+++ ANTONIO MOSCATO, POZNAM E LA CRISI DEL SISTEMA SOVIETICO ++ ILARIA ROMEO, LO SCONTRO TRA DI VITTORIO E TOGLIATTI ++ BRUNO TRENTIN, LA LEZIONE DI DI VITTORIO, 12 OTTOBRE 2006 — fonti varie, tutti i link sotto

 

AGORAVOX.IT–6 GIUGNO 2016

https://www.agoravox.it/Sessanta-anni-fa-a-Poznan-si.html

 

Sessanta anni fa a Poznan si manifesta la crisi del sistema sovietico

 

 

Molte delle vicende che hanno segnato il lungo declino dell’URSS e del sistema sorto a sua immagine e somiglianza dopo la Seconda Guerra mondiale sono non solo ignorate dalle giovani generazioni ma sono state dimenticate e rimosse da molti che pure le conobbero. Certo sono raramente ricordate dagli stessi media mainstream che al massimo ogni tanto rievocano con toni granguignoleschi qualche vicenda, non certo per facilitarne la comprensione.

Pubblicando la traduzione di un breve articolo sulla rivoluzione ungherese dell’ottobre-novembre 1956, sintesi di un lavoro più ampio fatto da un docente che non ha paura di andare controcorrente nell’Ungheria di Victor Orban (Ungheria 1956: la destalinizzazione apre la via al movimento popolare), mi sono reso conto che di riflesso (per la apparente minore necessità di polemizzare con versioni scorrette) anche il mio sito negli ultimi tempi ha diradato un po’ gli articoli di ricostruzione storica. Cercherò di riparare tenendo conto anche delle ricorrenze degli avvenimenti principali di quel “terribile 1956” (sugli aspetti più generali intanto rinvio a qualche scritto più ampio rimasto seminascosto nella parte meno recente del sito, come La rivoluzione ungherese – 1956, o Polonia e Ungheria ’56).

Comincio con una breve ricostruzione della prima manifestazione della crisi, la rivolta operaia di Poznan di cui tra pochi giorni ricade l’anniversario. Formalmente non è stata esattamente la prima, ma fu quella che provocò la prima differenziazione visibile nel movimento comunista e in particolare nel PCI, con la presa di posizione di Giuseppe Di Vittorio.

 

Risultati immagini per 1953 rivolta degli operai di berlino

BERLINO, 1953

 

Bundesarchiv Bild 175-14676, Leipzig, Reichsgericht, russischer Panzer.jpg

CARRI ARMATI SOVIETICI A LIPSIA, GIUNGO 1953–Bundesarchiv, B 285 Bild-14676 / sconosciuto

 

Carro armato sovietico nella Schützenstraße di Berlino Est.

 

 

Tre anni prima, il 16 giugno del 1953 c’era stato lo sciopero generale di Berlino Est, contro insopportabili ritmi di lavoro, che era stato non solo duramente represso, ma anche bollato come “rivolta fascista”. Pochissimi compagni anche nei decenni successivi hanno voluto modificare il loro giudizio, che spesso era imbevuto di quei pregiudizi sciovinisti e razzisti antitedeschi che avevano caratterizzato la “Grande Guerra Patriottica” ed erano stati riproposti nei vari partiti comunisti. Solo diversi anni dopo si ebbe notizia di altre manifestazioni della stessa crisi che in quello stesso mese dilagarono con rivolte nei Gulag e anche con scioperi in diverse città russe e cecoslovacche tra cui Pilsen.

La rivolta di Poznan in ogni caso non poté essere nascosta per una ragione particolare: in città erano presenti decine di giornalisti di vari paesi, e molti uomini d’affari occidentali per la Fiera industriale, una delle più importanti dell’Europa centro orientale. Le versioni negazioniste hanno insistito su questa coincidenza per avvalorare la tesi che la manifestazione fosse manovrata dalla CIA, ma diversi testimoni, tra cui uno scrittore polacco, Wiktor Woroszylski, e il corrispondente de “l’Unità” Vito Sansone avevano confermato che l’agitazione alla ZISPO (15.000 operai, addetti alla produzione di locomotive, vagoni e carri armati) era in corso da mesi, ed era esplosa il 12 maggio in un’assemblea che aveva denunciato l’aumento della produttività mentre i salari reali si riducevano. Il 25 maggio i lavoratori avevano inviato una delegazione a Varsavia.

