il conflitto fra il desiderio di diventare un bravo bambino, come il padre vorrebbe, e il piacere di far ciò che gli aggrada: conflitto tra narcisismo e rapporto d’oggetto. ll sogno del bravo ragazzo è grandioso, irreale: imparare un giorno a leggere, uno a scrivere, uno a far di conto e poi diventare ricco, un ricco da favola; comprerà a Geppetto una giubba nuova, d’oro e d’argento con i bottoni di diamanti. Da questo pensiero lo distoglie un suono di pifferi e di grancassa: proviene dal Gran Teatro dei Burattini. Preso dalla febbre della curiosità, vende l’abbecedario ed entra nel teatro, riconosciuto e festeggiato dai fratelli di legno. Sarà il suo slancio di amore fraterno verso Arlecchino che intenerirà il terribile Mangiafuoco, che gli dona 5 monete d’oro per il suo babbo. Pinocchio è nato deprivato, non ha conosciuto la prima infanzia “la mamma non l’ho mai avuta” dirà a Mangiafuoco.

Non ha fatto l’esperienza di un oggetto del bisogno che, tra luci e ombre pulsionali, si trasforma in oggetto d’amore. L’oggetto del suo desiderio è onnipotente e perennemente disponibile, un oggetto reale e narcisistico. Pinocchio è perennemente in conflitto tra l’adesione a quest’oggetto tutt’uno con se stesso, in relazione adesiva con un se stesso ideale, e la relazione consapevole con un oggetto buono che sa di impoverire e danneggiare pur  con disperati sensi di colpa, una colpa irreparabile, che solo il pensiero magico può affrontare.

Così Pinocchio cede alla magica promessa del Gatto e la Volpe che furbescamente gli dirà di aver visto il suo babbo “tremante di freddo sull’uscio di casa”. Pinocchio dichiara i suoi buoni propositi ma i due denigrano la scuola, fonte delle loro infermità.

Un Merlo Bianco, come già il Grillo Parlante, avverte Pinocchio ma il Gatto con un rapido scatto se lo mangia.

Pinocchio ha appreso un’altra difesa psichica: la proiezione. Non lui è l’assassino, come per il Grillo, ma il Gatto: lui si limita a criticare, con fare saccente, “tutti gli impiccioni che gli danno consigli come fossero tutti babbi”.

Per contro non si avvede dello sfruttamento dei falsi amici, neppure all’osteria dove i due banchettano a sue spese pur dicendosi inappetenti e malati di stomaco. Nel buio della notte e della ragione, parte Pinocchio per l’appuntamento con la losca coppia, è inseguito dagli assassini che vogliono derubarlo, scappa, corre a perdifiato, spera di trovare scampo bussando alla casina bianca; la pallida bambina dai capelli turchini che compare e scompare alla finestra dirà “è la casa dei morti, lei stessa è morta”. Gli assassini lo raggiungono e lo impiccano alla quercia grande, un grande albero di legno duro come l’albero da cui è nato. Così finisce la prima stesura della storia, storia pessimista ove la colpa persecutoria trionfa ineluttabile.

Abbiamo fin qui incontrato persone umane e animali, in realtà due specie di animali, gli uni chiaramente simbolici, il Grillo Parlante, il Merlo Bianco, rappresentanti della coscienza, sia in senso cognitivo che etico,  gli altri direi allegorici, biechi esseri spietati, egoisti avidi e crudeli come il Gatto e la Volpe.

Mangiafuoco, pur nell’aspetto di orco avido, ha sentimenti umani, si commuove al pensiero di Geppetto, povero padre sommerso dalle difficoltà della vita.Traspare un’appassionata critica dello sfruttamento da parte di chi più sa nei confronti di chi è sprovveduto di conoscenza, di chi non riconosce il diritto dell’altro. Pinocchio evoca la storia dei tanti ragazzi disadattati che hanno gravi difficoltà a seguire un percorso scolastico, a formulare un progetto di vita, a sentirsi parte della società, saccenti e ingenui, sfruttatori ignari di essere sfruttati. Nella loro storia, traumi affettivi precoci, traumi da carenze e in particolare da carenze di contenimento materno. Come Pinocchio sono posseduti da consce e inconsce fantasie onnipotenti, da insoddisfatto bisogno d’amore che danno origine a fantasie di morte, di cupio dissolvi, ove bruciano amore e odio e fantasie di trionfo oscuro, mortifero alimentato dal narcisismo. Nel mito, versione di Pausania, Narciso vede nello stagno l’immagine della gemella perduta e per raggiungerla, in un anelito fusionale, si lascia cadere e muore (la gemella adombra la figura materna). La Fata dai capelli turchini, creatura ambigua, compare nella scena dell’impiccagione come bambina foriera di morte, poi si dirà sorellina. Sembra avere in comune con Pinocchio una natura silvestre, le obbediscono gli uccelli e le creature del bosco e, come Pinocchio, non fa parte del normale consesso umano.

