Ödön von Horváth, nato Edmund Josef (Fiume, 9 dicembre 1901 – Parigi, 1º giugno 1938), è stato un drammaturgo e scrittore austriaco.
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L’AUTORE: UN’INTERVISTA AD UN REGISTA DI TEATRO
http://www.teatrodue.org/chiaroveggente-e-lucido-odon-von-horvath-secondo-walter-le-moli/
Walter Le Moli (Palmi, 1947) è un regista teatrale italiano.
È stato uno dei fondatori, nel 1970, della Compagnia del Collettivo di Parma, e nel 1980 della Fondazione Teatro Due di Parma. Fra il 1997/98 è stato consigliere della Biennale di Venezia. Dal 1998 al 2002 ha guidato l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa. Dal 2002 al 2007 è stato direttore artistico del Teatro Stabile di Torino.
” Fiabe del bosco Viennese, Gioventù senza Dio e Fede, speranza, carità sono i titoli che compongono il progetto Gioventù senza Dio, trittico di spettacoli che Fondazione Teatro Due dedica a Ödön von Horváth, uno dei più grandi autori del teatro di lingua tedesca del ‘900.”
Ne parliamo con Walter Le Moli, ideatore e curatore del progetto.
Intervista a cura di Michela Astri
Perché rappresentare Horváth oggi?
Ödön von Horváth in Italia è poco conosciuto e frequentato ma in area tedesca e francese è davvero un autore classico. Vicino a Brecht nelle intenzioni e nelle premesse ma da lui molto distante nello stile, Horváth ha segnato il teatro del ‘900 con la sua critica sociale non meno corrosiva; l’egemonia culturale tedesca però ha messo in ombra la sfera che potremmo chiamare, semplificando, viennese. Nato a Fiume, cresciuto a Belgrado, Budapest, Bratislava, Vienna e Monaco e con passaporto ungherese, Horváth è il rappresentate di una moderna cultura cosmopolita, un autore che, a differenza di Brecht, non ha portato avanti alcuna tesi, ma ha osservato con affetto e distacco la società in cui viveva, prevedendo con lucidità la nascita delle condizioni ideali per lo sviluppo di una dittatura.
Quali sono i punti di congiunzione fra il mondo descritto da Horváth e il nostro?
L’epoca in cui opera il nostro autore è quella in cui il nazismo sta prendendo piede, ma non bisogna dimenticare che Horváth appartiene a un’area di cultura estremamente raffinata, la stessa di Musil, Mahler, Freud, Hofmannsthal e Strauss; un mondo che, con la caduta nel 1918 dell’Impero Asburgico aveva già subito un grande trauma. Horváth è straordinario nel cogliere lo slittamento sottile ma fondamentale nel linguaggio della sua epoca, in cui si usavano ancora concetti e termini che sintetizzavano idee forti, grandi e importanti, ma che col venire meno dell’Impero erano divenuti involucri vuoti, privi di significato. Questo a mio avviso è il tratto che più ci avvicina a lui: non tanto che si stia vivendo in un’epoca pre-dittatoriale, quanto piuttosto che il nostro tempo, come il suo, faccia uso di termini ormai vuoti e galleggianti sul nulla, come fossero cime di iceberg.
I testi di Horváth, divertentissimi e pieni d’ironia, portano in seno questa perdita di centro, questo spaesamento, radiografando una società senza più ossa; lo spettatore di oggi conosce bene questo sentimento che fa sorridere e contemporaneamente allarma: è esattamente il concetto di Unheimliche espresso da Freud ( tradotto in genere come ” Il perturbante ” ), la paura e la confusione che ci pervadono quando una situazione ci è contemporaneamente famigliare ed estranea.
Che cosa racconta veramente Fiabe del bosco viennese?
Il titolo Storie del bosco viennese va preso alla lettera: racconta la storia dell’Austria, ma non più la grande Storia dell’Impero ormai defunto, ma le piccole storie della piccola nazione che è rimasta… La forza del disegno di Horváth sta nell’aver dato uno spessore allegorico a ogni personaggio e a ogni situazione del testo: per esempio, la tabaccaia può rappresentare la Vienna opulenta dei valzer; la nonna l’Austria dell’arcadica Wachau, che ha fatto l’Impero; Marianne la giovane Repubblica austriaca, (non a caso si chiama come il simbolo della Rivoluzione francese) che finirà con l’annessione nazista.
È tenendo conto di questo strato allegorico che mi è sembrato giusto tradire il vocabolo Geschichten (letteralmente storie) facendolo diventare fiabe.
