LIMESONLINE DEL 25 GIUGNO 2019
La guerra in Siria e le manovre di palazzo: così Erdoğan ha perso Istanbul
Carta di Laura Canali.
La sconfitta elettorale nella città più importante della Turchia può mettere fine al progetto geopolitico del suo presidente. Una parte dello Stato profondo non intende rovesciarlo, ma si è già dimostrata capace di commissionarlo.
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La portata dello tsunami che si è abbattuto su İstanbul è rivelata da un dato numericamente insignificante, ma geopoliticamente travolgente.
Si tratta dei 300 voti che hanno permesso a Ekrem İmamoğlu di trionfare nel distretto di Fatih, il cuore conservatore dell’ex capitale ottomana, l’area nella quale Fatih Sultan Mehmet fece costruire la prima moschea cittadina dopo la Conquista.
Cinque anni fa, il candidato di Erdoğan aveva vinto a Fatih con oltre 43 mila voti di distacco. In questo lasso temporale, tuttavia, decine di migliaia di rifugiati siriani si sono insediati nel distretto, attirati per l’appunto dallo stile di vita conservatore della popolazione locale. Questo flusso migratorio ha profondamente destabilizzato l’equilibrio antropologico, sociale ed economico della municipalità, così come del resto della città. Con conseguenze dirompenti.
Per comprenderle, è necessario dare uno sguardo allo smottamento elettorale avvenuto tra le elezioni del 31 marzo, annullate dall’Alta commissione elettorale, e quelle del 23 giugno. Il 31 marzo, İmamoğlu aveva vinto le elezioni con poco più di 12 mila voti di distacco. Il 23 giugno ha trionfato con un margine di oltre 806 mila voti, conquistando 572 mila preferenze in più. Il candidato dell’Ak Parti di Erdoğan Binali Yıldırım, dal canto suo, in meno di tre mesi ha perso 221 mila voti. È dunque del tutto evidente che diverse decine di migliaia di elettori che il 31 marzo avevano votato Yıldırım domenica hanno deciso di sostenere İmamoğlu. Senza nascondere le ragioni del loro gesto, anzi annunciandole sui social network già nelle ore immediatamente successive alla proclamazione del risultato elettorale (avvenuta alle 19.30, appena due ore e mezza dopo la chiusura delle urne): i profughi siriani e il ministro dell’Economia.
La rabbia contro i profughi che, anziché “andare a sventolare la bandiera siriana a casa loro” “rimorchiano le ragazze turche” mentre “i nostri Mehmetçik muoiono in Siria”, monta da mesi. La questione dei profughi – verosimilmente almeno cinque milioni – è ormai stabilmente al vertice dell’agenda politica turca. Kemal Kılıçdaroğlu e Meral Akşener, leader rispettivamente dei partiti Chp e İYİ, hanno promesso di rimandarli tutti in Siria. Gli istanbuliti condividono il proposito, così come la nazione nel suo complesso. Perché la misura è colma. Le conseguenze geopolitiche possono essere radicali. Per evitare che assomigli alla lunga marcia cui furono costretti un secolo fa gli armeni, il rimpatrio dei siriani presuppone inevitabilmente il controllo del territorio di reinsediamento da parte turca. Ankara ha già cominciato a muoversi, reinsediando nelle zone liberate dalle operazioni militari dell’ultimo triennio qualche decina di migliaia di profughi. Una goccia nel mare.
Finché la Turchia sarà costretta a ospitare sul suo territorio 4-5 milioni di profughi siriani, tra cui almeno due milioni di aleppini, la guerra di Siria non può finire. È questo il principale verdetto geopolitico delle elezioni di İstanbul.