Nella cameretta con le pareti di madreperla, il burattino è accolto e curato: un atto d’amore dà inizio alla sua trasformazione umana e al proseguire della storia.

Liberato dal cappio dal potente becco dei picchi, è trasportato su una carrozzina color dell’aria, rivestita di piume di canarino, foderata di panna montata e crema di savoiardi, un meraviglioso nido: la seconda nascita! Un po’ sornione Pinocchio subisce, in una scena da commedia dell’arte, una visita di tre dottori: il Corvo, la Civetta e il Grillo Parlante; sproloquiano i primi, il Grillo resta silenzioso, la Fata chiede la sua opinione “quel burattino lì lo conosco da un pezzo, è un figliolo disobbediente che farà morire di crepa cuore il suo povero babbo”.

Pinocchio si nasconde sotto le lenzuola e singhiozza disperatamente. Si ammala, anche il corpo umanamente risponde con la febbre al dolore morale, al senso di colpa. Come un vero bambino rifiuta la medicina amara, ma alla vista dei conigli neri con la bara ha paura della morte e beve la medicina d’un fiato.La Fata gli promette una vera famiglia, riunita nella casina nel bosco: babbo Geppetto, la Fata come sorellina. Pinocchio ne è conquistato e vuole correre incontro al babbo per annunciargli la bella notizia. Entra nel bosco, corre come un capriolo, si rianima la natura silvestre o forse il magico sogno di natura silvestre, incontra il Gatto e la Volpe, ancora si lascia sedurre dalle promesse ingannevoli: seppellire le monete e farne crescere in breve un albero. L’esperienza passata non gli insegna nulla, con indifferenza attraversa, per giungere al Campo dei Miracoli, la città di Acchiappacitrulli, popolata da animali mal ridotti, poveri, vergognosi, dove poche carrozze passano con volpi e uccelli da rapina.

Pinocchio è totalmente dominato dal pensiero magico, ma la sua magia, a differenza della magia della Fata, è crudelmente fallimentare.

Quando si rende conto dell’inganno, corre al tribunale per chiedere giustizia, si guadagna quattro mesi di prigione. Verrà liberato per un editto del Re, un re da favola estraneo all’ambiente da novella rusticana. Un atto di clemenza: aprire le prigioni e lasciare liberi i malandrini. Neppure nelle favole si riparano le ingiustizie.

Libero, Pinocchio corre come un levriero verso la casa della fatina per ritrovarla e incontrare il babbo. Fa come al solito buoni propositi ma, per la prima volta, ricorda le esperienze e si rende conto che l’esperienza rende esperti gli adulti. Corre, corre, ma la strada gli è sbarrata da un grande serpente: ha gli occhi di fuoco, la coda appuntita che fumava come un camino. Con vocina gentile Pinocchio chiede “scusi signor Serpente, non si farebbe un pochino da parte per lasciarmi passare?” ma il Serpente sembra non sentire, neppure la spiegazione: la fretta di rivedere il babbo. Forse dorme, ma quando il burattino cerca di scavalcarlo si rizza come una molla. Fa un balzo indietro Pinocchio, così improvviso, che cade conficcando la testa nel fango, le gambe all’aria sgambettano e il Serpente ride, ride talmente che gli scoppia una vena e muore.

Che senso ha la comparsa di questo animale mitico? A differenza degli animali fin qui incontrati, non parla con Pinocchio, solo lo deride fino a morire. Sembra la volgarizzazione grottesca di una creatura onirica, evoca immagini fellliniane  di sogni adolescenziali.

Pinocchio riprende a correre verso la casina della Fata. La casina è scomparsa, al suo posto una lapide: “qui giace la bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio”.

