EUGENIO SCALFARI, La sera andavamo in Via Veneto, Anno 1979, la storica intervista del fondatore di Repubblica a Fellini– REPUBBLICA.IT / ROBINSON – 14 DICEMBRE 2019 –pagg. 2-5

 

 

REPUBBLICA.IT / ROBINSON – 14 DICEMBRE 2019 –pagg. 2-5

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La sera andavamo in Via Veneto

Anno 1979, la storica intervista del fondatore di Repubblica a Fellini

 

Fellini ai tavolini del Caffè Doney di via Vittorio Veneto a Roma. Credit: Moroldo, Gianfranco/ www.alinari.it

 

 

 

di Eugenio Scalfari

 

Il Maestro è un po’ dimagrito, ma invecchiato non direi. Porta pantaloni in cotone e una maglietta azzurra a maniche corte. Capelli non ne ha più molti e sono fini e bianchi. La faccia abbronzata ricorda quei tratti da antico romano che si vedono incisi sulle medaglie: naso forte, fronte ampia, bocca ben disegnata. La voce è, come sempre, morbida e il tratto gentile; le inflessioni della parlata romagnola si mescolano ormai con alcuni accenti romaneschi e ne esce un miscuglio strano, assolutamente personale. L’insieme somiglia poco al Fellini che abbiamo conosciuto in tempi andati, quello un po’ capriccioso col cappelluccio nero piantato sulla nuca, diventato poi, col passare degli anni, il cappello floscio a tesa ampia reso celebre dal suo ” alter” Marcello Mastroianni in 8 ½ . Adesso ha l’aria più sicura, imperiosa.

Maestro, qual è tra i tuoi film quello che ti è piaciuto di più?

Riflette qualche secondo.

«Forse 8½ », dice, «o La dolce vita. Sì, questi due, ma lo dico sulla memoria. Non rivedo mai i miei film. Appena ho terminato il lavoro e partecipato, per cortesia verso i miei ospiti, a qualche visione privata, il film se ne va per la sua strada e io per la mia».

E non vi incontrate mai più?

«Mai più».

C’è una ragione?

Non risponde subito. Siamo nello studio numero 5 di Cinecittà, sul set, come si dice in gergo. Lo studio è stato trasformato in un vasto appartamento con un décor dannunzianeggiante, un Vittoriale da quattro soldi, porte e specchi nel salone, tende di tela bianca, grandi divani, e piccoli sgabelli, pianoforte a coda, nel “boudoir” tendaggi più pesanti, spade antiche alle pareti, “cineserie”, giade, paraventi, art déco, in un salottino “liberty” un’immensa torta nuziale di cartone con diecimila candeline.

Questa è la casa di Cazzone, uno dei personaggi principali del nuovo film che Fellini sta girando e che sarà terminato («Dio lo voglia», invoca il produttore Renzo Rossellini) a fine agosto. «E la torta sarà accesa», spiega Federico, «per festeggiar la scopata numero diecimila di Cazzone, asserragliato in quest’ultimo baluardo del maschilismo italiano».

Il Maestro gioca in difesa, la guardia è aperta ma vigilissima. Ha accettato di vedermi con grande cordialità, anzi con una punta di affetto, perché gli ricordo cose antiche, Longanesi, Pannunzio, Roberto Rossellini, Arrigo Benedetti. Via Veneto dei tempi del Caffè Rosati. Flaiano. Insomma la giovinezza. «E poi», mi dice, «siamo o non siamo due mostri sacri?», con l’aria vagamente complice di chi fa un po’ di ironia sulla propria immagine ma insieme se ne compiace.

Ma, dietro quest’aperta disponibilità c’è la resistenza, che ben gli conosco, a parlarmi del suo nuovo film prima che sia compiuto, a svelare il mistero. Perciò lo prendo alla larga gli do tutto lo spazio che vuole, cerco di coinvolgerlo in un discorso che abbia al centro i tempi che stiamo vivendo. In fondo è questo che interessa di capire; i tempi che stiamo vivendo come li vede Federico Fellini. Il tema di quest’ultimo film finirà per entrarvi da solo, spontaneamente, senza bisogno di forzare la vigile guardia del suo autore.

