ANTONIO GNOLI INTERVISTA A GIANFRANCO TURCHETTI, MEDICO DI FEDERICO FELLINI :: ” Era malato di fantasia “. — REPUBBLICA.IT / ROBINSON — 14 DICEMBRE 2019 –pag. 43

 

REPUBBLICA.IT / ROBINSON — 14 DICEMBRE 2019 –pag. 43

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Gianfranco Turchetti

Era malato di fantasia

 

La pressione alta, la depressione l’ictus finale.

Ma anche le bugie

Parla il medico del Maestro

 

di Antonio Gnoli

 

Federico Fellini non fu un malato immaginario. Ma fantasioso sì. Capace di passare con disinvoltura dalla medicina ufficiale a quella alternativa.
Incontro Gianfranco Turchetti, l’uomo che negli ultimi 15 anni della sua vita ha seguito Fellini come medico, volendogli bene e guadagnandosi il ruolo di amico.
Turchetti — specialista in malattie renali e ipertensione arteriosa — è nato a Roma, compirà 80 anni il prossimo anno. Ne ha esattamente 20 meno di Fellini. «All’inizio trovavo buffo il divario di età, più che un medico mi sembrava di essere il fratello giovane. Ci conoscemmo attraverso una mia paziente, una donna piuttosto bella che, seppi in seguito, era stata una delle sue numerose amanti. Ebbe da lei il mio numero di telefono. Mi chiamò per un consulto. Dicendomi che in quel momento soffriva di sbalzi di pressione.
Era il 1979. Fu così che prese l’abitudine di venire nel mio studio, soprattutto la sera. A poco a poco diventammo amici. Si sedeva, telefonava oppure guardandomi con curiosità mi diceva: “Gianfranchino cosa hai sognato stanotte?”. Sembrava una gag.
E io, che non ricordo mai quello che ho sognato la notte prima, inventavo le cose più stravaganti. A un certo punto ebbi la sensazione di essere più bugiardo di lui.
Ma quelle di Federico più che bugie erano invenzioni. Non ho mai conosciuto nessuno con la sua fantasia. E la cosa straordinaria era la disinvoltura con cui sapeva raccontarsi. A volte mi parlava dei suoi incontri con Ernst Bernhard, lo psicoanalista che lo aveva avuto in cura».
Le raccontava i suoi sogni?
«Mi disse che teneva una specie di diario su tutto quello che aveva sognato. Credo che fosse stato lo stesso Bernhard a suggerirgli di trascriverli e di illustrarli.
Una volta mi raccontò che, da giovane, aveva sognato il giorno della sua morte. Sapeva esattamente l’ora, il giorno e l’anno in cui sarebbe giunta: 4 novembre 1961. Fu deluso dal fatto che il sogno non si fosse avverato, ma anche sollevato».
Gli era utile l’analisi?
«Per uno dall’immaginazione così debordante penso di sì».
Cosa intende dire?
«Bernhard era uno psicoanalista con qualche stranezza.
Praticava l’astrologia e la lettura della mano. E ho l’impressione che Federico ne fosse attratto. Lui stesso frequentava maghi, chiromanti, esperti di discipline orientali. Si serviva della medicina alternativa così come di quella ufficiale».
Come giudica questo paradosso?
«Era la sua natura duplice che l’analisi doveva affrontare. Un’arma a doppio taglio».
Nel senso?
«Lo esponeva, da un lato, alle malinconie; ma dall’altro gli permetteva di entrare immediatamente in sintonia con la gente. Aveva il dono dell’intesa immediata e avvolgeva l’amicizia con il profumo stordente delle parole».
Le parlava mai dei suoi malesseri?
«Viveva il dramma della caduta dei capelli e lo tormentava l’insonnia:
“Gianfranchino mi sono svegliato in piena notte con la lingua attaccata al palato. Sembrava un pipistrello appeso al soffitto”.
Era una delle tante descrizioni fantastiche che mi faceva. Poi, cambiando registro, diceva: si è fatto tardi, andiamo a mangiare».