Testo è magnifico per gli attori, con “caratteri” divertentissimi, che portano in scena un’incoerenza, che è spesso la nostra, la stessa che oggi ci consente di essere democratici e allo stesso tempo volere sterminare il prossimo, generosi ma anche avidi, ecologisti e consumisti…
E’ evidente che quando la democrazia palesa tali contraddizioni ci sia in atto una grande crisi. Il compito dell’artista è quello di riconoscere questi smarrimenti e “suonare l’allarme quando la società è in pericolo”, avrebbe detto Vonnegut; Horváth l’ha fatto in un momento in cui rischiava veramente la vita.
Tutti questi elementi conferiscono all’opera di Horváth un incredibile tratto di chiaroveggenza che appare in tutta la sua lucidità nel romanzo Gioventù senza Dio…
In questo suo primo romanzo, attraverso la storia di un giovane professore nella Germania degli anni ’30, Horváth ha affrontato due temi fondamentali: il coraggio delle proprie azioni e la vigliaccheria della razza umana. In che modo?
L’accettazione della propaganda ha creato in Germania in quegli anni mentalità pigre, piatte e allineate, ingranaggi del meccanismo diabolico del nazismo, soggetti educati all’obbedienza. Horváth parte da qui. Gioventù senza Dio è, per usare una definizione alla Wedekind o alla Rosa Valetti, un cabaret satanico: ha qualcosa d’inquietante, richiede di entrare in una sorta di “trip visionario”, raccontando la sparizione dell’individuo e la nascita della massa; tutto il mondo diventa una gerarchia, dove chiunque può essere l’altro… ogni incontro è sempre con noi stessi.
Horváth tratta in questo romanzo un tema che sarebbe esploso solo col processo di Norimberga: quello della responsabilità personale, per la quale non basta dire “ ho eseguito gli ordini”, perché non tutti gli ordini vanno eseguiti.
In questo testo la lingua di Horváth, magnifica e asciutta, dimostra le sue potenzialità cinematografiche; nella stessa scrittura è contenuta un’idea di montaggio. Infatti da Gioventù senza Dio sono stati tratti successivamente diversi film, l’ultimo dei quali è del 1991, del regista Michael Knof con Ulrich Mühe, il bravissimo e compianto protagonista de Le vite degli altri.
Fede, speranza, carità, terzo elemento del trittico, quali caratteristiche ha?
Mentre Fiabe del bosco viennese è ambientato in un meta-tempo che però tiene conto dei riferimenti al grande Impero austrico; Fede, speranza, carità invece è stato composto a quattro mani con un giornalista: è una storia di cronaca realmente accaduta, attraverso cui Horváth si pone e ci pone domande eterne sulle regole che governano la comunità, i diritti civili e lo stato sociale, ricostruendo la tragedia ancora attuale di una società di massa in cui gli individui rimangono schiacciati dai freddi ingranaggi burocratici.
Fede, speranza, carità è il paradosso dell’oggi: quello per il quale se voglio vivere devo vendermi il corpo, la forza o il cervello… La protagonista porta al parossismo questo principio, arrivando a voler vendere il proprio cadavere dietro compenso anticipato. Ciò crea un effetto domino che innesca assurde opzioni.
Questo è un testo rapidissimo ed efficace che, come Fiabe del bosco viennese, si configura come un divertissement; Gioventù senza Dio invece con la sua tematica dura mantiene una forte spinta di drammaticità.
Horváth racconta le caratteristiche dell’uomo piccolo borghese, un uomo che resiste all’anima e lotta per la conservazione dell’inganno. Inoltre è stato considerato un grande esperto della stupidità e della volgarità umane. Perché?
I personaggi che descrive, uomini, donne o bambini, sono davvero dei mostri: non ce n’è uno che si salvi, ma lui non li giudica, li tratta con totale normalità. La citazione che troviamo all’inizio di Fiabe del bosco viennese, “niente dà il senso dell’infinito quanto la stupidità”, va infatti presa alla lettera: la stupidità è l’infinito. Mentre l’intelligenza nella storia umana si manifesta con sporadiche epifanie, la stupidità si dimostra essere il fondamento dell’esistenza, forse per preservare la vita, perché se fossimo tutti intelligenti, la specie umana avrebbe potuto estinguersi…
Questi tre testi portano tematiche ricche di significati, capaci di suscitare molte paure, quindi è necessario trasferire sulla scena la leggerezza della sua scrittura. Il filo conduttore è il divertimento. Inoltre tutti e tre sono concepiti in maniera musicale, come solo un viennese poteva fare, (Fiabe addirittura ha la struttura di un’operetta basata sui grandi valzer di Strauss, con recitativo obbligato) e questo conferisce levità, trasmettendo l’eco della grande civiltà asburgica ormai in decadenza.