«Perché», domanda Federico, «ti interessa capire in che modo vedo io i tempi che stiamo vivendo? Bada che io non so parlare per concetti, ho sempre parlato attraverso le immagini. Quando mi si porta sui concetti dico delle banalità vergognose. Me ne accorgo sai? Me ne accorgo mentre le dico, ma mi vengono fuori così. I concetti non sono il mio forte», aggiunge abbassando la voce e quasi «parlando a se stesso», come suggerirebbe di fare a un suo attore nel recitare una battuta meditativa, «io sono solo un artigiano».

Gli rispondo che non ho nessuna intenzione di portarlo sul terreno delle idee generali, e per questo gli ho chiesto di venire qui al teatro numero 5, a vederlo lavorare in mezzo ai suoi operatori, ai suoi elettricisti, ai suoi attori e alle cianfrusaglie dell’appartamento di Cazzone.

«Ma perché proprio me?», insiste lui con sincera modestia. «Sei stanco di intervistare i ministri e i banchieri? Che ti posso dire io sui tempi in cui viviamo?».

Io credo che Fellini possa dirmi molto, molto più dei ministri e banchieri e capipopolo, per la buonissima ragione che l’arte è assai più vera della vita. «Non faccio film realisti», mi interrompe brusco, quasi temendo la mia ignoranza nelle cose di cinema. Ma io almeno questo lo so, e poi il realismo, il neorealismo, il film-verità, l’attore preso dalla strada, hanno concluso da tempo la loro stagione. In una realtà che ormai parla per simboli, per sigle, per «atti esemplari» non c’è più posto per il realismo: solo la ricostruzione fantastica, onirica, insomma solo l’intuizione artistica può fornire la chiave di lettura del profondo.

Rassicurato, almeno momentaneamente, sul fatto che io non insista per conoscere la trama del suo film, il Maestro mi sistema dietro alla macchina da presa, l’assistente batte le mani e urla «silenzio, ai vostri posti, cominciamo», la segretaria di edizione si precipita ad annotare quanto sta per accadere, le comparse si agitano, costumiste, parrucchiere, truccatrici saltellano dall’uno all’altro per gli ultimi tocchi di pettine e piumino. Gli elettricisti accendono le luci.

La scena è una festa da ballo nel salone degli specchi. Ma Cazzone, il padron di casa (che è l’attore Ettore Manni), in questo spezzone che Federico sta girando non c’è e neppure c’è il protagonista principale, il Professore di mitologia greca, che è Marcello Mastroianni.

Il salone è pieno di gente e di «bellezze muliebri» tipicamente felliniane: donne vistose, grandi mammelle abbandonate o seni sodi e orgogliosamente erti verso l’alto, sederi robusti, bocche carnose, dipintissime, occhi viziosi. Ma non manca la negra splendida ed efebica con una ciocca grigio-bianca al centro d’una capigliatura d’ebano raccolta sulla nuca, né la bionda «narcisa» — con spalle nude fino al fondo della vita, un vestito di velluto violetto che la contiene come una guaina abbassata per metà e un profilo che ricorda la Madonna di Filippino Lippi. Ora il Maestro deve «impaginare» il salone da ballo, cioè formare le coppie, disporle a una a una sul terreno, insegnare a ciascuna i movimenti che dovrà fare. E quando questo lavoro di paziente e lunga composizione sarà finito, provare e girare.

Le comparse sono ammucchiate in fondo al salone, le donne in lungo, gli uomini in varie fogge, molti in smoking, uno in dinner-jacket con medaglie sul petto, è un generale e Federico pretenderà poi che balli con la sua dama con un passo un po’ «militaresco». Per formare le coppie, passa in rassegna la sua gente come un compratore guarderebbe nel mucchio d’una qualunque mercanzia; soppesa, sceglie. «Generale, tu qua con la signora in nero, ecco, dovete girare quando attacca la musica, signora lei deve tenere il gomito appoggiato sulla spalla del generale, ma no stravaccata perdinci, ho detto appoggiata, da gran signora, e tu generale ricorda che sei seduttore, la guardi mentre ballate, la implori un po’, le fai delle proposte, capito? Laura vieni qui, più vicino alla macchina, ecco con Pancione (che è un signore tutto vestito di lino bianco con un ventre enorme), vi muovete appena, annoiati, e tu Barba con lei vi dovete spallare, quando uno dondola a destra l’altra dondola a sinistra, non come il pendolo di un orologio, ma sapete ballare o no?…».

