François Villon la Ballade des pendus lu par Gérard Philipe — et par Serge Reggiani — testo e traduzione —++ La ballata degli impiccati di Fabrizio de Andre’ ++ notizie varie da ” Canzoni contro la guerra “

 

 

François de Montcorbier, detto Villon. Incisione dalla prima edizione a stampa del 1501.

François de Montcorbier, detto Villon.

Incisione dalla prima edizione a stampa del 1501.

 

 

 

 

Image : Ecce lex, dit le pendu, Victor Hugo, Plume et lavis d’encre brune sur crayon de graphite, encre noire, fusain sur papier vergé

Musique d’accompagnement : Vivaldi, les 4 saisons

  1. Lecture du texte : Gérard Philipe

 

2. LECTURE DE SERGE REGGIANI

 

https://youtu.be/k2bLaDTMrKw

 

Frères humains, qui après nous vivez,

N’ayez les coeurs contre nous endurcis,

Car, si pitié de nous pauvres avez,

Dieu en aura plus tôt de vous mercis.

Vous nous voyez ci attachés, cinq, six :

Quant à la chair, que trop avons nourrie,

Elle est piéça dévorée et pourrie,

Et nous, les os, devenons cendre et poudre.

De notre mal personne ne s’en rie ;

Mais priez Dieu que tous nous veuille absoudre !

Se frères vous clamons, pas n’en devez

Avoir dédain, quoique fûmes occis

Par justice. Toutefois, vous savez

Que tous hommes n’ont pas bon sens rassis.

Excusez-nous, puisque sommes transis,

Envers le fils de la Vierge Marie,

Que sa grâce ne soit pour nous tarie,

Nous préservant de l’infernale foudre.

Nous sommes morts, âme ne nous harie,

Mais priez Dieu que tous nous veuille absoudre !

La pluie nous a débués et lavés,

Et le soleil desséchés et noircis.

Pies, corbeaux nous ont les yeux cavés,

Et arraché la barbe et les sourcils.

Jamais nul temps nous ne sommes assis

Puis çà, puis là, comme le vent varie,

A son plaisir sans cesser nous charrie,

Plus becquetés d’oiseaux que dés à coudre.

Ne soyez donc de notre confrérie ;

Mais priez Dieu que tous nous veuille absoudre !

Prince Jésus, qui sur tous a maistrie,

Garde qu’Enfer n’ait de nous seigneurie :

A lui n’ayons que faire ne que soudre.

Hommes, ici n’a point de moquerie ;

Mais priez Dieu que tous nous veuille absoudre !

 

 

pendusepitaphe

La Ballade des pendus è la più celebre poesia di François Villon; specialmente a partire dal Romanticismo, con la sua riscoperta della poesia medievale, la sua influenza sulla letteratura non solo francese è stata enorme. Si afferma generalmente, anche se la circostanza non è mai stata chiarita in modo definitivo, che Villon la compose in carcere, nell’attesa di essere giustiziato per impiccagione in seguito al suo coinvolgimento nel cosiddetto Caso Ferrebouc, nel quale un legato pontificio rimase ferito durante una rissa.

Nel manoscritto Coislin (1464) la ballata è priva di titolo; nell’antologia Le Jardin de Plaisance et Fleur de de rethoricque, stampata da Antoine Verard nel 1501, è intitolata semplicemente Autre ballade. Essa reca invece il titolo di Épitaphe Villon nel manoscritto Fauchet (1477) e nell’edizione principe a stampa del 1489 di Pierre Levet (Le grant testament villon et le petit. Son codicile. Le iargon et ses ballades) è di Épitaphe dudit Villon nel Canzoniere di Rohan. Clément Marot, nella sua edizione commentata del 1533, la intitola: Épitaphe en forme de ballade, que feit Villon pour luy & pour ses compaignons s’attendant à estre pendu avec eulx. (“Epitafio in forma di ballata, che Villon compose per lui stesso e per i compagni che attendevano d’essere impiccati con loro”). Il titolo moderno è tardo; deve essere attribuito ai Romantici, e pone dei problemi in quanto svela troppo presto l’identità dei “narratori” e compromette l’effetto di sorpresa voluto da Villon. Il titolo Épitaphe Villon e i suoi derivati è improprio ed ingenera confusione, poiché Villon si era già composto un vero e proprio epitafio al termine del Grand Testament (vv. 1884-1906); inoltre, tale titolo (e specialmente la dettagliata versione di Marot) implica che Villon abbia composto la poesia nell’attesa dell’impiccagione, il che è ancora oggetto di discussione. Gli storici e i commentatori di Villon nominano usualmente la poesia con le sue prime due parole: Frères humains, come è abitudine quando l’autore non ha lasciato un titolo; ma il titolo con la quale è generalmente nota è quello tardo di Ballade des pendus.

