LE PERLE DI NEMO
repubblica del 12 ottobre 2019 –pag. 30
Modello per i nuovi partiti
Cercasi classe dirigente
di Emanuele Felice
i migranti della fine nell’Ottocento
gli anni Novanta dell’Ottocento
Sicilia
Non sarà l’uomo forte a salvare l’Italia. Crederlo è un’illusione, che da decenni ammalia e affascina la nostra società. Ma soprattutto è controproducente: perché i problemi del Paese sono gravi e radicati, dalla pubblica amministrazione alla giustizia, al Mezzogiorno, dall’istruzione e innovazione al sistema delle imprese, fino alle istituzioni e alla vita dei partiti. Richiedono un grande sforzo collettivo, una presa di coscienza che sappia ritrovarsi in una classe dirigente preparata e lungimirante, che poi si fa carico di soluzioni difficili. Tutto il contrario dell’opportunismo di breve periodo, che invece pervade larga parte della nostra politica sin dagli anni Ottanta (con qualche eccezione, fra cui la stagione dell’entrata nell’euro guidata da Prodi e da Ciampi). E che inesorabilmente accompagna il nostro declino.
D’accordo. Ma da dove viene fuori questa classe dirigente, come sperare di trovarla? Sappiamo che buoni livelli di istruzione, incentivi meritocratici e un alto senso dell’etica pubblica la favoriscono – doti di cui l’Italia scarseggia. Ma sappiamo pure che nessuna di queste è condizione necessaria, forse nemmeno sufficiente: la ricetta ha ancora qualche ingrediente misterioso, a giudicare dalla storia, o a guardare altri casi nel mondo.
Tant’è vero che finanche il nostro Paese, l’Italia, ha dato prova almeno un paio di volte di saperla trovare, la sua classe dirigente. E proprio grazie a questo è riuscito a risollevarsi dai suoi periodi più bui. Così fu negli anni Novanta dell’Ottocento, quando dopo lo scandalo della Banca romana e la sconfitta di Adua (e trent’anni di stagnazione) sembravamo destinati a rimanere nella periferia d’Europa, poveri e arretrati, sotto il tallone di un governo autoritario e corrotto. Venne fuori invece la classe dirigente della sinistra liberale, guidata da statisti del calibro di Zanardelli, Giolitti, Nitti: fu il nostro primo decollo industriale. Così sarà, di nuovo, dopo la Seconda guerra mondiale, quando i grandi partiti antifascisti e gli imprenditori privati e pubblici diedero vita al miracolo economico (che miracolo non fu, ovviamente, ma il risultato di precise scelte di personaggi di grande levatura, al governo come all’opposizione). Così è stato, infine, ma per un periodo troppo breve e tormentato, nella stagione di centrosinistra che seguì Tangentopoli, e che ha tentato di raddrizzare le storture degli anni Ottanta, cioè un modello di crescita fondato su debito pubblico, svalutazione e lassismo generalizzato. È possibile anche oggi uno scatto analogo, che tiri fuori il Paese dalle secche del declino? Non lo sappiamo, ma una cosa sembra assodata: non servono i partiti personali. Anzi, sono d’ostacolo. Questo non vuol dire che non ci vogliano leader, figure carismatiche. Ma devono essere alla testa di partiti contendibili, dove si discute (a partire da una visione condivisa) con regole chiare. Dove quel che conta è la lealtà, non certo la fedeltà. E dove quindi i dirigenti non siano yes men, ma persone selezionate in base al merito. E ancora: partiti in costante dialogo con i corpi intermedi, indispensabili in società complesse come la nostra. Nei partiti personali è invece il capo che decide, coadiuvato da fedelissimi: cerca un rapporto diretto con l’elettorato, e lo fa inevitabilmente con proposte semplici e di grande impatto mediatico. Ma che spesso proprio per questo non risolvono i problemi. Anzi li aggravano. Non è un caso che in quasi tutti i Paesi avanzati troviamo grandi partiti contendibili (anche quando hanno un leader forte). Come, in Italia, era e rimane il Pd. I partiti personali sono invece la norma nelle economie deboli, corrotte o in declino, dal Sud America alla Tunisia, alle repubbliche ex sovietiche. Non stupisce: favoriscono il populismo, oggettivamente, ne sono espressione; e il populismo rinsalda la via del declino. E non solo l’economia, ma anche la democrazia in quei Paesi è più fragile. Il paradosso è che tutto questo, in Italia, sembrano non capirlo proprio coloro che dicono di rifarsi alla cultura liberale (oggi Renzi, Calenda). Noi da che parte del mondo vogliamo stare?
QUALCHE NOTIZIA SULL’AUTORE DELL’ARTICOLO ::
Emanuele Felice (Lanciano, 4 gennaio 1977) è uno storico, economista e scrittore italiano.
Originario di Vasto, laureato in Economia all’Università di Bologna, ha conseguito il dottorato in Storia economica presso l’Università di Pisa e si è poi specializzato presso la London School of Economics, la Universitat Pompeu Fabra, la Harvard University.
Dal 2019 è professore ordinario di Politica economica presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara[1]. In passato ha insegnato nelle Università di Bologna, Università di Siena, Università Pablo de Olavide di Siviglia, Universitat Autònoma de Barcelona.
Nel 2015 e 2016 è stato editorialista per La Stampa, dal 2017 è editorialista per La Repubblica e L’Espresso.
Fra le sue opere più significative (tutte pubblicate da Il Mulino), figurano Perché il Sud è rimasto indietro (2013), Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (2015) e Storia economica della felicità (2017). Il libro Il Sud, l’Italia, l’Europa. Diario civile (2019), è una raccolta ragionata degli editoriali scritti dal 2014 al 2018 il cui tema centrale è il progressivo declino, in Italia, della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
Con il libro Storia economica della felicità (2017), Felice propone una lettura di lungo periodo sul rapporto fra sviluppo economico, etica e diritti umani. Nel recensirla, Sabino Cassese ha accostato quest’opera ai lavori di Max Weber, Jared Diamond e Yuval Harari.
Opere (parziale)
- Il Sud, l’Italia, l’Europa. Diario civile, il Mulino, 2019.
- Storia economica della felicità, il Mulino, 2017.
- Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, il Mulino, 2015.
- Perché il Sud è rimasto indietro, il Mulino, 2013.
- Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia, il Mulino, 2007.
( WIKIPEDIA )