Il ritardo nel rientro della delegazione (che in realtà aveva ottenuto benevolo ascolto e qualche promessa, grazie ai primi sintomi del malessere dello stesso gruppo dirigente) fu attribuito invece dalla maggior parte degli operai a un possibile arresto, e innescò lo sciopero e un corteo che sotto i colpi della milizia si divise in vari tronconi, uno dei quali si recò a una vicina prigione liberando tutti i detenuti. La manifestazione, iniziata al canto dell’Internazionale e con alla testa le bandiere rosse delle cellule di fabbrica del partito, fu repressa a cannonate dai carri armati comandati dal ministro della difesa Rokossovski (che era stato per decenni cittadino sovietico), che fecero una cinquantina di morti e 300 feriti. Ma presto la quasi totalità delle centinaia di arrestati furono rilasciati, tranne due che avevano ucciso un funzionario della polizia politica. Il potere vacillava e si divideva.

L’antefatto si era svolto a Mosca, durante il XX Congresso del PCUS. Poco prima di quella riunione, in cui fu denunciato il “culto della personalità” e Chrusciov sferrò il famoso attacco a Stalin che con perfetto stile staliniano attribuiva al solo dittatore georgiano le responsabilità collettive del gruppo dirigente, era stato affrontato un problema apparentemente minore: la revisione della condanna del partito comunista polacco che era stato sciolto nel 1938 presentandolo come asservito all’imperialismo. Una dichiarazione dei partiti comunisti dell’Unione Sovietica, d’Italia, Bulgaria, Finlandia e Polonia dichiarava false le prove che avevano portato allo scioglimento del partito e allo sterminio del suo gruppo dirigente. Tutto deciso, come nel 1938, a porte chiusissime: i polacchi appresero improvvisamente la notizia della “riabilitazione” (e della stessa condanna, su cui per quasi venti anni era stato steso un velo di silenzio), e furono informati che i responsabili “erano un gruppo di sabotatori e provocatori il cui ruolo è stato portato alla luce solo quando Beria è stato smascherato”.

La dichiarazione era stata pubblicata dal “Trybuna Ludu” il 17 febbraio, una settimana prima del famoso rapporto segreto, ed era accompagnata dalle foto di tutti i dirigenti sterminati, compresi i “tre W”, Warski, Walecki e Wera Kostrzewa, che erano stati per 18 anni delle “non persone”.

Il disorientamento del gruppo dirigente del POUP (partito operaio unificato polacco, nome assunto nel dopoguerra dopo l’unificazione forzata con i resti del partito socialista) era stato aggravato dalla morte a Mosca (subito dopo la chiusura del XX congresso) di Boleslaw Bierut, che era segretario generale dal 1948. La discussione sulla nomina del nuovo segretario provocò lacerazioni impreviste che paralizzarono il partito per mesi, e che si aggravarono dopo la rivolta di Poznan e la comparsa di Consigli operai in molte fabbriche importanti. Il tentativo sovietico di destituire il segretario Edward Ochab che era stato imposto il 21 marzo dallo stesso Chrusciov, ma che nel nuovo clima si era rivelato troppo autonomo da Mosca, era fallito perché neanche un membro del Politbjuro polacco aveva accettato di prestarsi alla manovra. Riparleremo prossimamente di quell’episodio ricostruendo il ritorno in scena di Gomulka.

