GIULIANO ALUFFI, Il bello e il brutto di essere grassi. Uno storico racconta… IL VENERDI’ DI REPUBBLICA, 5 LUGLIO 2019 ++ IMMAGINI VARIE

 

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PHISICAL CULTURE, 1909

 

REPUBBLICA.IT / IL VENERDI’ / 5 LUGLIO 2019

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Particolare di una copertina della rivista Physical Culture del 1909

 

 

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UNA CLASSE DI CULTURA FISICA, INDIANA NORMAL SCHOOL OF PENNSYLVANIA-1909

 

 

 

 

il venerdì   Scienza

Il bello e il brutto di essere grassi

Uno storico racconta il rapporto con l’obesità in culture e tempi diversi: da segno di benessere a sintomo di stupidità da barzelletta. Invece, dicono i medici, c’è poco da ridere

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PHISICAL CULTURE, LA GINNASTICA DEGLI ORGANI

 

 

Falk, Benjamin J. (1853-1925) - Eugen Sandow (1867-1925).jpg

NEL 1894

 

EUGEN SANDOW (1867-1925), UN BODYBILDER TEDESCO

 

 

 

 

«Sono solo un tipo grassottello. È da quando sono nato che mi sottovalutano» spiegava Andy Ruiz in un’intervista su YouTube a fine maggio, pochi giorni prima dell’incontro di boxe nel quale ha messo al tappeto un gigante dal fisico scultoreo, Anthony Joshua, diventando campione mondiale dei pesi massimi. Pochi avrebbero scommesso su quell’esito, proprio per l’evidente differenza nel fisico dei due contendenti. Pregiudizi e cliché sull’obesità non sono però una novità della nostra epoca, così basata sulla visualità. Affondano invece le loro radici nella storia millenaria della civiltà, come mostra il saggio Fat: A Cultural History of the Stuff of Life (Grasso: una storia culturale della materia della vita, Reaktion Books) di Christopher Forth, docente di storia all’Università del Kansas.

 

 

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«Proprio i pugili sono un buon esempio di come nascano questi stereotipi» spiega Forth. «Nell’arte vasaria dell’antica Grecia erano gli unici atleti a essere raffigurati con la pancetta. E studi come quelli di Karl Grossschmidt della Medical University di Vienna, capaci di risalire dagli isotopi presenti nel collagene delle ossa dei gladiatori romani agli alimenti che questi avevano ingerito, rivela una dieta ricca di carboidrati, soprattutto orzo e legumi: ciò aumentava il grasso sottocutaneo, che nella lotta dava una protezione contro i colpi degli avversari». Siccome nell’antichità pugili e gladiatori non erano considerati come i più acuti tra gli uomini, nacque l’associazione – indebita – tra grasso corporeo e scarsa intelligenza. «Come se il grasso, oltre a isolare da pugni e fendenti, ottundesse anche la percezione del mondo». L’associazione si estendeva anche agli animali: «Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia del 78 d.C. scrive che quelli con un addome molto grande sono meno intelligenti dei più snelli» dice Forth. «Questo perché nelle società agricole gli animali grassi sono quelli messi all’ingrasso perché l’uomo se ne cibi. E la loro vita passiva non evoca il rispetto suscitato, per esempio, dai predatori selvatici».

 

LA DONNA DORMIENTE DELL’IPOGEO  DI HAL-SAFLIENI, MUSEO DI ARCHEOLOGIA, LA VALLETTA, MALTA

 

 

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L’IPOGEO HA–SAFLIENI–-jkb- – own image 

 

 

In altri casi però la grassezza era un vanto. Nelle camere funerarie sotto i templi costruiti a Malta tra il 3500 e il 2500 a.C, sono state trovate statuette – come la donna dormiente dell’Ipogeo di Hal-Saflieni – dalle fattezze assai rotonde, che secondo gli archeologi sottolineano sia lo status altolocato della persona sepolta sia il desiderio che questa abbia una vita felice nell’oltretomba, priva di ristrettezze alimentari. «Il grasso corporeo come indice di bellezza è tipico anche di certe zone dell’Africa: nel XIV secolo, a proposito delle donne della tribù nomade berbera dei Bardama, il grande viaggiatore marocchino Ibn Battuta scriveva: “Sono le donne più belle e hanno le figure più eleganti; sono bianche e molto grasse. Si cibano di latte e miglio”.

 

EDITORE RIZZOLI

 

 

La grassezza era status symbol anche tra gli indiani di alta casta, e questo, nel XIX secolo, risultava incomprensibile ai dominatori inglesi» sottolinea Forth. «Nello stesso periodo, e fino al Novecento, in Turchia le donne venivano sottoposte a cure ingrassanti per renderle più desiderabili secondo il canone di bellezza locale».

