1916 Donna reclinata in un sodà
Chaïm Soutine, nato Chaim Solomonovič Sutin (in russo: Хаим Соломонович Сутин?; Smiloviči, un piccolo villaggio della Bielorussia, 1893 – Parigi, 1943), è stato un pittore russo naturalizzato francese.
The Road up the Hill c.1924 — Strada sulla collina, 1924
Cagnes, paesaggio con albero- 1925/26
veduta di Ceret, 1920/1
After working for many years in Paris, Soutine produced a series of works in towns in the South of France. The subject and colouring of this work are not far from the calm analysis of landscape undertaken by Cézanne. However, Soutine’s handling of paint conveys an agitated, frenetic quality, suggesting a confrontation with the earthy forces of nature. The town reels under the painter’s energy and appears to rear up over us.
Dopo aver lavorato molti anni a Parigi, Soutine fece una serie di opere nelle città del sud della Francia. Il soggetto e i colori del suoi lavori non sono lontani dall’analisi calma dei paesaggi di Cézanne. Tuttavia Soutine mette nelle sue opere una qualità agitata, frenetica che suggerisce un confronto con le forze terrestri della natura. La città si sfalda sotto l’energia del pittore e sembra vorticare su di noi.
Gallery label, September 2004
https://www.tate.org.uk/art/artworks/soutine-landscape-at-ceret-t00692
Il piccolo pasticcere, 1922-3, olio su tela, 73 x 54 cm, Musée de l’Orangerie, Paris
Il convento dei Cappuccini a Ceret, 1920 circa, olio su tela, 54,8 x 71,7 cm.
Scolaro in blu, 1937
Autoritratto con la barba, 1917
Sobborgo di Parigi. 1919
Platani a Crepet, 1920
Desolazione, 1924
Gallina con pomodori, 1924
La bambina con la bambola, 1925
Ritratto dello scultore Oscar Miestchaninoff, 1923-24
Donna in rosso, 1923-24
Il tacchino, 1925
Il musicista, 1927
Il cameriere, 1927 circa
Il fattorino, 1927
Il cameriere, 1927
Il pasticcere, 1927
Ragazzina in rosa, 1928
“Due bambini sulla strada” di Chaim Soutine (1942, Ginevra, Musée d’Art et Histoire)
“Due bambini sulla strada”
Lungo la strada ripida che, come un fiume, taglia verticalmente i campi e spacca l’immagine, due bambini avanzano. Il maschietto, con la camicia scura e i calzoncini corti, indossa la divisa della scuola. La bambina bionda con la veste azzurra, più piccola, il volto ridotto a una maschera indecifrabile dal brutale impasto del colore, regge un cestino – col pranzo, forse. Lui la tiene per mano – premuroso, come un fratello maggiore. Alle loro spalle una foresta, filari di pioppi, macchie che devono essere le case del villaggio, la chiesa. E la striscia azzurra del cielo, curvo sulla linea dell’orizzonte. Sulla sinistra, il campo rosso ruggine, nudo e inospitale, sembra arato da poco. È autunno. Nuvole bianche si addensano. E neanche un adulto che possa prendersi cura di loro.
Pecora davanti ad una staccionata, cortesia Jewish Museum
Nel 1942, in un paesino dell’Indre e Loira, a 48 anni Chaïm Soutine torna a dipingere bambini. Con tenerezza inedita e la sensibilità di sempre. È un pittore famoso: negli anni Trenta è stato il più apprezzato esponente della Scuola di Parigi. I collezionisti si contendevano i suoi quadri. Ma gli abitanti di Champigny sur Veude, e i bambini che posano per lui, non devono saperlo. Soutine, straniero ed ebreo, si è procurato documenti falsi e vive nascosto sotto un altro nome. È tornato al punto di partenza, come quando nel 1913 sbarcò a Parigi senza un soldo in tasca, senza conoscere il francese e con l’indirizzo dell’amico pittore Krémègne a Montparnasse come unica bussola: è di nuovo senza nome, senza casa, senza patria.
due maiali, 1940 ca.