Non è andato a scuola Pinocchio ma sa leggere i messaggi affettivi. Piange disperato, quando un provvido colombo, gli propone di portarlo in volo sulla riva del mare. Geppetto lo ha cercato invano per 4 mesi e ora sta costruendo una barchetta per cercarlo nei paesi lontani del nuovo mondo. La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava guardando il mare. “Che cosa è accaduto?” chiede Pinocchio a una vecchina. “E’ accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo aldilà del mare, e il mare oggi è molto cattivo, e la barchetta sta per andare sott’acqua”.

Appunta lo sguardo “Gli è il mi babbo! Gli è il mi babbo!”

Tutto a un tratto una terribile ondata e la barchetta sparisce. La gente mormorò una rapida preghiera e silenziosamente tornò alle proprie case, avvezza alle disgrazie e alla propria inermità. Con un grido Pinocchio si tuffa dall’alto di uno scoglio e nuota velocemente in uno strenuo tentativo di salvataggio. Nuotò tutta la notte: diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente con certi lampi che parevano di giorno. Sul far del giorno, un’onda lo scaraventa sul lido.

Pinocchio si comporta come Geppetto, entrambi uniti in uno stesso legame, entrambi lottano per salvare l’oggetto d’amore: un rapporto umano ben diverso dalle fantasie riparative grandiose. Il rapporto con la figura femminile resta ambiguo, la Fata appare come bambina morta, foriera di morte, sorellina materna e salvifica, fata onnipotente, muta accusatrice: bambina morta per essere stata abbandonata dal fratellino Pinocchio. Mutevoli parvenze, speculari degli stati d’animo e delle azioni di Pinocchio. Un legame primitivo che precede nel bambino l’integrazione dei tanti aspetti di una figura materna.P inocchio sulla rena dice, rivolgendosi a un gentile delfino “in questo posto è possibile mangiare senza essere mangiati?”: eco di fantasmi cannibalici che vanno trasformandosi in metafora. Il burattino si trasforma progressivamente in un essere umano che ha memoria delle esperienze e incomincia a integrarle in progetto.

Chiede del babbo “a quest’ora l’avrà inghiottito il terribile Pescecane che è venuto a spargere sterminio nelle nostre acque…più grosso di un casamento di 5 piani, ha una boccaccia così larga e profonda che ci passerebbe tutto il treno della strada ferrata con la macchina accesa”.

Dopo il Serpente compare un altro essere mitico, un Leviatano descritto in termini domestici, è chiamato Pescecane forse a evocarne la ferocia. Nella letteratura Giudaica apocrifa, l’antico mostro nella parte marina, rappresenta l’aspetto femminile del male.

Pinocchio impaurito fugge verso i Paesi delle Api Industriose. Umanizzarsi lo espone all’incontro coi fantasmi dell’inconscio. Si rifugia nell’atteggiamento denegante del burattino fannullone, rifiuta il lavoro in cambio di cibo, ma cederà alla fine quando una donna gli offre acqua dalla sua brocca e, in cambio dell’aiuto, gli darà non solo il pane che chiede ma anche un bel piatto di cavolfiore condito e un confetto.

La Fata ha assunto l’aspetto di una figura materna che nutre con un sano cibo campagnolo ma concede anche il confetto ammiccando al bambino riluttante a crescere. È così riluttante che nonostante sia ormai un bravo scolaro, cederà alle lusinghe del compagno Lucignolo e salirà con lui sul carro che lo trasporta al Paese dei Balocchi. Vero è che la società di cui vorrebbe far parte è ben diversa dall’aspetto idilliaco promesso dalla Fata: quando affamato ha chiesto pane ha ricevuto una catinella d’acqua in testa, è stato imbrogliato, derubato, e come conseguenza condannato, per aver portato soccorso a un compagno da altri ferito in una rissa tra ragazzi è arrestato dal carabiniere.

Tuttavia l’aspetto più spaventoso della pur desiderata trasformazione in essere umano, in ragazzino che cresce, proviene dai fantasmi dell’inconscio che, pure con mentite spoglie, rappresentano l’incontro tra  i sessi, l’interno del corpo materno e lo stesso desiderio di conoscerlo e abitarlo. La fusione con Madre Natura ne rappresenta l’idealizzata visione salvifica. L’incontro con Lucignolo, la seduttività ingannevole dell’Omino di Burro, la promessa di un tempo che non passa, di un’eterna età della gioia, è una fuga dal ciclo della nascita e della morte, della fatica, del lavoro, della responsabilità.

Ancora un crudele inganno: il Paese dei Balocchi nasconde il disegno perverso di trasformare le creature umane in animali da soma o creature da circo.