Ma ora volevo tornare a quanto anticipato sopra: la rivolta operaia di Poznan aveva fatto riflettere non solo parte del gruppo dirigente polacco, ma anche Giuseppe Di Vittorio. È abbastanza noto l’atteggiamento di esplicita critica all’intervento militare sovietico in Ungheria (Di Vittorio aderì e difese la bozza preparata da Giacomo Brodolini, suscitando una violenta reazione di Togliatti), ma raramente viene ricordato che già il 2 luglio aveva scritto al corrispondente dell’Unità Vito Sansone apprezzando la sua coraggiosa denuncia delle condizioni dei lavoratori di Poznan, e aveva per giunto ribadito i suoi dubbi rilasciando una dichiarazione all’Unità che gli era stata richiesta per rettificare la sua linea; ma il testo, se iniziava ammettendo che dietro gli assalti agli edifici pubblici potevano esserci dei provocatori, poi proseguiva osservando che “se non ci fosse stato il malcontento diffuso e profondo della massa degli operai, i provocatori sarebbero stati facilmente isolati”. Per questo, sosteneva, “la prima questione che sorge” è quella di chiedersi “perché esiste un così profondo malcontento nella classe operaia di Poznan”. Togliatti non polemizzò pubblicamente allora con Di Vittorio, ma rincarò la dose pubblicando un articolo su Poznan dal titolo inequivocabile: “La presenza del nemico”. E nella drammatica riunione della Direzione del PCI del 30 ottobre 1956 convocata per discutere “Sulla situazione del partito in relazione ai fatti di Ungheria” aveva attaccato Di Vittorio anche sulla dichiarazione di giugno, sostenendo che non si trattava solo di atteggiamenti legati alla necessità di salvare l’unità della CGIL, ma di convinzioni sbagliate.

In realtà aveva ragione Di Vittorio e non Togliatti. Un atteggiamento diverso di un grande partito comunista stimato in tutto il movimento operaio mondiale avrebbe potuto contribuire se non ad evitare, almeno a ridurre gli atteggiamenti che hanno chiuso gli occhi dei dirigenti polacchi, ungheresi, tedeschi di fronte ai successivi segnali della crisi e in particolare allo scollamento con la loro base sociale. (a.m.)

Proposte di lettura:

Adriano Guerra, Bruno Trentin, Di Vittorio e l’ombra di Stalin, Ediesse, Roma, 1997.

Antonio Carioti, Di Vittorio, il Mulino, Bologna, 2004

Marcello Flores, 1956, il Mulino, Bologna, 1996

Carlo Ghezzi (a cura di), Giuseppe Di Vittorio e i fatti d’Ungheria del 1956, , Ediesse, Roma, 2007.

Maria Luisa Righi (a cura di), Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, Editori Riuniti, Roma, 1956

Foto: Wikipedia

 

Di Vittorio e l'ombra di Stalin

 

Di Vittorio e l’ombra di Stalin

di Adriano GuerraBruno Trentin

 

  • Editore:Ediesse
  • Data di Pubblicazione:ottobre 1997
  • Pagine: 216
  • 12,91 euro

 

striscia rossa — 24 ottobre 2019

http://www.strisciarossa.it/quello-scontro-tra-di-vittorio-e-togliatti-sullungheria/

 

 

Quello scontro tra Di Vittorio e Togliatti
sulla repressione del 1956 in Ungheria

Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del paese.

Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione. La condanna non è soltanto dell’intervento militare: il giudizio è netto e investe tanto i metodi antidemocratici di governo di quelle società, quanto l’insufficienza grave dello stesso movimento sindacale di quei paesi (LEGGI).

Nella stessa giornata del 27, Di Vittorio rilascia a un’agenzia di stampa una dichiarazione nella quale vengono ribadite le cose dette nel comunicato della SegreteriaSulla “situazione del Partito in relazione ai fatti di Ungheria” il 30 ottobre si riunisce la Direzionedel PciPer Di Vittorio è di fatto un processo. Presenti Togliatti, Longo, Amendola, Li Causi, Scoccimarro, Sereni, Roveda, Pajetta, Dozza, Di Vittorio, Colombi, Berlinguer, Secchia, Roasio, M. Montagnana, R. Montagnana, Pellegrini, Terracini, Boldrini, D’Onofrio e Ingrao. Assenti Novella, Spano e Negarville. Partecipano alla discussione Pajetta, Di Vittorio, Roveda, Roasio, Secchia, Pellegrini, Amendola, Ingrao, Boldrini, Li Causi, M. Montagnana, Colombi, Sereni, Dozza, Terracini, Berlinguer, Pajetta, Longo, Di Vittorio.

Così, sulla presa di posizione di Di Vittorio, Emilio Sereni: “L’unità nella nostra direzione è di importanza fondamentale e questa unità non può avvenire che attorno al compagno Togliatti. Con la sua dichiarazione il compagno Di Vittorio si è contrapposto alla direzione”. Aggiunge Dozza: “È noto in tutto il quadro confederale che Di Vittorio dà poca importanza al parere della Direzione. Esigenza della disciplina. Sono per la lotta sui due fronti, ma deve essere lotta e ogni membro della Direzione deve assumersi le sue responsabilità”. Duro anche Scoccimarro: “Gravissimo errore di DiVittorio nell’aver ignorato l’esperienza storica”.