Dove andavate?
«Per la carne, a Roma, in via Germanico, oppure alla Passeggiata di Ripetta o al Moccoletto. Certe volte andavamo a Grottaferrata oppure a Ostia antica per il pesce. Proprio accanto al ristorante c’era un monumento con un’iscrizione di Andrea Costa, il socialista che aveva bonificato la zona di Ostia. E quella scritta era una specie di epopea sui migranti romagnoli, perché furono loro a costruire Ostia. Ogni volta Federico si fermava davanti al “mammozzone” e con la sua vocetta declamava la scritta.
Era un modo per ribadire le sue radici romagnole. Non è un caso che quando girò I vitelloni scelse Ostia come ambientazione. La più simile alla sua Rimini».
Immagino che un altro argomento prediletto fossero le donne.
«Era il suo mondo onirico e reale. Considerava gli uomini inferiori alle donne. Mi diceva: “Ci hanno partorito e messo il borotalco sul pisellino e sul culetto. Conoscono i nostri desideri e le nostre paure. Come possiamo sentirci superiori se ne dipendiamo fin dal principio?”. Le adorava tutte».
Il suo modello era Anita Ekberg.
«Tutte in qualche modo discendevano da quell’ideale femminile. Una volta, un macchinista gli disse: a dottò ma ha visto che piedi lunghi c’ha la Ekberg ? Ma che sei andato a vedè, gli rispose, io non le ho mai guardato i piedi. Erano altri i dettagli che lo attiravano».
Però la donna della sua vita fu Giulietta.
Completamente diversa dalle altre figure femminili.
«Fu un rapporto che superò difficoltà e incomprensioni. Si erano conosciuti durante la guerra e sposati prestissimo.
Poi ci fu il dramma della morte di Federichino, il maschietto che avevano avuto e non sopravvisse neppure un mese. Quel lutto rinsaldò il loro rapporto. E poi grande merito di Giulietta fu considerarlo un uomo che insieme a qualche debolezza vantava anche molti meriti».
Si è detto che anche lei avesse avuto delle storie sentimentali.
«Le cronache le hanno attribuito diverse relazioni, tra cui una con un attore americano e perfino con Leopoldo Trieste, ma non ci credo».
Che ci sarebbe di strano?
«Non sono stato medico di Giulietta ma l’ho conosciuta abbastanza bene per poter dire che non c’era niente in lei della donna frustrata e insoddisfatta. Sapeva che qualunque cosa Federico potesse combinare il loro rapporto avrebbe resistito».
Vuole dire che Fellini dipendeva dalla Masina?
«Per una natura volatile come la sua, Giulietta fu il saldo
ancoraggio, sia quando stava bene che quando si ammalava».
Aveva anche sofferto di depressione.
«Ne fu soggetto, soprattutto in passato».
È vero che per combatterla assunse l’Lsd?
«Non me lo ha mai detto, ma ricordo che scrisse un articolo su questa sua esperienza personale. Influenzata o indirizzata da un personaggio singolare: lo psicologo Luigi De Marchi, reichiano, libertario col quale Federico ha avuto dei contatti.
In ogni caso nelle fasi di depressione consultava i Ching e, mi disse una volta e non so se scherzasse, leggeva perfino i fondi del caffè. Questa parte refrattaria alla pura razionalità Federico seppe gestirla creativamente col suo lavoro di regista».
Negli ultimi anni le offerte dei produttori scarseggiarono. Come visse questa situazione?
«Ne soffrì. Arrivò a dire che il cinema, in un certo senso, era morto. Vedeva l’inesorabile decadere della sala cinematografica. Diceva: è come se si costruiscano gli aerei e contemporaneamente si distruggano gli aeroporti».