In Occidente invece già dall’Ottocento si inizia a inquadrare la pinguedine come un problema di salute. Con alcune esagerazioni: per il medico William Wadd, autore nel 1829 del trattato Comments on Corpulency, i bevitori obesi rischierebbero addirittura l’autocombustione, per un mix letale tra il grasso e l’alcol. «Nonostante la forzatura, questo è comunque uno dei segni del passaggio a una visione più scientifica: il corpo come una macchina che si alimenta bruciando grasso, e l’obesità come un problema fisico-meccanico, più che come un tratto connaturato all’individuo».

Nell’800 si inizia a studiare seriamente il metabolismo, vengono introdotte le tavole con l’altezza e il peso    e lo statistico Adolphe Quetelet introduce il concetto di rapporto tra peso e altezza che fu la base per la definizione – nel 1972 – del Bmi, l’indice di massa corporea (corrisponde al peso in chilogrammi diviso per il quadrato dell’altezza in metri. Un Bmi tra 25 e 30 indica sovrappeso, superiore a 30 obesità).

Se nella pittura cristiana della Controriforma il motivo del memento mori (ricordati che devi morire) consiste in un teschio ammonitore che fa capolino in lussureggianti nature morte, una copertina del 1909 di Physical Culture mostra un uomo assai in carne accompagnato dal testo «La malattia e una morte precoce sono in agguato in un grande stomaco». «Da “materia della vita” il grasso è ormai visto come “materia della morte”» osserva Forth. «Nel 1908 il medico inglese Caleb Saleeby scrive che le cellule del grasso sono “meno vive” delle altre, che il grasso non dovrebbe essere considerato un “tessuto vivente” e che l’uomo corpulento trascina con sé un mucchio di materia “morta”, che disturba il funzionamento della macchina del corpo». Nella prima metà del ‘900 gli scompensi dell’obesità vengono evidenziati anche dalla psicologia. «Lo stereotipo che i grassi siano persone più allegre delle altre viene smentito dalla psicoanalista tedesca Hilde Bruch: i suoi studi, rilanciati da riviste come Life, negli anni Quaranta e Cinquanta rivelano come il cibo spesso sia la compensazione per qualche privazione affettiva o frustrazione».

 

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La gabbia d’oro: L’enigma dell’anoressia mentale, traduzione di Lotte Dann Treves, Milano, Feltrinelli, 1983

 

 

Hilde Bruch (Dülken11 marzo 1904 – Houston15 dicembre 1984) è stata una psichiatra statunitense di origine tedesca, nota soprattutto per i suoi studi sull’obesità e sui disordini alimentari. Emigrata Negli Stati Uniti nel 1934, nel ’64 divenne docente di psichiatria al Naylor College of Medicine di Houston.

Libri, oltre La gabbia d’oro:

  • Non aver paura di tuo figlio, traduzione di Amina Pandolfi, Milano, Ferro, 1971
  • Patologia del comportamento alimentare: obesità, anoressia mentale e personalità, traduzione di Lotte Dann Treves, Milano, Feltrinelli, 1977
  • Apprendere la psicoterapia, traduzione di Marina Crespo, Torino, Boringhieri, 1979
  • Anoressia. Casi clinici, Milano, Cortina, 1988

 

Più tardi, nel 1976, si inizia a parlare di «epidemia di malattie cardiache» con l’obesità come causa principale in un articolo su The Times. Dieci anni dopo l’obesità viene segnalata come fattore di rischio per il diabete, e si prosegue fino a oggi con i richiami dell’Oms. Eppure, nonostante la consapevolezza odierna della serietà di questo problema, l’irrisione dell’obesità è ancora ubiqua e trasversale agli schieramenti ideologici. «Trump, che non è certo magro, ha più volte dileggiato in pubblico, per i loro presunti chili di troppo, sia politici nemici che persone dello spettacolo (come Kim Kardashian). E alcuni opinion maker e vignettisti democratici hanno fatto lo stesso, rappresentando l’elettore medio trumpiano come una persona ottusa e grassa» spiega Forth. «Forse il simbolo più evidente di come questo antichissimo stigma sia così difficile da estirpare è una campagna del 2009 degli animalisti della Peta (People for Ethical Treatment of Animals), che ritrae una donna obesa in bikini sulla spiaggia accanto alla scritta: “Salvate le balene. Perdete il grasso, diventate vegetariani”».

 

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RAOUL MILLE

 

 

Una risposta meno drastica dei pugni di Andy Ruiz l’ha data lo scrittore francese Raoul Mille: nella sua autobiografia Gros et heureux de l’être (grasso e felice di esserlo) scrisse «Noi obesi sappiamo di essere mortali, sono gli altri che immaginano di non esserlo».

 

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1 risposta a GIULIANO ALUFFI, Il bello e il brutto di essere grassi. Uno storico racconta… IL VENERDI’ DI REPUBBLICA, 5 LUGLIO 2019 ++ IMMAGINI VARIE

  1. Donatella scrive:

    Un vecchio proverbio diceva:”Grassezza è bellezza”. Mai fidarsi dei proverbi.

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