Un ruolo fondamentale nella sconfitta di Erdoğan lo ha giocato chiaramente la crisi dell’economia. Meglio, la gestione sconsiderata della crisi da parte dell’incapace e viziato “genero imperiale”, Berat Albayrak, rampollo di una famiglia in affari con il presidente turco fin dagli anni Ottanta. Subito dopo la sconfitta di İstanbul, centinaia di elettori dell’Ak Parti hanno chiesto a Erdoğan di rimuovere il ministro dell’Economia. Riflettendo l’insoddisfazione di parte dell’establishment, a partire dal ministro dell’Interno Süleyman Soylu, uomo d’azione e di consenso la cui rivalità con il “genero imperiale” è un genere letterario. Insoddisfazione che potrebbe essere dietro anche all’inusuale iniziativa del ministro della Difesa Hulusi Akar, che ha scelto proprio il giorno successivo alle elezioni per incontrare in successione Devle Bahçeli (segretario dell’Mhp), Akşener e Kılıçdaroğlu e discutere con loro temi relativi alla difesa, in particolare la questione degli S-400. Iniziativa certamente benedetta da Erdoğan, che tuttavia simbolizza il rischio di commissariamento del presidente turco. In tal senso, è utile illuminare alcuni aspetti oscuri delle dinamiche che hanno portato alla ripetizione del voto.
Dopo la sconfitta del 31 marzo Erdoğan aveva chiuso la partita, riconosciuto il vincitore,invitato a concentrarsi sui problemi economici e geopolitici e aperto a una nuova alleanza, battezzata “Alleanza della Turchia” (Türkiye İttifakı). Tentativo di magnificare i suoi superpoteri presidenziali allargando la cerchia dei beneficiari. Akşener aveva accettato con convinzione la proposta del presidente. Mandando in paranoia i maggiorenti dell’Ak Parti e soprattutto Bahçeli, che ha giocato una partita straordinariamente raffinata.
Erdoğan è titolare di un consenso personale inattaccabile, certificato alle ultime presidenziali,ma è fiaccato da un partito allo sbando. La questione era già emersa in occasione di un comizio del Reis a Bayrampaşa durante la campagna elettorale per il referendum dell’aprile 2017, quando gli astanti interruppero il presidente urlandogli: “Ti vogliamo bene, ma i tuoi sono corrotti: devi cambiarli”. Bahçeli ha compreso lucidamente questa situazione e ha giocato le sue carte di conseguenza.
Il partito eurasiatico legge infatti la decisione della Commissione elettorale di ripetere il voto a İstanbul come una trappola tesa da “chi non vuole lasciare il Reis ferito, lo vuole accoltellare alla schiena una seconda volta per assicurarsi che sia definitivamente neutralizzato”.
Allusione neppure troppo implicita ai reparti dello Stato profondo legati a Bahçeli, che intendono usare Erdoğan per perseguire i propri scopi. Limitare la sovranità del Reis per deviare il suo corso d’azione. Sfruttare l’inquietudine dei maggiorenti dell’Ak Parti per commissariare il presidente turco.
Erdoğan non ha mai spinto per la ripetizione del voto; a farlo, pubblicamente e quotidianamente, sono stati il Mhp e i maggiorenti del suo partito. Il Reis sapeva perfettamente che qualunque fosse stato l’esito delle elezioni del 23 giugno lui avrebbe comunque perso.
La decisione dell’Alta commissione elettorale, presa a porte chiuse dai delegati di tutti i principali partiti, è stata un attacco alla sua leadership. La ripetizione del voto ha infatti bloccato l’avvicinamento tra Erdoğan e Akşener, nemica giurata di Bahçeli, ricompattando l’opposizione e imprigionando il presidente nella cosiddetta “Alleanza del popolo” (Cumhur İttifakı). Da diverso tempo, ormai, Bahçeli riesce ad arrivare sulla palla con un attimo d’anticipo rispetto al Reis. Anche dopo le elezioni di domenica il primo a commentare i risultati elettorali è stato il capo dell’Mhp, che ha inteso dettare la linea annunciando la difesa a oltranza della coalizione Ak Parti-Mhp.
Il golpe elettorale contro Erdoğan non consiste nella vittoria di İmamoğlu, bensì nell’operazione con la quale gli avversari interni del Reis hanno inteso trasformare una mezza sconfitta in una disfatta epocale. Ed è avvenuto mentre l’ex presidente egiziano Mohamed Morsi moriva in una prigione del regime di al-Sisi. La serrata guerra di prossimità tra Turchia e Qatar da un lato e Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto dall’altro è un fattore fondamentale della politica interna turca. Come recita l’adagio coniato dagli egiziani dopo il golpe del 3 luglio 2013, “se Morsi non è riuscito a diventare Erdoğan, Erdoğan può benissimo diventare Morsi”.