Più morbido Roveda: “Sono d’accordo anche con l’articolo di Togliatti di stamattina (apparso su Rinascita, n. 10/1956, ndr) che pone il problema sul terreno di classe di fronte alla canea avversaria. Gli operai non avrebbero capito che l’esercito sovietico non fosse intervenuto per difendere il socialismo. Gli intellettuali dopo il XX Congresso vanno tutti alla ricerca del partito. Capisco la situazione molto difficile nella Cgil, ma si poteva evitare quella presa di posizione. I socialisti vogliono indebolire il nostro partito e dobbiamo evitare atti che li aiutino in questo. Non è vero che la posizione della classe operaia sia quella della Cgil”.

Conclude Palmiro Togliatti: “Dopo aver risposto alle argomentazioni sviluppate dai compagni – si legge sempre nel verbale  egli sottolinea che la posizione del comunicato della Cgil non è giusta. Ritiene che i comunisti della segreteria confederale avrebbero potuto e dovuto insistere per ottenere una posizione più giusta e che non disorientasse l’opinione dei lavoratori. In particolare osserva e deplora che il compagno Di Vittorio abbia aggiunto al comunicato un suo commento, non concordato con la segreteria del partito e divergente dalla linea del partito”. “La dichiarazione [di Di Vittorio] – aggiunge il segretario del Pci – non è stata concordata con noi e ha aumentato il disorientamento nel partito […] In questo momento come si può solidarizzare con chi spara contro di noi mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria? […] Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”.

Di Vittorio replica ai suoi interlocutori con due interventi che non soddisferanno TogliattiDirà il Segretario a conclusione della riunione che “la risposta di Di Vittorio non è stata quella necessaria”.

Ricorderà anni dopo Bruno Trentin“Dopo quella riunione l’ho trovato molto provato umanamente  scrive con Adriano Guerra in Di Vittorio e l’ombra di Stalin (Ediesse 1997, pp. 205-206) : un uomo, se non stroncato, ferito e umiliato. Credo che si sia trovato di fronte a un aut aut drammatico. Al successivo direttivo della Cgil, Di Vittorio dichiarò che aveva dovuto tener conto delle esigenze unitarie interne alla Cgil. Non era una ritrattazione, perché non sconfessava il documento, ma sosteneva che esso non corrispondeva alla posizione dei comunisti […]. A riprova del carattere compromissorio e transitorio di questa presa di posizione sta l’intervento di Di Vittorio al Congresso del Partito, in cui non ritorna sugli errori eventualmente commessi a proposito dell’intervento militare in Ungheria, ma rilancia la tematica del sindacato nei paesi socialisti e del superamento della cinghia di trasmissione”.

Al medesimo Congresso (VIII, Roma, 8-14 dicembre 1956), il delegato di Cuneo Antonio Giolitti denuncerà l’impossibilità di continuare a definire legittimo, democratico e socialista ‘un governo come quello contro cui è insorto il popolo di Budapest’, definendo ingiustificabile l’intervento sovietico ‘in base ai principi del socialismo’.  Sul finire del successivo mese di luglio Giolitti spedirà la sua lettera di dimissioni, pregando che sia pubblicata entro il 24.

Esattamente una settimana più tardi (il 7 agosto 1957) la stessa «Unità» pubblicherà la lettera di dimissioni di Italo Calvino, una lettera che l’autore medesimo definirà ‘d’amore’: “Cari compagni – scrive nella prosa scorrevole ed incisiva che contraddistingue le sue opere Calvino – devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal Partito […] Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita: vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita del Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio campo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo m’è stata di sprone a cercar di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa; credo d’esser sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può esser garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori” (l’articolo-lettera di Calvino appare sulla settima pagina del giornale che titolerà Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino, pubblicando subito sotto, in basso a destra, la risposta del Comitato).