L’innocenza come atto d’accusa
Con coerenza, variando senza ripetersi, Soutine ha dipinto soltanto paesaggi, nature morte e ritratti. Fra questi, i più toccanti sono di adolescenti e bambini. Incontrati nei retrobottega, nelle cucine o negli ascensori dei grandi alberghi in cui alloggiava dal 1925, quando il successo gli portò denaro e benessere. Pasticcieri, cuochi, fattorini, stallieri, camerieri: tutti con l’uniforme o la livrea, come fossero in maschera. Ma ritraendoli, Soutine restituisce loro l’identità, l’unicità, la personalità. Il Valletto di Chez Maxim’s con la sgargiante divisa rossa, i Chierichetti impacciati prima della messa. Ha dipinto anche bambine – che artigliano la bambola, frapponendola fra sé e gli adulti, come per difendersi. O si agitano sulla sedia, nell’abituccio della festa, col colletto rosso. Ragazzini tristi, macilenti, ossuti, e però colmi di una grazia scontrosa. Che era la sua.
Ritratto di Charlot, 1935-37
Anche Soutine non ebbe mai un’infanzia: lasciò adolescente il suo shtetl per studiare a Minsk, e poi a Vilna, e infine immigrò in Francia col sogno di diventare pittore e dimenticare i pogrom zaristi, la miseria di una famiglia troppo numerosa e la proibizione di rappresentare la figura umana che la Bibbia impone agli ebrei. Né ebbe figli attraverso i quali avrebbe potuto ritrovarla. Ma forse proprio per questo rimase sempre un ragazzo.
Donna distesa, 1940 ca.
Candido e feroce, dai primi anni parigini – quando abitava alla Cité Falguière, fetido falansterio d’affitto alla periferia di Parigi dove si accalcavano gli artisti stranieri e dove, come diceva Chagall, “o si diventa famosi o si muore” – sino alla fine, esibì l’intransigente spavalderia degli adolescenti: non patteggiava con la realtà. Studiava i capolavori dei maestri al Louvre (Rembrandt, Chardin, Courbet) e si abbandonava all’urgenza di dipingere, senza disegno, senza forma, con immediatezza, quasi con violenza, come trascrivesse coi colori la propria interiorità. Di tutto il resto – regole della società, mode artistiche, strategie – non si curò mai. Agli eterni fanciulli non è dato crescere né invecchiare.
Donna che legge, 1940
Nel quadro i due bambini sono immersi nella natura – quasi perduti in essa. Per Soutine, si trattava di un ritorno al paesaggio. Negli anni durissimi (1919-22) che aveva vissuto, solo, a Céret, sui Pirenei, dove lo aveva spedito il suo mercante d’arte, aveva creato una serie di quadri allucinati, con case strapazzate dal vento. Lo ossessionavano i villaggi – e le strade. Che salgono, o scendono, bruscamente, senza condurre in nessun luogo. In quei paesaggi caotici non comparivano mai esseri umani. Perché questi potessero abitare il mondo, Soutine era dovuto passare dagli animali. Morti. Aveva ritratto aringhe stoppose, mante antropomorfe, polli spennati e strozzati, appesi per il becco o per le zampe a un uncino sul muro o deposti ritualmente nei piatti; buoi squartati e crocifissi, conigli scuoiati, tacchini, anatre, galline, fagiani. Da povero, li affittava e li restituiva senza neanche mangiarli. Da ricco, li sceglieva nei mattatoi o nelle fattorie. Ma solo quando lasciò Parigi ripudiò la disperata bellezza della morte e cominciò a ritrarli vivi. I quadri dei suoi ultimi anni sono pieni di vita.
In essi non vi è traccia della paura e della guerra.
Le Grand Arbre, 1942, huile sur toile (99 × 75 cm), musée d’art de São Paulo, Brésil.
Né del dolore – l’ulcera che lo tormentava dalla giovinezza e ora, degenerata in cancro, lo stava uccidendo. L’agitazione febbrile che aveva terremotato i suoi quadri era placata: braccato e nascosto, dipingeva paesaggi e bambini – soli davanti a una staccionata, o fra le braccia della madre, sulla strada mentre tornano da scuola. A questo soggetto dedicò vari quadri.