Dal punto di vista della messa in scena naturalismo e realismo, secondo le indicazioni dello stesso autore, si rivelano insufficienti; in particolare in Fiabe i protagonisti del gioco teatrale si delineano più come “caratteri” che come “personaggi”, esprimendo attraverso la grossolanità del tratto, tutta la complessità e al tempo stesso la spietatezza della natura umana.
Tutto il suo mondo e tutto il suo universo intellettuale si sono riversati nel suo teatro. In questo senso Horváth ha compiuto un’operazione simile a quella di Proust nella sua celebre Recherche.
2. IL ROMANZO :: GIOVENTU’ SENZA DIO : UNA PRESENTAZIONE TEATRALE E UNA RECENSIONE
Gioventù senza Dio
Gioventù senza Dio – Far sentire la propria voce nel dissenso
Raffaele Esposito ed Emanuele Vezzoli raccontano
GIOVENTÙ SENZA DIO di Ödön von Horváth
- durata::1,28
2. durata: 2,24
https://www.youtube.com/watch?v=TBOSRto0XUo
RECENSIONE DELLO SPETTACOLO ::
IL SOLE 24 ORE– CULTURA — 23 GENNAIO 2014
È una piacevole sorpresa ritrovare Raffaele Esposito a teatro, tornato dopo qualche anno di assenza. Ed è per un’ulteriore grande prova d’attore. Impegnativa. Complessa. Emozionante. Per un testo dentro il quale egli si addentra con passione recitativa e fisica, incarnando un personaggio che sembra scritto per lui (o è lui che lo rende vero?). È il giovane professore di Gioventù senza Dio, il protagonista del romanzo di Ödön von Horváth, impegnato in un dialogo solitario e tragico con il proprio destino.
Scritto nel 1937, coi toni del noir, rappresenta la sventura di un’intera generazione la cui giovinezza è stata cancellata dal totalitarismo nazista.
Sono i rappresentanti di una classe di studenti ancora adolescenti, omologati alla disumana logica di regime, che trovano appagamento solo in corsi d’istruzione paramilitare, con i quali si confronta il professore che vede nei suoi alunni solo gelidi ingranaggi del sistema. In disaccordo con le circolari ministeriali, e contro i suoi stessi allievi che arrivano a firmare una lettera richiedendo la sua rimozione, egli è pronto a lottare per la verità, quella per cui anche il dire che i “negri” sono esseri umani come gli altri è motivo di oltraggio. In questa battaglia impari è tentato pure dal facile compromesso. Un compromesso già scelto dal più anziano superiore, un cinico preside di liceo, la cui sola aspirazione è una serena vecchiaia.
Il dramma si consuma quando il professore scopre una tresca amorosa fra un allievo e una giovane emarginata, che vive di espedienti e piccoli furti. Gli eventi precipitano quando il ritrovamento di uno degli studenti non rientrato da un’esercitazione, fa scattare accuse che non risparmiano nessuno. L’imprevedibile epilogo, che non si può anticipare, è degno del grande teatro espressionista. Nella messinscena di Walter Le Moli – secondo spettacolo del trittico dedicato all’autore austriaco -, in bianco e nero per via dei costumi dei due interpreti, ci troviamo in piccoli gruppi seduti in diagonale in quattro angoli della sala minima del Teatro Due: una disposizione che sfrutta la lunghezza dello spazio e conferisce un andamento cinematografico alla visione nello spostamento degli interpreti.
Essi si muovono nella penombra, alternata a luci forti, tra alcune panche, dei tavoli e tre lavagne, evocando diversi luoghi e incarnando, Emanuele Vezzoli più personaggi (il nichilista, il preside, il prete del paese, il Pubblico Ministero …), ed Esposito, oltre che l’insegnante, anche voce narrante del testo. Egli fa vibrare le parole – intenso il suo rapporto con la madre – dando corpo ai vari sentimenti di paura, di rimorso, di rabbia, di disperazione impotente (specie quella contro il montare della propaganda, infarcita di banalità che assurgono a verità assolute) che man mano esplode e si libera nel sollievo finale, che non ha nulla però del trionfo del bene sul male. E quella bandiera con la svastica appesa a metà spettacolo sulla lavagna, tolta con forza da Esposito al momento degli applausi finali, dice ancora l’imprevedibile pericolo.
«Gioventù senza Dio»
liberamente tratto dal romanzo di Ödön von Horváth
con Raffaele Esposito e Emanuele Vezzoli
spazio scenico Gabriele Mayer
luci Claudio Coloretti
regia Walter Le Moli
Produzione Fondazione Teatro Due
A Parma, Teatro Due, fino al 28 febbraio.