 

 

 

RASSEGNA SINDACALE ( FONDATA DA GIUSEPPE DI VITTORIO ) –12 OTTOBRE 2006

https://www.rassegna.it/articoli/un-convegno-sulla-cgil-e-i-fatti-d-ungheria

 

Non è la prima volta che mi accade di rievocare la figura di Giuseppe Di Vittorio, e il suo ruolo in un anno – il 1956 – che rappresenta uno spartiacque nella storia del movimento operaio internazionale. Ma parlarne oggi, in modo non rituale o puramente celebrativo, per me significa riaprire una riflessione critica a tutto campo sulla vicenda del Pci e della sinistra italiana nel dopoguerra.

Qui mi limito solo a segnalare questa esigenza, che pure avverto da molto tempo. Non credo di andare fuori tema, dunque, se mi chiedo fino a che punto la sinistra italiana abbia realmente metabolizzato la crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi frutti più avvelenati, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico. La domanda è giustificata, se si getta uno sguardo sui tormentati avvenimenti degli ultimi quindici anni. Penso al sovraccarico di dispute astratte che hanno stressato la discussione sulla forma e sul nome del partito: del lavoro, o socialista, o riformista, o democratico. E alle difficoltà, invece, incontrate dalla costruzione di un nuovo soggetto unitario in grado di concorrere alla definizione di uno schieramento federato, in Italia e in Europa, delle forze progressiste. Penso al modo in cui è stata vissuta quella che chiamo la “fatica del progetto”, spesso vista come una specie di “onere improprio” gravante su una politica identificata – appunto – con il primato dei partiti e l’arte del governo.

A dire il vero, nessuno nega la necessità del progetto. Sono i suoi eventuali obiettivi vincolanti a infastidire quanti concepiscono l’“autonomia del politico” come la prerogativa esclusiva di una classe dirigente che decide pragmaticamente in base agli umori dominanti nella società civile. Penso, infine, all’imbarazzo che persiste nei confronti di un passato che non andava rimosso o cancellato, ma rivisitato e superato laicamente, almeno prima di dedicarsi con frenesia ai cambi di nome. E prima che si allentassero i legami con quel mondo del lavoro subordinato che è sempre stato la ragion d’essere fondamentale di qualunque forza di sinistra. Un mondo in incessante e radicale trasformazione, certamente, ma non in via di dissolvimento dopo il crollo del comunismo sovietico.

Ecco perché, oggi, ricordo Di Vittorio. Perché, con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, del sindacato come soggetto politico, ha saputo indicare una prospettiva riformatrice in cui proposta e iniziativa di massa erano unite da un nesso inscindibile, capace di vagliare la validità e la coerenza di ogni singola scelta politica in un processo democratico che sfuggisse alle insidie del trasformismo, del leaderismo e del consenso passivo verso i “capi”. L’autocritica seguita alla sconfitta della Fiom alla Fiat nel 1955 ne è una testimonianza limpida. “Anche se la colpa è al 99% del padrone, se c’è un 1% che ci riguarda – disse al Direttivo della Cgil – è su questo che io voglio lavorare”. E quell’1% non era piccola cosa. Si trattava di riappropriarsi dei problemi della condizione operaia anche attraverso nuove forme di democrazia e rappresentanza sindacale.

Questa linea si affermò dopo uno scontro aspro che investì l’insieme del gruppo dirigente della Cgil, incontrando l’opposizione più dura in Lombardia, in alcune zone del Mezzogiorno e nella Fiom nazionale, alla cui direzione subentrarono Agostino Novella e Vittorio Foa. E si affermò nonostante l’ostilità manifesta del gruppo dirigente del Pci, diffidente nei confronti di una svolta che sostanzialmente sconfessava la sua posizione ufficiale. Posizione che attribuiva la sconfitta alla Fiat all’offensiva padronale e alla debolezza delle strutture politiche e sindacali di Torino.