Le ha mai parlato dei suoi registi preferiti?
«Per lui il numero uno era Roberto Rossellini. Lo considerava un mostro di bravura.
Poi, sicuramente, Chaplin, Welles, Kurosawa. Stimava Bergman ma non lo considerava un grandissimo. E per Visconti non aveva una grande considerazione.
Gli piaceva De Sica. Amava John Ford e Alfred Hitchcock. Mi diceva:
“Sai la sinistra in Italia pensa che il capolavoro dei capolavori sia La corazzata Potemkin. Io invece credo che senza Via col vento la storia del cinema avrebbe preso tutt’altra direzione”.
Poi, è vero, il film ideale per lui era in bianco e nero, muto con la colonna sonora».
E gli attori?
«Il più grande per lui è stato Vittorio Gassman, anche se non ci ha mai lavorato. Di Alberto Sordi amava il volto plebeo, gaglioffo ma grandissimo. Ma quello che più gli corrispondeva era Marcello Mastroianni. Non c’è alcun dubbio».
Gli ultimi due anni di vita di Fellini furono funestati dalla malattia. Lei che è stato il suo medico che cosa ricorda?
«Dapprima gli fu riscontrato un aneurisma, ossia una dilatazione dell’aorta addominale. Andava operata o tenuta sotto controllo? In quel periodo ritirò l’Oscar alla carriera e approfittò per farsi visitare dai medici americani: “Mi hanno detto”, riferì al suo ritorno, “che ho una bomba a orologeria nella pancia. Basta un niente perché esploda”. Alla fine decise di farsi operare. Gli sconsigliarono Roma perciò decise di fare l’intervento a Zurigo».
Come andò?
«L’operazione riuscì perfettamente, solo che cominciò ad avere problemi di coagulazione del sangue. Su suo desiderio lo trasferimmo al Grand Hotel di Rimini dove voleva trascorrere la degenza. Passò una settimana. Nel pomeriggio del 3 agosto mi telefonò Giulietta: Federico ha avuto un ictus».
Con quali conseguenze?
«Emiparesi della parte sinistra. Ma era lucido, parlava e poteva usare la mano destra.
Quando lo vidi non mi parve affranto. Fu trasportato al Sant’Anna di Ferrara, uno dei migliori centri di riabilitazione. Dove, tra l’altro, era stato trattato benissimo Antonioni.
Federico migliorò ma a un certo punto cominciò ad annoiarsi del Sant’Anna e volle tornare a Roma. Grazie anche all’interessamento del rettore dell’università, Giorgio Tecce, gli fu allestita una stanza al Policlinico Umberto I. Federico poteva fare tutto, perfino uscire. Andava in libreria. Faceva acquisti. Una domenica portò Giulietta a mangiare al Coriolano».
Dopo quel pranzo che accadde?
«L’accompagnò a casa e poi si fece portare in ospedale.
Durante la cena ebbe un malore. In realtà fu un secondo ictus, molto grave. Qualcuno scrisse che la causa fosse un frammento di mozzarella che gli ostruì l’esofago. Era un’ipotesi inconsistente. Ma sufficiente per montare un polverone attorno al regista. Si insinuò che Fellini era stato abbandonato a se stesso. Quando in realtà l’assistenza attorno a lui fu totale».
Comunque non si riprese più.
«Smise di parlare e sopravvisse ancora per due settimane. Fu un’agonia senza accanimento terapeutico. Giulietta stava già molto male, le avevano diagnosticato un cancro incurabile. Ma fu una donna forte, incredibilmente forte.
Resse, come poté, all’urto mediatico. Impedì che in ospedale entrasse chiunque per il solo fatto che aveva conosciuto Fellini.
A me disse con le lacrime agli occhi: è stato un birbante ma ci siamo voluti bene.
Il giorno prima della morte, il 30 ottobre 1993, avrebbero festeggiato i cinquant’anni di matrimonio».

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