La scena è composta, il salone è impaginato, le coppie in pista sono una ventina, le altre bellezze stanno accoccolate sui divani o attorno al pianoforte. «Immobili, capito? Scegliete un punto di riferimento qualsiasi con gli occhi, e poi guardate quel punto e non muovetevi più.

Dev’esser chiaro», conclude rivolto a tutti, «che voi siete ospiti nella casa di Cazzone e perciò non siete personaggi moderni, ma personaggi del mondo di Cazzone.

Siete vestiti da sera, e chi si veste da sera oggi? State in una casa di questo genere, il padrone è uno che pensa solo a scopare, gli piacciono le donne come voi, e c’è pure un generale qua in mezzo! Insomma, roba anacronistica.

È chiaro? Ciascuno adesso faccia i suoi movimenti come ho detto. Niente iniziative personali, prego».

La lezione è conclusa tutti aspettano l’ordine di cominciare. Al piano il maestro Bacalov, che ha sostituito Nino Rota morto di recente, attacca Abat jour.

«Hai visto, don Eugenio? Eri mai stato sul set?».

Federico è un po’ sudato. Un’ora e mezzo di lavoro e questa ripresa è durata sì e no un minuto, forse meno.

Ma il cinema è così. Mi spiega: «Il protagonista del film è un professore, che è perso dietro ai suoi sogni mitologici.

Le donne per lui sono importantissime, ma le vede come archetipi: Giunone, Venere, Minerva, Diana, le dee della sua mitologia. Il Professore vive una sua “alterità” e il suo “alter” è Cazzone. Cazzone è un vecchio maschio che scopa e non pensa ad altro. Insomma Jekyll e Hyde, hai capito?

 

Tutto sarebbe chiaro se la realtà, cioè le donne, fossero così ben definite come le immagina il Professore e come le possiede Cazzone. Invece le cose stanno in un altro modo. Il Professore incontra nella vita molte donne, e si rende conto che i ruoli archetipi non corrispondono più alla realtà. Non esiste una donna-Giunone, una donna-Venere, una donna-Diana. Per un momento egli pensa che la donna contenga ed esprima contemporaneamente tutti gli archetipi, ma poi capirà che neppure questo è vero. E sai perché? Ma adesso ti sto dicendo troppo. E poi sai, non è detto che il film sarà proprio così, ancora non sono sicuro… Che cosa vuoi sapere?».

Non preoccuparti Federico, non voglio saper nulla di tutto questo. Voglio sapere perché tu non rivedi mai più i tuoi film dopo che hai finito di montarli.

Adesso siamo a tavola, un piccolo pied-à-terre sopra lo studio numero 5. Verdura, formaggi, bresaola, una bottiglia di Gavi.

«I momenti più esaltanti per me», dice il Maestro, «sono quando si monta il set e quando, girata l’ultima scena, si smantella. Gli operai che tirano giù le tende, portano via gli scenari, via i riflettori, via i soppalchi, via le macchine.

Tutto il mondo fantastico che abbiamo creato insieme e che abbiamo fatto vivere per settimane e mesi viene distrutto, il cartone e le luci artificiali spariscono.

Quest’operazione distruttiva mi dà una gioia indicibile, e me la vedo tutta fino all’ultimo. Mi sembra in un certo senso di rinascere come individuo, come Federico Fellini, con questo naso, questa bocca, questa pelle».

E quando si monta il set?

«All’opposto, ma è la stessa cosa, invece di distruggere si crea una cosa nuova, nel ventre della quale io so che scomparirò per tutto il tempo del lavoro. Il set è il luogo che nasce dal nulla, lo posso plasmare a mio piacimento, modificare, animare. In quel luogo far muovere i personaggi, i miei personaggi, dirò a ognuno di loro che cosa debbono pensare, dire, fare…».

Attendo, Federico, manca poco che tu dica «Alzati e cammina»…

«Ebbene, amico mio, che cosa c’è di più esaltante? Creare e distruggere, avere nelle mani questa possibilità. Il prezzo c’è: quando cominci a creare e per tutto il tempo che dura l’operazione, tu sei completamente annullato come individuo, non esisti più all’infuori del lavoro che stai facendo. Io vengo preso da attacchi d’insonnia indomabili, non sono in grado di pensare ad altro che non sia il mio film e i miei personaggi. E quando tutto è concluso, resto vuoto».