Amedeo Modigliani, ritratto di Soutine
Due bambini sulla strada è l’ultimo. Soutine lo dipinse nel 1942: non gli restava neanche un anno da vivere. L’Europa era occupata quasi interamente dalle armate naziste o loro alleate, vittoriose anche in Africa e in Russia. Non si intravedeva via d’uscita. Per molti artisti, la guerra è privazione di voce. Mutilazione, senso di inutilità, sgomento, silenzio. Altri riescono ad astrarsi dal mondo, trovano nei colori la salvezza. Soutine si rifugia nei bambini. Il piccolo formato del quadro esige concentrazione e chiarezza. La tavolozza non ha lo splendore cromatico di un tempo, e l’ammirato cinabro incandescente, il rosso sangue di Soutine, è spento, quasi bruciato. Il verde polveroso, il giallo acido. Ma è sempre il colore a definire la forma, grumi di materia spessa, una crosta quasi carnosa. Alla fine, resta solo la terra spoglia, un paesaggio di alberi e vento, la solitudine della campagna: i due bambini e il mondo esterno che li minaccia. Tenendosi per mano, scendono giù per la strada che esce dal villaggio. Non si voltano indietro. Con malinconia e fiducia si lasciano alle spalle l’orizzonte – il futuro, forse. E vengono verso di noi. La loro innocenza ci accusa.
Biografia
Soutine Chaïm – Pittore
(Lituania 1894 – Parigi 1943).
Decimo di undici figli di un sarto di origine ebrea, Chaïm , che già da bambino ama disegnare scontrandosi con la religione ebraica che vieta di raffigurare persone, ritrae un macellaio del paese.
Per questo Chaïm viene picchiato con eccessiva violenza dal figlio di questo che viene condannato ad un risarcimento in denaro.
Con il piccolo gruzzolo di 25 rubli del risarcimento, il pittore in erba lascia la città natale di Smilovitchi e si trasferisce a Minsk e, poi, a Vilnius dove studia all’Accademia.
Quando Chaïm Soutine arrivò a Parigi, aveva vent’anni: un suo connazionale, che si era trasferito là l’anno prima, lo aveva invitato.
Le bâtiment octogonal central de la Ruche, photographié en 1918.
A Parigi vive a La Ruche, un insieme di case vecchie e di baracche rifugio di artisti squattrinati.
Soutine fra gli altri conosce Modigliani con cui stringerà una grande amicizia e che diventerà il suo compagno di bevute.Modigliani nel 1916 gli farà un ritratto.
Per dieci anni, fino al 1923, Soutine fa una vita miserabile, soffre il freddo e la fame, indossa vestiti lisi, porta un cappellaccio ed un cappotto più grande di lui.
Il pittore era una persona piuttosto rozza, un vero “selvaggio”, per questo non gode di molte simpatie neanche fra gli artisti.
“Offrire un pasto a Soutine è il regalo più bello che gli si possa fare”, scrive Dan Franck nel suo Bohèmes .
A partire dal 1918 Soutine alternò il soggiorno a Parigi a dei viaggi nel territorio francese, soprattutto nelle regioni mediterranee e nei Pirenei.
Quando si trova a Parigi dipinge e studia i quadri dei pittori esposti al Louvre, dove passa giornate intere.
E’ affascinato da Rembrandt, Velázquez e Courbet dai quali assimilerà l’uso della luce, imiterà lo stile e riprodurrà, a suo modo, gli stessi soggetti.
Soutine ama dipinge ritratti, nature morte, paesaggi, ma solo raramente Chaïm riesce a vendere qualcosa e se qualcuno non apprezza abbastanza i suoi quadri, li distrugge.
Temendo orgogliosamente di essere confuso con altri, non partecipa mai a collettive, privandosi così delle occasioni per farsi conoscere.
Durante i soggiorni a Céret e a Cagnes (1919-22) Soutine Chaïm si dedica al paesaggio e alle nature morte e nei suoi paesaggi, dai colori violenti e spesso discordanti, raggiunge effetti analoghi a quelli degli espressionisti tedeschi.
Il suo linguaggio materico, drammatico e frenetico che distrugge la prospettiva tradizionale, non piace al pubblico, ma, grazie alla conoscenza e all’apprezzamento di mercanti quali Léopold Zborowski e di collezionisti quali Albert C. Barnes, Madeleine e Marcel Castaing, il pittore riesce a superare le difficoltà legate al suo temperamento inquieto.