Data la grande notorietà di questa poesia, risulta abbastanza strano che per averne una versione musicata e cantata si sia dovuto attendere il 1961 con la (bella) versione di Louis Bessières interpretata da Serge Reggiani. La canzone francese ha un’antica e cospicua tradizione di testi poetici messi in musica. Non si ha notizia di alcun tentativo del genere effettuato ad esempio da Georges Brassens, che pure aveva messo in musica un’altra celeberrima ballata di Villon, la Ballade des dames du temps jadis, e nelle cui canzoni gli impiccati sono presenza frequente. Ma bisognerà attendere la Ballata degli impiccati di Fabrizio De André per avere una composizione della drammaticità paragonabile a quella del capolavoro villoniano, anche se in un’ottica del tutto opposta. [RV]

 

 

Traduzione italiana di Emma Stojkovic Mazzariol
Da: François Villon, Poesia, Milano, Mondadori, 1985

BALLATA DEGLI IMPICCATI

Fratelli umani, che ancor vivi siete
Non abbiate per noi gelido il cuore,
Ché, se pietà di noi miseri avete
Dio vi darà più largo il suo favore.
Appesi cinque, sei, qui ci vedete:
La nostra carne, già troppo ingrassata,
E’ ormai da tempo divorata e guasta;
Noi ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

Se vi diciam Fratelli, non dovete
Averci a sdegno, pur se fummo uccisi
Da giustizia. Ma tuttavia, sapete
Che di buon senso molti sono privi.
Poiché siam morti, per noi ottenete
Dal figlio della Vergine Celeste
Che inaridita la grazia non resti,
E che ci salvi dall’orrenda folgore.
Morti siamo: nessuno ci molesti,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

La pioggia ci ha lavati e risciacquati,
E il sole ormai ridotti neri e secchi;
Piche e corvi gli occhi ci hanno scavati,
E barba e ciglia strappate coi becchi.
Noi pace non abbiamo un sol momento:
Di qua, di Là, come si muta, il vento,
Senza posa a piacer suo ci fa volgere,
Più forati da uccelli che ditali.
A noi dunque non siate mai uguali;
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

O Gesù, che su tutti hai signoria,
Fa’ che d’Inferno non siamo in balia,
Che debito non sia con lui da solvere.
Uomini, qui non v’ha scherno o ironia,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

 

 

dall’   INTRODUZIONE::

 

[…]Il delinquente torturato dal vescovo, respinto da tutti, anche dall’ultimo dei suoi parenti, ha fede nel giudizio finale di Dio, non in quello degli uomini, che vede miseri come lui, sia che trascinino la loro vita randagia sulle strade, come i buffoni, i saltimbanchi, le prostitute, sia che seguano le oscure forze del male -bari, ladri, imbroglioni- sia che vivano avvinghiati ai beni terreni e alla loro ripugnante fisicità, come i grassi borghesi, gli usurai, i mercanti che fanno parte della gerarchia ufficiale di una societò dipinta nei suoi lasciti con tanta ferocia. Forse solo una tragica farsa egli ha visto nella vita, quella vita che ama con spasimo, ora perdendosi nel suo brago, ora cercandovi una smarrita purezza. Nella società, nel mondo che si agita intorno a lui, Dio è assente. La sua parola è irriconoscibile. Tutti attendono, come il “povero Villon”, di essere liberati dalla loro prigione -quella di Meung, o del peccato, o della vita- riammessi un giorno nella “casa” di Dio:

Au retour de dure prison
Ou j’ai laissié presque la vie…
Plaise a Dieu que l’aame ravie
En soit lassus en sa maison.