Il 1956
Il dissenso tra Di Vittorio e Togliatti esplose in tutta la sua crudezza con i “fatti di Budapest” del 1956, come pudicamente vengono ancora chiamati. Su quel dissenso e su quei fatti sono stati versati fiumi di inchiostro. Anch’io ho cercato di darne una testimonianza diretta in uno scritto che, insieme a un ampio saggio di Adriano Guerra, è stato pubblicato alcuni anni fa (Di Vittorio e l’ombra di Stalin, Roma, Ediesse, 1997, ndr). Ne riprendo solo alcuni passaggi. La posizione critica assunta dalla Cgil nei confronti dei “fatti di Poznan”, dove i lavoratori polacchi in sciopero subirono una brutale repressione poliziesca (giugno 1956). Era la prima clamorosa prova della frattura tra potere e società apertasi nel “socialismo realizzato”. Il Pci e la sinistra italiana tacquero. La Federazione sindacale mondiale (Fsm) cercò di isolare la Cgil dai sindacati parastatali dei paesi del blocco sovietico. Solo il nuovo sindacato polacco ringraziò Di Vittorio e la Cgil per aver difeso le ragioni della protesta operaia. La ferma condanna (condivisa sia da Di Vittorio che da Fernando Santi) dell’intervento armato dell’Urss nella capitale ungherese: “La Segreteria della Cgil di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria (…) ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari” (documento del 26 ottobre 1956).

L’attacco a Di Vittorio da parte della Direzione del Pci, e l’aggressione faziosa, in particolare, di Giorgio Amendola, Gian Carlo Pajetta, Paolo Bufalini e Mario Alicata. Solo Luigi Longo si distinse per la sua volontà di dialogo. E la figura di Longo va profondamente riconsiderata, contro molte caricature che ne sono state fatte. Penso alla sua analisi lucida e rispettosa dell’esperienza e dell’eredità togliattiana, che però non ne ignorava i limiti e le contraddizioni; ai primi contatti avviati (attraverso Giorgio Napolitano) con la Spd di Willy Brandt; all’apertura di un dialogo con le forze di sinistra che combattevano lo stalinismo (che andrà avanti fino alla partecipazione “autorizzata” – mia e di Rosario Villari – al Convegno internazionale di Venezia sull’opposizione nei paesi dell’est, promosso dal Manifesto nei giorni immediatamente precedenti la cosiddetta “Biennale del dissenso” del novembre 1977. Partecipazione bollata da Armando Cossutta come antisovietica…).

L’attacco alla Cgil (che si sviluppò in tutte le sezioni del Pci), per riprendere il filo del discorso, vide il suo culmine in una lettera di Togliatti, nella quale informava il Comitato centrale del Pcus dell’esistenza nel Pci di “gruppi” che sostenevano l’insurrezione di Budapest. Nella lettera, inoltre, si sottolineava che tali gruppi esigevano che l’intera direzione del partito venisse sostituita, con Di Vittorio nuovo segretario. Questa denuncia di carattere delatorio (nessun gruppo, come Togliatti sapeva bene, aveva avanzato la candidatura di Di Vittorio alla segreteria del Pci né Di Vittorio l’avrebbe mai avallata), tendeva evidentemente a delegittimare il leader della Cgil fra i sovietici e, attraverso il loro intervento, nella Fsm. La successiva dichiarazione di Di Vittorio (5 novembre 1956), volta a ridurre l’area del conflitto con Togliatti, ribadì comunque la validità della presa di posizione della segreteria confederale sui fatti d’Ungheria. E riaffermò la natura autonoma e unitaria della Cgil (proprio mentre si profilava una rottura dei rapporti fra Pci e Psi), e il suo diritto a esprimersi – al pari dei partiti – sulla tragedia che incombeva sul movimento comunista.

Bisognerà attendere qualche decennio per l’ammissione di quella tragedia da parte del Pci, prima con un’intervista ad Alessandro Natta di Ugo Baduel su l’Unità (ottobre 1986), e successivamente con la partecipazione di Piero Fassino ai funerali simbolici di Imre Nagy a Parigi. La Cgil, in ogni caso, ne tirò tutte le conseguenze. Innanzitutto rompendo con i sindacati di regime ungheresi, poi – constatata l’irriformabilità della Fsm – scegliendo la strada dell’autonomia. Una strada che porterà all’avvio di rapporti sistematici con gli esponenti dell’opposizione in diversi paesi dell’orbita sovietica, fino all’aperto sostegno dato a Solidarnosc (movimento pur discutibile e complesso) ben prima del colpo di stato del generale Jaruzelski. La rottura operata dalla Cgil nel 1956, tuttavia, non fu un fulmine a ciel sereno.