Dall’archivio di Repubblica, l’estratto di un articolo di Roberto Tassi, critico d’artre, sullo stile inconfondibile di Soutine
(…) In fondo Soutine non è mai entrato veramente in quello stretto manipolo di grandi che la storia ha consegnato all’esaltazione e all’adorazione dei più. E’ stato sempre tenuto un po’ a lato, in quelle zone non centrali, non del tutto illuminate, dove continua a bruciare lo spirito dei solitari, degli estremi, dei disperati. La sua opera infatti ha sempre prodotto un turbamento che non è facilmente, e a lungo, sostenibile: febbrile, palpitante, satura di una vita inesausta. Nessun altro fu così istintivo, così perduto e insieme così cosciente, come Soutine. E proprio qui sta il punto delicato, oscuro, generativo, della sua grandezza: punto difficile da capire, da spiegare e forse anche da accettare.
Soutine indaga, cerca, attende, nella realtà cioè nel modello naturale e umano di cui non può mai fare a meno lo spirito della vita; e, carpitolo, non ha pace finché non può trasformarlo in forma, in immagine, in opera. Non c’ è frammento di una sua
qualsiasi opera che non lo contenga; e poiché la pittura è colore, non c’ è colore, degli infiniti che egli scopre, distilla, mescola e violenta, che non lo contenga. Di fronte al rapporto drammatico che si crea in lui tra colore e vita, tra colore ed espressione, anche Matisse da un lato e gli Espressionisti dall’altro sembrano fermarsi e rimaner superati. Quanto alla violenza deformante che circola e palpita per le figure e i volti, al confronto Bacon sembra non abbastanza esaltato, non abbastanza tragico ed ebbro.
Soutine non conosce movimento artistico, poetica modernista, teoria della dissoluzione formale, dell’avanguardia o non dell’avanguardiaia. Arriva a Parigi nel 1913 in piena avventura cubista, attraversa gli anni in cui si formano i vari astrattismi, senza che né l’uno né gli altri possano minimamente appassionarlo; subito creando, e poi senza sosta perseguendo, quel suo stile in cui la materia, il colore e la forma si stringono e si fondono per esprimere qualcosa che non è solo bellezza, ma angoscia e palpitazione della vita. Ignora Dada e Surrealismo. E quando, tra il 1919 e il 1925, non c’ è studio di pittore in cui non spiri, poco o tanto, l’ordine di un recupero classicista, egli dipinge, prima a Céret nei Pirenei, poi a Cagnes, poi a Parigi proprio nel 1925, il più grandioso e sublime disordine: immagine in cui la materia si depone e organizza, addensata e viva, in una estrema e tragica armonia.
E risulta poi difficile trovare chi negli stessi anni, e anche dopo, sappia trattar quella materia con tanta violenza e tanta tenerezza unite, tanta luminosa forza e oscura densità insieme. Prima di lui c’ era stato forse solo Courbet; e prima di Courbet c’ era stato Rembrandt; entrambi, infatti, sue grandi, e forse le sole, vere passioni. Mi piace Francesco Porzio quando scrive: In un certo senso Soutine divise il suo studio con Courbet, più che con Modigliani; guardò più a Rembrandt e a Chardin che a Zadkine, Chagall e Lipchitz, gli amici della stanza accanto.
Modigliani gli era stato molto amico, compagno di lavoro e di studio, di miseria, di abbandono; entrambi lontani dalla patria, estremi e violenti, artisti di razza, chiusi in quella nobiltà di pensiero che si manifesta anche in eleganza di modi. Modigliani gli aveva fatto un ritratto, opera di grande bellezza, con quel volto velato appena di una malinconia orientale, gli occhi stretti ridenti, le labbra grosse sensuali, come se una giovanile, accettata, disperazione, un torbido, denso, amore per la vita fossero fusi nel mistero di un uomo timido, sprovveduto, appassionato e silenzioso. Ma poco aveva in comune la loro arte. Da Courbet invece Soutine aveva tratto quasi tutto. La potenza di quel gran fiume denso, largo di sponde, che scorreva agitato e ondoso entro la pittura francese di metà Ottocento, veniva ora a lambire, con Un enterrement a’ Ornans, con Les demoiselles de la Seine, lo studio del giovane ebreo russo. Il quale non ne ricavava solo il senso della materia germinativa, impastata di luce e di acqua, lutulenta e raffinata, supremamente naturale, ma ancora la maggior pienezza di vita, il gonfiore di realtà. Se infatti leggeva con passione Balzac e Michelet, era per confrontare di nuovo il proprio desiderio e la propria volontà su quella stessa linea di eccedenti visionari del reale.