Forse in questo mondo alla rovescia, dilaniato e fatto a pezzi dalla parola ruvida e beffarda di un delinquente poeta in cerca di verità, l’unica speranza di salvezza è nell’appello, nell’intercessione di tutti per tutti, nella partecipazione all’umano, in una restaurata dimensione di carità.

La Ballata degli impiccati non fa parte del Testamento e non si conosce esattamente la data della sua composizione. Eppure, il suo spirito circola al fondo del poema, fin da quando un leggendario pirata Diomede è portato davanti al suo “pietoso” Alessandro per essere “giudicato a morire”, fin da quando l’incubo della morte “con onta e infamia” si concretizza nella visione di uno sciagurato Colin de Cayeux penzolante da una forca.

Quel nero colore che il poeta porta sul volto, quel corpo spettrale come una chimera, cui egli assegna un’impossibile sepoltura in un “solaio” lontano da terra, altro non sono forse che la proiezione di un terrore che è coscienza del male, sentito come misteriosa condizione del vivere. Il cinismo, la beffa, l’insulto sono spesso solo forme esasperate di sofferenza. La cappella di Saint-Avoie -bizzarra e quasi irreale- dove non ci sarà la sua tomba, ma solo il profilo del suo corpo tutto intero, in piedi, tracciato a inchiostro o col carbone, sembra la casa dell’impiccato, che è in alto nel vento.

Da tempo, Villon cercava quei poveri corpi occis par justice per dar loro la voce. “Non è più la morte comune ad ognuno”, ha scritto il Neri, “ma la morte dei suoi, la misera fine dei vagabondi, dei coquillards. Non è solo questo. Ha ragione il Del Monte quando scrive che l’invito alla pietà, a un nuovo patto di fratellanza, è rivolto ai vivi, non in nome del Creatore, ma di un “eguale destino umano, fatto di follia e di dolore”. E non in accordo con la giustizia umana, potremmo aggiungere, di cui pure qui si riconosce la legge necessaria e inesorabile (quoy que fusmes occis par justice), anch’essa provvisoria e precaria en ce monde ci transitoire.

Emma Stojkovic Mazzariol, dall’Introduzione all’op.cit., pp. XXVIII-XXX.

 

https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=5843&lang=it

 

 

Ballata degli impiccati – De Andrè

 

fabfuma
[1968]
Testo di Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio
Musica di Fabrizio De André
Lyrics by Fabrizio de André and Giuseppe Bentivoglio
Music by Fabrizio de André
Album: Tutti morimmo a stento

Figline di Prato, 6 settembre 1944. Civili impiccati dai tedeschi e dai fascisti per rappresaglia.

Figline di Prato, 6 settembre 1944. Civili impiccati dai tedeschi e dai fascisti per rappresaglia.

 

 

 

 

Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.

L’urlo travolse il sole
l’aria divenne stretta
cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta.

Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora.

Poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l’antico credo
di chi muore senza perdono.

Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.

Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.

La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.

Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.

 

 

 

Un discorso sospeso
di Riccardo Venturi

Questo sito si occupa, per definizione, della violenza del potere e della confusione, dello sconvolgimento che essa ingenera. La stessa parola “guerra”, “war” in inglese, ci riporta a questa cosa: è l’antica radice germanica, sia in italiano che in inglese, della “confusione”, in tedesco “Ver-wirrung”. La confusione, quindi, come elemento necessario perché il potere possa esercitare la sua violenza. La quale si esprime, e non potrebbe essere altrimenti, anche nella pena di morte. La pena capitale, cioè primaria, senza ritorno. Le guerre niente altro sono che delle gigantesche esecuzioni di massa, di soldati, di civili, di cose, di popoli, di paesaggi.