Lo spirito del Leviatano ha forse contagiato la società? Scrive Manganelli : “costui (l’Omino di Burro) per le notturne leggi del male, ha licenza di percorrere una strada infantile e rovinosa, anzi di esercitarvi un potere corruttore e di perverso educatore. Forse alle sue spalle sta un oscuro occhiuto committente”.

Cinque mesi di felice spensieratezza trascorre Pinocchio nel Paese dei Balocchi prima di trasformarsi in ciuchino, venduto al padrone di un circo  che lo presenta con un grottesco ma non casuale linguaggio maccheronico come “la stella della danza” evocativo dell’iniziale intento di Geppetto “farsi un  burattino che sappia ballare etc…”

E Pinocchio-ciuchino obbediente, balla e si esibisce ogni sera fino a che vede tra il pubblico la signora dai capelli turchini che porta al collo, appesa a una catena d’oro, il ritratto di Pinocchio. Lancia un grido, un drammatico raglio, sbaglia un salto e si azzoppa.

Inutile al circo e al lavoro, è venduto a un povero contadino che vuol fare della sua pelle un tamburo. “Gli lega un masso al collo e lo getta in mare”.

Ma la Fata non lo abbandona: manda miriadi di pesci a mangiare il rivestimento asinino fino a liberare il suo corpo di legno che il contadino sbigottito trova legato alla corda al posto del ciuchino.

Le spiegazioni di Pinocchio non placano la rabbia di sentirsi beffato, lo venderà come legna da catasta, per indennizzarsi e vendicarsi. Il legno da catasta evoca l’inizio della storia. Pinocchio è rinato e beffardo si tuffa in mare e fugge. Nuota allegramente quando su uno scoglio bianco appare una caprettina dal manto azzurro che gli fa segno di avvicinarsi, lo incalza. Emerso dalle onde il terribile pescecane lo insegue, la caprettina gli porge la zampetta ma “il mostro tirando il fiato si beve il povero burattino come avrebbe bevuto un uovo di gallina”.

La Fata non ha poteri magici sul pescecane è soltanto una mamma che cerca di salvare il bambino che sta per perdere, una mamma sola, priva dell’aiuto del padre. Inizia l’ultima parte della storia. Per trasformarsi da burattino di legno in essere umano deve fare l’esperienza fetale, toccare le calde umide pareti di uno sconosciuto corpo materno che lo contenga.

Nel ventre del mostro incontra un Tonno, contrappone alla sua filosofica rassegnazione (meglio morire in mare che in scatola) il desiderio di vivere; balugina lontano una piccola luce, per raggiungerla si muove tra pozze d’acqua grassa e scivolosa, scorge su una piccola tavola una candela infilata in una bottiglia di cristallo verde, al debole chiarore appare un vecchietto canuto e debole, è Geppetto, che questa volta non è in grado di aiutare il suo figliolo. Pinocchio non invoca la magia, scientificamente cerca, percorrendo a ritroso il cammino, la bocca dalla quale è entrato e, dopo un primo tentativo fallito, padre e figlio sgusciano nel mare aperto: un parto dove, come normalmente accade, il feto è attivo.

Forse una fantasia di nascita ove antiche inconsce tracce mnestiche inaugurano una pre rappresentazione del rapporto d’oggetto, la fioca luce della candela ha illuminato il bisogno di una figura paterna che separi dalla madre, che crei lo spazio geometrico della triangolazione e della posizione etica; fantasia evocativa di una preconcezione del padre in analogia alla Bioniana preconcezione del seno.

Il Leviatano che inghiotte Pinocchio, e ancor prima Geppetto, evoca l’aspetto persecutorio della madre fusionale e confusiva, onnipotente fantasma che contiene il padre. La preconcezione del padre, nella funzione separante, potrebbe essere d’appoggio alla preconcezione del seno, un’iscrizione inconscia che nel corso dello sviluppo conduce al riconoscimento dell’altro e alla terzietà. Pinocchio esce dal grande ventre, uno spazio circoscritto, e nuota nel mondo liquido e periglioso ma porta sulle spalle il padre. Anche Geppetto esce trasformato dal ventre del Pescecane. È divenuto un artigiano di straordinaria abilità. Crea artistiche cornici, oggetto non casuale: il burattino Pinocchio, nel divenire umano, accetta il limite, anch’esso una cornice. Il limite apre la strada alle trasformazioni: tra queste l’identificazione al padre che nell’adolescenza lascia il posto a identificazioni successive nel corso della vita.

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