Essa maturò dopo un lungo processo d’incubazione, scandito da una serie di altri fatti: le lotte per il Piano del lavoro; il programma di riforme elaborate anche mediante un confronto vivo con settori importanti della cultura economica e sociale italiana; il grande e articolato movimento di massa nelle campagne; gli scioperi a rovescio per ottenere la costruzione di nuove centrali elettriche nel Sud; il rilancio dell’azione rivendicativa contro le forme più odiose di sfruttamento e di limitazione della libertà sindacale nell’industria del Nord; la battaglia per imporre una politica di riconversione dell’industria bellica. Insomma: un enorme patrimonio programmatico e rivendicativo, che rispecchiava l’autonomia – anche culturale – raggiunta dalla Cgil nel corso degli anni cinquanta.

Una tensione progettuale e una capacità di lotta che mettevano oggettivamente in questione il monopolio dei partiti della sinistra non solo sulla politica internazionale, ma anche sulla politica economica e sul grande tema dei diritti individuali. Penso, ancora, alla lungimiranza di Di Vittorio quando lanciò il grande obiettivo dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Penso al dibattito sul “Piano Vanoni” (concepito come risposta al Piano del lavoro): occasione di un altro attacco del Pci all’approccio critico ma costruttivo della Cgil (Amendola se ne lamentò fortemente sia al Comitato centrale del partito sia in Parlamento), volto sempre alla ricerca di un interlocutore, fuori da una logica di opposizione subalterna. Lo stesso avvenne durante il confronto, duro ma dialogante, con Pietro Campilli, presidente della Cassa per il Mezzogiorno. Per non parlare delle divergenze sul “Piano Pieraccini”, che aveva tra i suoi ispiratori intellettuali del rango di Giorgio Ruffolo, su cui i deputati sindacalisti della Cgil si astennero, nonostante il voto contrario del Pci. Mentre nel 1970 fu il Pci ad astenersi sullo Statuto dei diritti dei lavoratori, che, su impulso di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, sanzionava con una legge dello Stato le conquiste dell’“autunno caldo”.

Ora, quali sono state le ragioni di fondo – politiche e culturali – alla base di questo rapporto conflittuale tra la Cgil e il Pci, fra un grande leader sindacale come Di Vittorio e un grande leader politico come Togliatti, protagonista della costruzione della democrazia italiana e dell’inclusione – nel suo alveo – delle classi lavoratrici? Un peso notevole, a mio avviso, lo hanno sicuramente avuto preoccupazioni di natura tattica, per cui ogni presunta “deviazione collaborazionista” della Cgil andava contrastata, in quanto rischiava di incrinare l’assunto secondo cui senza il Pci l’Italia non poteva essere governata. Ma il motivo essenziale, come già accennato, ha le sue radici in un retroterra ideologico e teorico che risale agli albori del movimento socialista. Sta in quel corpus dottrinario della seconda e terza Internazionale che stabiliva una naturale – e rigida – divisione dei compiti fra sindacato e partito. Fra il sindacato – braccio del movimento sociale, e il partito – avanguardia (dei “colti”) che interpreta i veri bisogni dei lavoratori, anche quando essi non ne hanno piena coscienza (la rude razza pagana che sa soltanto chiedere più soldi e se ne infischia dell’assetto istituzionale dell’impresa, della società e dello Stato).

È vero che all’VIII Congresso del Pci la formula del sindacato come “cinghia di trasmissione” del partito fu formalmente bandita. Ma certo non fu bandito il principio del primato del partito nei confronti di un sindacato visto – nella migliore delle ipotesi – come apprendistato della politica, quasi ontologicamente inadatto a rappresentare un interesse generale. E sto parlando di un sindacato, la Cgil, che è stato un caso unico in Europa: una confederazione di categorie e di Camere del lavoro.

Sono questi dogmi che hanno reso i partiti sempre più delle organizzazioni autoreferenziali, e che, attraverso la cosiddetta “delega salariale” al sindacato, li hanno allontanati da un’indagine viva e profonda dei mutamenti della società civile, indispensabile per ogni strategia politica.

Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva obiettivamente il sindacalismo confederale in una dimensione politica: le riforme di struttura, le libertà e i diritti del lavoro, l’ampliamento della rappresentanza ai disoccupati e ai sottoccupati. Sono dunque inaccettabili le vulgate che lo relegano nella cerchia dei capipopolo e dei tribuni dall’oratoria trascinante, o che vedono in lui soltanto il grande bracciante autodidatta, ignorando la sua statura – politica e culturale – di grande riformatore, affermatasi quando il Pci era ancora assai lontano dal percepire l’esperienza catastrofica del “socialismo reale”.