Prima hai detto che ti senti rinascere.

«Si, come individuo, ma vuoto come artista. Per me che l’ho fatto, il film è vivo fino a quando ci sto dentro, dentro a quel ventre di balena. Ma quando ho girato l’ultima scena, quando ho distrutto il set, la mia comunicazione è finita. Rimane un prodotto, ma quello appartiene al produttore e alla platea degli spettatori. Per me sarebbe come vedere una creatura morta».

Hai paura della morte?

«Sì, ho paura della morte».

Sei affezionato agli oggetti, ai luoghi, te ne distacchi con sofferenza?

«Al contrario, me ne distacco con completa indifferenza».

È strano, chi ha paura della morte di solito cerca di difendersi attraverso la ripetitività dei gesti, dei luoghi, degli oggetti. Tu no?

«Io no, e sai perché? Io mi difendo attraverso la ripetitività delle memorie. Ho uno zoccolo di memorie addirittura ossessivo; mi seguono da per tutto, in ogni momento, stanno nel mio cervello, davanti ai miei occhi, entrano nei miei film. Perciò m’importa poco di conservare oggetti e luoghi e persone; il mio modo di difendermi contro la morte è la memoria. Una continua “recherche”…».

E l’onnipotenza.

Mi guarda diffidente. «Che vuoi dire?».

Dico l’onnipotenza. Quella tua descrizione del sentimento che provi quando monti il set e quando lo distruggi, la tua repulsione a rivedere il tuo film dopo che si è distaccato da te, che altro sarebbe se non un tentativo di superare il limite, di vivere e annullarsi nel momento creativo? Non m’hai detto che ti piace “8½” più di tutti gli altri?

«Sì l’ho detto».

Ebbene, perché?

«Credo perché è un film dentro il film, è il racconto di come si fa un film».

Il creatore che si vede mentre sta creando, che altro vuoi di più? Si capisce che ti piace, è un gioco di specchi. Sei un gran civettone Federico e hai uno spiccato complesso d’onnipotenza.

«Ci vediamo stasera?», mi dice. «Abbiamo ancora molte cose da raccontarci». Sembra un po’ sgomento d’essere stato in qualche modo scoperto, ma anche lusingato, come se tra noi si fosse creata adesso una solidarietà diversa, una comunicazione più intima.

La sera dello stesso giorno, a cena in una quieta trattoria romana.

C’è un po’ di imbarazzo iniziale, la tensione di qualche ora prima è caduta. Fa caldo, i camerieri ci chiedono “la comanda”. Lui mi fa domande sul mio lavoro, vuol sapere come si fa un giornale. Glielo spiego, più o meno.

«Somiglia al mio lavoro», commenta. «Forse è anche più difficile».

No, Federico, sai benissimo che non è più difficile ed è assai meno esaltante. Noi non creiamo nulla.

«Però», ribatte, «voi siete un documento di storia, noi niente, bava di lumaca. E poi, tu vedi il tuo prodotto subito, per me ci vogliono mesi. Direttore — mormora — che cos’è un direttore? È uno come me?».

Direi proprio di sì. Del resto, nessuno deve saperlo meglio di chi ha fatto “Prova d’orchestra”. Come t’è venuto in mente quel film?

Adesso si riaccende e gli occhi tornano a illuminarsi. «Sai, era un soggetto al quale pensavo da tanti anni. Avevo una montagna di appunti perché mi aveva sempre stupito assistere a una prova d’orchestra. Ne ho viste tante, quasi sempre connesse al mio lavoro. È incredibile, sembra un miracolo ogni volta. Gli orchestrali arrivano distratti, ognuno pensa ai casi suoi, della musica non gli importa niente, o almeno così sembra. Uno starnutisce, due litigano tra loro, un altro si gratta il collo. Tirano fuori gli strumenti chiacchierando, sbuffando. Poi all’improvviso, arriva il momento magico. Quando lui entra, sale sul podio, alza la bacchetta. Tutti gli occhi lo fissano, silenzio assoluto, trattengono quasi il fiato aspettando l’attacco.

