LETTURA DE IL CORRIERE — 2012
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Vincenzo Trione
Questa è l’avventura di Larry Gagosian, dilettante di talento. Per tutti, è «lo squalo». Tra le figure più influenti nel sistema dell’arte contemporanea. L’unico gallerista davvero globale, immerso nella filosofia del mainstream. Agisce come il proprietario di una multinazionale. La sua galleria ha tredici sedi, distribuite in nove città: New York, Los Angeles, Londra, Roma, Atene, Ginevra, Hong Kong, Parigi, Rio de Janeiro. Vi lavorano 150 dipendenti. Il prezzo totale per l’affitto dei diversi locali arriverebbe a circa 9 milioni di euro. Le vendite annuali ammonterebbero a 884 milioni di euro (pari a 16milioni di euro a settimana). Gli artisti della scuderia Gagosian sono 108 (77 sono direttamente «controllati»): e vanno da Picasso a de Kooning, da Bacon a Warhol, da Baselitz a West, fino a Hirst e Koons.
Dietro questo impero, si nasconde una storia tipicamente americana. Una vicenda da self-made man. Che ha molto di cinematografico: quasi il soggetto di un film di formazione. Siamo al cospetto di un personaggio che somiglia al John Wayne de La grande conquista, al Michael Douglas di Wall Street e al Tony Curtis di Piombo rovente. Figlio di armeni immigrati negli Usa (il padre era un ragioniere, la madre un’attrice diventata poi casalinga), Gagosian nasce a Los Angeles nel 1945. Nel 1969 si laurea in letteratura inglese presso la Ucla. Ancora studente, in cinque minuti di cerimonia, a Las Vegas sposa Ellen Gwyn Garside, da cui si separa dopo 16 giorni. Proprio davanti al campus dell’università della California inizia a vendere manifesti: li acquista per due dollari, li incornicia in profili di alluminio, e li rivende per 15. Secondo alcune leggende — sempre smentite — avrebbe trattato anche poster erotici. Nel 1976, si trasferisce in un ex ristorante nel complesso di Broxton, dove «propone» stampe di Diane Arbus e di Lee Friedländer. Nel 1978, apre la sua prima galleria, in West Hollywood, in cui presenta giovani californiani (Clemins, Burder) e nuove voci della scena newyorkese (Fischl, Sherman, Basquiat). Nello stesso anno, compra un loft a New York, sulla West Broadway, non lontano dalla prestigiosa galleria di Leo Castelli. Per conto di facoltosi collezionisti, comincia a frequentare le aste e diventa famoso come «Go-Go», giocando sempre al rialzo. Dalla metà degli anni Ottanta, apre a Manhattan, sulla West 23rd Street, uno spazio espositivo. Da allora in poi, è un’escalation segnata da successi. E da imbrogli: nel 2003, dovrà pagare 4 milioni di dollari per evasione fiscale.
La vita privata dello «squalo» è avvolta nel mistero. Tante dicerie, poche certezze, nessuna biografia ufficiale. Ha pochi amici. Tende a non rivelarsi: non rilascia interviste; non si reca quasi mai alle inaugurazioni delle sue mostre; non va alle fiere. Con abilità, ha alimentato tante illazioni, suscitando reazioni contrastanti: rifiuto e ammirazione. Alcuni lo giudicano geniale. Altri, calcolatore. Altri ancora, anaffettivo e asessuato. Secondo il magnate Eli Broad, «è una persona incredibile, ha grande energia e un occhio infallibile». Una dealer ha affermato: «È un commerciante unico, prodigioso nell’assimilare informazioni, ma non sa neanche prepararsi da solo una tazza di caffè». E una sua ex fidanzata: «Per lui, non c’è niente al di fuori del lavoro. Considera il suo mestiere qualcosa di religioso».
Determinante, per Gagosian, è stata la frequentazione di Leo Castelli, triestino trapiantato a New York, mitico gallerista, appassionato sostenitore della Pop Art. Non un mero mercante, ma un compagno di strada per gli artisti, che ha saputo cogliere le tendenze del presente, senza inseguire una rigida coerenza. È riuscito a saldare pragmatismo imprenditoriale e curiosità per ciò che non è ancora strutturato. «Il suo talento si può riassumere in due parole: intuizione e sensibilità», ha scritto Gillo Dorfles.
Gagosian si è formato accanto a Castelli, che gli ha fatto conoscere Charles Saatchi e Samuel Irving Newhouse. Ma il suo approccio è radicalmente diverso. Ha poco in comune con i galleristi europei «classici»: da Kahnweiler ad Amelio, passando proprio per Castelli. E non si ispira neanche amecenati statunitensi come Paul Getty e Peggy Guggenheim. Piuttosto, ha affinità con neo-potenti come Charles Saatchi, François Pinault e Bernard Arnault, a proposito dei quali il critico del «New York Magazine», Jerry Saltz, ha scritto: «Sono i domatori del mondo dell’arte, showmen che fanno parte dello spettacolo», artefici di assurde follie finanziarie.