Si è quindi voluto, nell’ambito nel neonato percorso sulla pena di morte, inserire questa canzone di Fabrizio De André. Questa terribile canzone di quel terribile album che è Tutti morimmo a stento. Una canzone che ha radici antichissime, perché l’impiccato ha, da sempre, quasi la funzione di condannato a morte “esemplare”, sia per l’ignominia particolare riservata a tale tipo di esecuzione (all’interno della condanna a morte vi è anche l’estrema perversione delle condanne “nobili” e di quelle “ignominiose”), sia per le connotazioni rituali e magiche che essa ha assunto sin da epoche remote. Non a caso l’Impiccato è una carta dei tarocchi. L’afflusso di sangue improvviso e forzato provoca nell’uomo impiccato un’erezione, e le donne sotto al patibolo toccano il corpo morto per augurare fecondità e virilità al compagno. L’orina dell’impiccato (un’altra reazione fisica usuale) viene raccolta e fatta oggetto di rituali magici. E gli impiccati divengono figure-simbolo, personaggi letterari, simulacri ammonitori. L’albero degli impiccati è una delle immagini che si tramanda dalla notte dei tempi, un’immagine al tempo stesso simbolica e ben reale (si veda, ad esempio, Strange Fruit).

In particolare, questa canzone di De André promana direttamente, anche se non ne riprende il testo, dalla Ballade des pendus [Épitaphe Villon] di François Villon, il grande poeta “maledetto” francese del Medioevo, che sulla forca aveva visto morire i suoi compagni. Poesia che fu poi musicata da Louis Bessières e interpretata Serge Reggiani; ma le influenze villoniane sono decisive anche su Brassens, autore a sua volta di diverse canzoni dove sono presenti impiccati, prima fra tutte La messe au pendu. Ma nella sua canzone, De André va molto oltre. La tradizione degli impiccati vuole che essi, come del resto molti altri condannati a morte, raccontino la loro triste vita ed i motivi che li hanno portati al patibolo, cogliendo un’ultima occasione per chiedere perdono a Dio e agli uomini (“mais priez Dieu que tous nous vueylle absouldre”). De André ci presenta degli impiccati che non chiedono nessun perdono.

Ci presenta degli impiccati pieni di furore e di rancore. Ci presenta una bestemmia, non una preghiera. Ci presenta una frase che dovrebbe essere ricordata a tutti coloro che, nel mondo, ancora oggi, pronunciano una condanna a morte: Prima che fosse finita, ricordammo a chi vive ancora che il prezzo fu la vita per il male fatto in un’ora. Si potrebbe andare oltre e ricordare “a chi vive ancora”, che spesso e volentieri la vita è il prezzo per non aver fatto niente di male, neppure in un’ora, neppure in un minuto. E’ addirittura il prezzo riservato a chi si è rifiutato di fare del male, dato che l’impiccagione è una delle più diffuse pratiche di esecuzione applicate ai disertori. A chi, quindi, si rifiuta di uccidere, viene riservata la pena ignominiosa. La stessa applicata a chi combatte per la libertà da un’oppressore; la fotografia qua sopra non è che una delle migliaia di prove al riguardo.

Gli impiccati di questa canzone sono uomini fino in fondo. Non indulgono alla paura del “divino”, neppure nel momento estremo. Si augurano umanissimamente che chi li ha fatti finire a quel modo abbia a subire lo stesso destino. Arrivano ad augurare il male al beccamorti che li ha sotterrati come se nulla fosse, come da suo mestiere. Niente di più lontano da Brassens e dalla sua umana compassione per il “Fossoyeur”. E’ la canzone del rancore, questa. Il rancore di chi si vede strappare la vita da un potere che ha deciso la morte, magari lo stesso potere che biascica su qualche panca di chiesa che solo Dio ha facoltà di dare e togliere la vita, ma che poi, in terra, agisce in tutt’altro modo.

E’ un discorso sospeso. Il dolore non genera qui rassegnazione, ma rabbia. La Ballata degli impiccati di De André è, in questo senso, anche una canzone politica. Da quei corpi che tirano calci al vento si promette che la storia non finisce qui. Continua, e continuerà per sempre, gridando contro.

 

canzoni contro la guerra

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  1. Donatella scrive:

    Tante poesie, tante parole per dire che la pena di morte è contro l’umanità.

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