Lui alza le braccia e… via, la musica sgorga fusa insieme, piena, armoniosa. Insomma un miracolo. Che s’interrompe appena la prova è finita e tutto ritorna come prima. Il momento magico è passato».

Il direttore crea, senza di lui e prima di lui non c’è niente, è questo che vuoi dire?

«Sì, credo che sia così. Ma te ne accorgi solo quando lui scende dal podio e quell’ordine, quell’entusiasmo, quella fusione che lui aveva realizzato, si rompono».

Federico, hai detto «quell’ordine»?

«Volevo dire quell’armonia».

Dunque era un soggetto cui pensavi da tempo. Ma non lo realizzavi. Perché?

«Ma, non so. Avevo altri progetti. Non era urgente, ecco.

Non sentivo l’urgenza. Non corrispondeva a un bisogno».

Poi, a un certo punto, il bisogno l’hai sentito. Quando è successo?

«Quando hanno ammazzato Moro».

Adesso mi fissa come se si fosse confessato fino in fondo e m’avesse introdotto nella più riposta zona della sua creatività. Ripete: «Sì, quando ho saputo che avevano ammazzato Moro. Mi fece un’impressione enorme. Ma non il fatto in sé, io me l’aspettavo. Ma il rifletterci su, per capire il senso profondo di quello che era accaduto e del perché era accaduto. Che cosa avevano voluto fare quelli che l’avevano ammazzato? Che ci era successo a tutti noi che viviamo in questo paese? Perché eravamo ridotti a questo punto?».

E hai deciso di girare “Prova d’orchestra”.

«Non è stato così meccanico. Anzi, tra le due cose non c’è stata nessuna connessione diretta, o almeno io non me ne sono reso conto. Il nesso l’ho percepito molto tempo dopo, quando il film era finito, anzi quando già era in programmazione. Non è che fin dall’inizio io non annettessi al film i significati che ha, ma non avevo coscienza del perché a un certo punto mi fosse diventato urgente farlo. Ebbene, poi l’ho saputo: è stato l’assassinio di Moro».

Federico, tu credi nei ruoli delle persone?

«Moltissimo».

Che cos’è un regista, un regista come te?

«Tutto e niente. Ma ti voglio dire una cosa: la fatica più grossa per me non è quella di pensare un soggetto, trovare un finanziatore, scegliere gli attori, girare scena per scena, montare. No. La fatica più grossa è trattenere l’attenzione di tutta la mia gente su di me, i loro occhi, i loro pensieri, i loro gesti, l’intonazione della voce, tutto concentrato su di me. Se quando giriamo una scena non sono io il centro della loro vita, il film non viene fuori. Ci dev’essere un transfert continuo verso di me. Ma io lo devo conquistare minuto per minuto. Se allento la presa, se la tensione diminuisce, me ne accorgo subito. Bada: è come fare il domatore in una gabbia di leoni: se non li guardi fisso negli occhi ti possono divorare».

Tu fai questo mestiere da tanti anni. Adesso è come prima o qualche cosa è cambiata?

«Faccio molta fatica adesso».

Eppure sei diventato molto più autorevole col passare del tempo. Dovrebbe essere più facile per te incantarli…

«Ah, caro mio, il transfert funziona assai meno di prima perché loro non proiettano più su di me e non ricevono più le mie proiezioni su di loro. È tutto cambiato. Sai, un tempo, quando dovevo insegnare a un attore a piangere, a baciar la mano, mimavo quelle situazioni con naturalezza. Mi buttavo per terra, piangevo, e loro lì, a guardarmi, non perdevano un movimento, una battuta.

Adesso, quando devo mimare, mi vergogno un po’. Sento uno sguardo critico su di me, lo sguardo della comparsa, del macchinista. Loro pensano: ma guarda questo, che si mette a fare…».

Come fai a saperlo?

«Lo sento. Sono distratti. Guardano l’orologio per vedere se l’orario sindacale è scaduto, ogni tanto lanciano occhiate verso la porta d’uscita del teatro».

Ma è normale, Federico.

«No che non è normale. Quando si recita, si vive, si vive con passione, ci si innamora, si soffre, si tradisce, si uccide, ci si uccide. Figurati se uno ha il tempo per controllare l’orario sindacale. E invece lo fanno».

Ma tu riesci ancora a domarli.

«Ci riesco, sì, ma è una fatica mortale».

Perché è così diverso da prima?