Le principali qualità di Gagosian: fiuto, cinismo, disinvoltura. Un giocatore di poker e, insieme, un tycoon. Che non mira a coniugare interesse per i maestri e ricerca del nuovo. Ma tende a concentrarsi sul già-visto, sulle celebrities. La sua strategia potrebbe essere accostata a quella di Florentino Pérez, il presidente del Real Madrid, impegnato ad acquistare sin dagli anni Ottanta i migliori calciatori in giro, in modo da dar vita a un dream team. Anche Gagosian «ingaggia» soprattutto autori consolidati. E ne gonfia le quotazioni. Ha una rara capacità nel «dilatare» al massimo il valore delle opere: ha la consuetudine di ricaricare di circa il 50% i prezzi fissati da un artista, nel momento in cui accetta di rappresentarlo.
Potrebbe trattare con la medesima furbizia un quadro di Picasso, una scultura di Hirst o una collezione di moda. L’arte, per lui, è solo una questione di business. Un gioco di affari, un fatto finanziario: un modo per speculare sul narcisismo dei neo-ricchi. Del resto, Gagosian non ha dubbi: «Contrariamente a quanto si dice, nel mondo ci sono ancora molti soldi che circolano».
Per lui, contano poco le visite negli atelier e il dialogo sulle questioni relative alla qualità dei quadri e delle sculture. Nella maggior parte dei casi, gli artisti vengono seguiti da una squadra di direttori attivi nelle varie filiali della galleria, che curano scelte e contrattazioni. Alcuni hanno sostenuto che Gagosian spingerebbe le «sue» star a produrre in maniera industriale, per soddisfare richieste pressanti. La replica è stata netta: «Non posso immaginare che una galleria seria chieda a un artista di realizzare più opere per coprirne i costi. Noi non lo facciamo. La nostra redditività è andata di pari passo con la nostra espansione».
In queste parole, è il ritratto del più spietato e arrogante protagonista del mercato dell’arte contemporanea. Il mercato che va inteso come una complessa miscela di consumismo, spettacolarità e vanità. Territorio abitato da stupidità e cupidigia, competenza e insicurezza, feticismo e ignoranza. Regno frequentato da «devoti» che tendono ad anteporre il giudizio collettivo alla riflessione individuale: e attribuiscono maggiore importanza alle quotazioni delle opere che al giudizio critico. Il mercato, potremmo dire ancora con Saltz, è come «un vortice di sogni a uso e consumo di privati, una droga (…) la cui assuefazione rasenta la tossicodipendenza (…), una tempesta programmata fatta di promozioni e speculazioni, un misto tra una tratta di schiavi, un’agenzia di borsa, una discoteca, un teatro e un bordello». Un organismo autoreplicante: «Appena si rende conto che il lavoro di un artista vende, corre a chiedergliene di più». È «come una macchina fotografica che crede a tutto quello che le si para davanti».
Come pochi, Gagosian conosce le regole di questo sistema nel quale confluiscono calcolo e imprevedibilità, e ne sa orientare opzioni e parabole. È il guru di un’intera classe di collezionisti iper-ricchi. Al punto che l’art adviser Lisa Schiff ha detto di lui: «È la persona che sta condizionando il cambiamento in atto. Nell’arte, la sua influenza è pari a quella di Internet».
È davvero così? Forse, sarebbe meglio abbandonare questa enfasi, per interpretare il percorso di Gagosian come la prosecuzione di una tradizione fino in fondo statunitense. È l’erede dei padri fondatori dei musei americani. Macellai autodidatti e baroni delle ferrovie, i quali, guidati da esperti consiglieri, forti di importanti patrimoni, nel XIX secolo, costruirono dal niente le prime strutture espositive museali statunitensi.
Come loro, Gagosian, pur privo di finezza culturale, è dotato di uno straordinario fiuto da broker. E, tuttavia, è animato anche da un desiderio segreto. Concepisce le diverse sedi della sua galleria come le stanze di una pinacoteca liquida, estesa in tre continenti (America, Europa, Asia), senza confini geografici. Una pinacoteca dilatata, che si sviluppa, nel suo insieme, per circa 14.200 metri quadrati: più ampia addirittura della Tate Modern di Londra (13.500). Gagosian sembra comportarsi come un direttore di museo, che, in una fase di crisi economica, sceglie di investire sontuosi budget per organizzare serie retrospettive dedicate a maestri del Novecento: si pensi alle mostre newyorkesi su Picasso e su Fontana (rispettivamente curate da John Richardson e Germano Celant). Il suo desiderio proibito: acquistare Les demoiselles d’Avignon di Picasso. La sua ambizione: dar vita a un «MoMasian». Il MoMa di Larry Gagosian, dilettante di talento.
Vincenzo Trione