Per un rinnovamento democratico (veramente democratico) delle forze socialiste, allora, occorre anche combattere questa mummificazione della figura di Di Vittorio e, facendo tesoro della sua lezione, occorre contrastare con fermezza tutte quelle derive culturali che tendono a riproporre una separazione concettuale tra lotta sociale e sedicente “vera politica”. Questa separazione ha avuto e ha tuttora delle implicazioni rilevanti per la stessa autonomia sindacale, su cui ha pesato, qualche volta drammaticamente, la gerarchia politica e culturale che i partiti hanno sempre teso a esercitare sulle scelte e sulla condotta del sindacato. Lo testimonia anche una lettura attenta dei giornali di sinistra degli ultimi tre decenni, da cui si evince una vistosa divaricazione fra la cronaca politica e le lotte sociali e del lavoro. Un dato che rispecchia un collegamento fra partiti e società segnato da una forte sottovalutazione degli specifici e mutevoli contenuti del conflitto sociale, e delle implicazioni che essi possono avere sulla configurazione della stessa forma-partito.

Si rifletta, in proposito, sulla parabola delle vecchie sezioni di massa, strutture separate dal resto dell’organizzazione del partito operaio, con il compito di seguire indifferentemente sindacato, cooperazione e artigianato. Senza dimenticare, inoltre, che la pretesa di guidare politicamente (ancorché “in ultima istanza”) le lotte sociali prescindendo dalle loro concrete finalità, e prescindendo dalla forza come dalle forme di rappresentanza del sindacato, è stata utilizzata come un formidabile pretesto dai movimenti extraparlamentari e dai gruppi estremisti per delegittimare il sindacalismo confederale, e tentare di ricacciarlo nel tunnel della disgregazione corporativa e del ribellismo sociale. Si rifletta, infine, su un paradosso, attestato dalla stessa letteratura sulla storia del movimento operaio italiano: mentre nei paesi anglosassoni e in Francia, dove esiste ancora una robusta tradizione corporativa e un rapporto subordinato del sindacato con la politica, la letteratura sul movimento operaio non conosce, in generale, una scissione fra cultura espressa dai movimenti sociali e politologia delle élites, in Italia, nell’Italia delle cooperative e delle Camere del lavoro, questa scissione è assai marcata.

E così, mentre abbiamo una letteratura sulla storia del movimento sindacale (soprattutto della Cgil) di altissimo livello, abbiamo una letteratura sulla storia dei partiti che ha adottato parametri e spettri di analisi molto diversi, che hanno fondamentalmente trascurato l’impatto delle lotte sociali (e dei loro contenuti) sul sistema politico e sulla vita delle istituzioni. Due storiografie parallele che non si incontrano mai e che rispecchiano una cultura divisa. In conclusione, occorre riconsiderare la storia della Cgil di Di Vittorio dal 1945 ad oggi sotto un duplice punto di vista: quello dell’impegno per la ricostruzione, faticosa e contrastata, di un sindacalismo non corporativo, non subordinato ai partiti ma capace di dialogare con loro in ragione della sua autonomia politica e culturale; e quello dell’impegno per la piena affermazione del valore dell’unità sindacale, nella consapevolezza della portata che il processo unitario può avere per lo sviluppo della comunità nazionale e per la difesa creativa della Costituzione repubblicana. Questo vuol dire rimettere Giuseppe Di Vittorio al suo posto nella storia politica e sociale dell’Italia.

 

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1 risposta a +++ ANTONIO MOSCATO, POZNAM E LA CRISI DEL SISTEMA SOVIETICO ++ ILARIA ROMEO, LO SCONTRO TRA DI VITTORIO E TOGLIATTI ++ BRUNO TRENTIN, LA LEZIONE DI DI VITTORIO, 12 OTTOBRE 2006 — fonti varie, tutti i link sotto

  1. Donatella scrive:

    Molto interessante questa analisi dei rapporti tra PCI e CGIL negli anni di Di Vittorio. Viene da pensare, anche se antistorico, come avrebbe potuto essere la Sinistra italiana, invece del disastro del 1989.

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