«Perché non ci sono più i ruoli. La stessa cosa che accade nel film sulle donne che sto girando adesso. Il Professore di mitologia — te n’ho già parlato mi pare — vede le donne attraverso gli archetipi delle dee dell’Olimpo, ma nella realtà non c’è più niente di simile».

Federico, ma nella realtà non c’è mai stato niente di simile!

«Ti sbagli. La donna è stata per secoli quello che noi uomini volevamo che fosse. Ce la inventavamo noi. Pensa alle poesie che sono state scritte, ai vagheggiamenti, alle lettere, ai deliri…».

Ma anche le donne ci vagheggiavano, anche le donne scrivevano poesie, lettere, diari. Pensa ai diari delle ragazze e mettili uno sull’altro; dove si arriverebbe?

Altro che alla Luna, molto più in là.

«Ma è completamente diverso. E questo è il nocciolo del problema. Noi facevamo le nostre proiezioni sulla donna, gli davamo un ruolo, gli assegnavamo una parte. Un angelo del focolare, oppure bella e perversa, oppure casta sorella, oppure amazzone volitiva, oppure puttana. Noi, sempre noi, solo noi. E lei ci stava. Era contenta di quelle nostre proiezioni, le accettava. Naturalmente molto spesso la parte che le avevamo assegnato non le andava affatto su misura, ma il rimedio c’era: trovava un altro uomo che la vedeva in un modo differente e ne faceva un personaggio talvolta antitetico al precedente. Pensa a Bovary. Spesso lei recitava con uomini diversi contemporaneamente due parti o tre o cinque, non importa quante. Mi segui?».

Ormai il maestro è partito e non sarò certo io a fermarlo.

Avanzo un’obiezione: gli dico che la stessa analisi si può fare anche per l’uomo, non solo per la donna.

Ma il Maestro ribatte: «Certo, ma che vuol dire? C’è un intreccio di proiezioni, ecco tutto. Non ho mica sostenuto che la donna sia soltanto una cera molle da stampare.

Dico solo che normalmente la proiezione iniziale, quella sulla quale nasce il rapporto, è sempre stato l’uomo a lanciarla. La famosa iniziativa maschile, sfrondata dal gallismo volgare, è questa. L’iniziativa dell’assegnare la parte alla donna. Dopo, le proiezioni rimbalzano e s’intrecciano l’una sull’altra e anche l’uomo ne risulta segnato».

Va bene, ma è una storia vecchia quella che mi stai raccontando. Le femministe si sgolano da dieci anni su tutti i cantoni per farcela capire. È questo il tuo film?

Mi guarda come se fossimo arrivati finalmente, dopo un

lungo andare e venire, al punto essenziale del discorso.

«Ti ricordi La strada? Ti ricordi Giulietta degli spiriti? ».

Sì, me li ricordo.

«Ebbene, nella Strada la protagonista era una donna-pupazzo, trattata dall’uomo come un pupazzo, un oggetto, un animale; ma quando lei muore, lui impazzisce. In Giulietta accade più o meno il contrario, ma il senso è il medesimo. Stai a sentire: quei due film furono girati più di vent’anni fa, ma erano due film femministi. Se ne sono accorti in pochi, ma ti garantisco che è così. Ora, che cosa avviene nel mio film di adesso?

Che il Professore a un certo punto si accorge che le donne rifiutano le sue proiezioni, non sanno che farsene, gliele rilanciano indietro».

Insomma, non accettano la parte. Nessuna parte?

«Nessuna delle parti che il Professore vorrebbe assegnare. E la stessa cosa capita a Cazzone, l’altro protagonista del film. Lui alle donne assegnava sempre la stessa parte e loro ora la rifiutano. E questi due uomini, una volta che non riescono a proiettare più nulla sulla donna… Insomma, è come se le due metà della mela si allontanassero l’una dall’altra senza più attrarsi, è la fine della gravità. Insomma è la fine del mondo. Te l’immagini un mondo in cui uomo e donna non hanno più niente da proiettarsi l’un l’altro?».

Somiglia a “Prova d’orchestra”.

«In un certo senso sì. È lo stesso problema».

E come finisce?

«Ah, questo non te lo dico. Volevi sapere come la pensavo sui tempi che stiamo vivendo? Adesso andiamo a dormire».

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