La sconfitta di Erdoğan ha anche una prominente dimensione curda. Un mese prima delle elezioni lo Stato turco aveva permesso un incontro tra Abdullah Öcalan e i suoi avvocati, il primo dal 2011. Il leader spirituale del Pkk aveva prima diffuso un documento che sembrava implicare l’apertura di qualcosa di simile a un secondo “processo di soluzione”; poi, a tre giorni dal voto a İstanbul, aveva lanciato un appello agli elettori curdi affinché si astenessero. Richiesta palesemente caduta nel vuoto. Ciò che conferma quanto si era intuito nella primavera del 2015, in occasione della fine del “processo di soluzione”: la stella di Öcalan è tramontata, il leader curdo non ha più il polso del suo popolo. Non esercita più alcuna influenza, è un mero feticcio iconografico. Declino che riflette uno slittamento generazionale e soprattutto culturale emerso già in occasione della campagna elettorale per le elezioni del 7 giugno 2015, quando le tribù curde iniziarono ad abbandonare l’Ak Parti.
Nelle prossime settimane Erdoğan procederà probabilmente a un rimpasto governativo.Promuoverà il genero per impedirgli di commettere ulteriori danni senza fargli perdere la faccia. O lo lascerà al suo posto, depotenziandolo nei fatti. In ogni caso cambierà poco, perché l’ostilità verso Albayrak è un malessere superficiale.
Le radici della crisi del “modello Erdoğan” stanno nel disastro della politica siriana. I turchi intendevano recitare la preghiera del venerdì nella moschea degli Omayyadi di Damasco e si ritrovano il cortile della moschea di Fatih affollato da profughi arabi. Il Reis ha investito il suo intero capitale mediorientale per ricreare una dimensione imperiale che avrebbe dovuto diluire il conflitto turco-curdo e governa oggi una Turchia nella quale la minaccia separatista non è mai stata così concreta. Mentre il suo errore di calcolo permetteva agli americani di dotare il Pkk di un esercito regolare addestrato in base agli standard della Nato e dotato di armi pesanti, Erdoğan ha anche creato le condizioni politiche per la nascita del primo, vero partito curdo, l’Hdp, oggi strumento del disegno con cui una parte dello Stato profondo prova a commissariarlo.
Potrebbe andare anche peggio. Se Putin togliesse il freno a mano e Asad muovesse su Idlib, altre centinaia di migliaia di profughi siriani si riverserebbero in Turchia nel giro di poche settimane, se non di pochi giorni. In un contesto nel quale Ankara non solo non riesce a espandere la zona siriana sotto il suo controllo a ovest dell’Eufrate, ma fatica persino a tenere quella già in suo possesso. Circostanza che rende irrealistica qualsiasi prospettiva di ricollocare in Siria un numero significativo di profughi. Fermo restando che nessuno di essi tornerebbe nell’area controllata da Asad. Inoltre, qualunque operazione militare turca a est dell’Eufrate lascerebbe intatte le postazioni curde, protette da una solida barriera difensiva americana che Washington intende mantenere in Siria a tempo indeterminato. Dinamica che esplicita la logica sottesa all’alleanza di convenienza tra i “nazionalisti” turchi di Akşener e i nazionalisti curdi di Demirtaş. Puntano a governare Stati diversi. Persino un rivale di Erdoğan e Bahçeli come Doğu Perinçek riconosce loro la funzione di argine alla spartizione della Turchia.
La stampa di Atene aveva celebrato la prima vittoria di İmamoğlu come la riconquista greca di İstanbul. Gli americani hanno tenuto a mettere in chiaro che İmamoğlu governerà “la più grande città d’Europa”, non della Turchia. Allusioni e pressioni che fanno il gioco del reparto ultranazionalista dello Stato profondo. E che possono costringere il Reis a completare la mutazione nazionalista, abbandonando definitivamente l’approccio universalista neo-ottomano.
Erdoğan ha le abilità camaleontiche per adeguarsi con successo a questa trasformazione. Ma la natura della sua leadership geopolitica ne uscirebbe stravolta.