Quanto agli scrittori russi, più di Dostoevskij, che i biografi son soliti fargli leggere per coincidenza con la loro interpretazione maledetta, credo che dovesse amare, come amava Courbet, Tolstoj; e se vide l’Hallali du cerf non avrà mancato di cogliere, in quella tragica, non tenebrosa epicità, in quell’intrico di natura e destino, le tangenze tolstoiane. Anche la pittura di Soutine è tragica, non tenebrosa; quasi mai epica però.
Negli anni Venti e Trenta del nostro secolo non era più possibile quell’enorme respiro; e la grandezza di Soutine sta proprio nell’aver frantumato quella parete dell’epica per cogliere il respiro dentro la verità delle cose, per veder realizzarsi nei volti degli Enfants de choeur, Hommes en prière, Patissiers, nei paesaggi dei Pirenei e della Francia, nei buoi e nei polli appesi, il dolore più misero e più brutale dell’esistenza; e dell’esistenza anche la dimessa e pur fonda palpitazione, l’amore denso, bruciante. Così che L’arbre de Vence, illimitato e vertiginoso capolavoro dipinto da Soutine verso il 1929, presente alla mostra, può reggere il paragone, in diversità di modi, con Le chene de Flagey di Courbet.
L’ARBRE DE VENCE, 1920 ca.
(…) Chi ricorda il Soutine che tutto costruisce con grandi ondate di colore, con quei tumulti di rossi, di azzurri, di bianchi che si accavallano, si screziano, dilagano entro l’immagine, variando di continuo il tono, la luce e l’impasto, il Soutine dei gladioli, del tacchino spennato sulla tavola, delle nature morte con pomodori e pesci, dei buoi squartati, dei villaggi sui Pirenei, troverà un Soutine colorista altrettanto grande, ma che usa i colori con una delicatezza, una meditata invenzione, un accordo, una sapienza, come se incastonasse trame di pietre preziose e usasse trasparenze d’ aria e luci lontane. Brucia sempre una fiamma, nella sua pittura. Ma ora non più quel fuoco crepitante e carbonizzante; una fiamma lenta, duratura, silenziosa; come quella che dalla veste solleva in alto fino all’incandescenza bianca della cotta Le grand enfant de choeur, dandogli, entro quel buio in cui riluce, la misura, la nobiltà, la perfezione quasi di una statua greca. Brucia di tenerezza, di umidore primaverile il grande albero di Avant l’orage, che, tutto avvolto e scosso dal vento azzurro, ci mostra l’agitazione senza fine della grande armonia naturale, ma anche l’agitazione inesausta di un animo disperato; sempre e nuovamente in fuga e in nascondimento in quell’anno 1942, mentre i tedeschi dilagavano anche per la Francia a raccogliere vittime. Così si compie il destino di questo grande ebreo fuggitivo; e fu buona ventura per lui morire l’anno dopo di un’ulcera perforata, che lo salvò dalla camera a gas.
Dico questo perché non condivido più, alla fine, nel saggio di Porzio, il paragone troppo stretto con Céline, che è stato certo il grandissimo scrittore da tutti riconosciuto, ma che non poteva bruciare dello stesso spirito delirante di Soutine; poiché, se Soutine era, anche per quel suo spirito, un ricercato, come ebreo n. 35.702, il feroce antisemitismo di Céline lo faceva stare, sia pure indirettamente e a distanza, tra coloro che lo ricercavano.
ABELLARTE.COM/48
http://www.abellarte.com/48—due-bambini-sulla-strada-di-chaim-soutine.html#
Certo il sud della Francia ha qualche merito in campo artistico. Soutine sarebbe comunque un pittore importante anche se di lui fossero rimaste solo le sue cupe opere parigine. Ma questi paesaggi meridionali, niente affatto “ameni”, anzi violenti e allucinati, hanno qualcosa in più.
Per non dire di Van Gogh. Il Van Gogh che conosciamo è quello della Provenza: il suo “Giappone” (insomma, ognuno ci trovava quello che cercava, un merito in più per le Midi). Le opere parigine di Van Gogh, notevoli indubbiamente, sono quelle di un ottimo discepolo di Pisarro. Se poi fosse rimasto in Olanda… Ma lì il paesaggio e il clima metereologico non c’entrano.