GIORGIA PRONO, TROPISMI, 24 APRILE 2018 :::NATALIA GINZBURG: L’INVINCIBILE CORAGGIO E L’INGENUITA’ CORSARA — PARTE I / II

 

Tropismi

 

 

Letteratura e saggistica 

 

AUTORE:   24 APRILE 2018

Natalia Ginzburg: l’invincibile coraggio e l’ingenuità corsara

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Natalia Ginzburg: l’invincibile coraggio e l’ingenuità corsara

 

Il futuro della donna e il passato della bambina

 

«E poi son solo. Resta

la dolce compagnia

di luminose ingenue bugie»

 

Dopo la lettura del prezioso libro di Sandra Petrignani, La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg (Neri Pozza Editore, 2018), ho riflettuto su alcuni aspetti, tra i più intimi e taciuti, di una personalità complessa e apparentemente monolitica, di una corsara che nella maturità affronta la vita e i suoi orrori.corsara

I versi di Sandro Penna, che trovate citati in alto, conducono in un tempo vago e indefinito, solitario e tuttavia abitato da figure che sbiadiscono alla luce della cruda realtà. È il mondo dell’infanzia, così spesso evocato negli scritti della Ginzburg, autrice la cui biografia testimonia, emblematicamente, l’impatto esistenziale della solitudine cui l’adulto costringe, coi propri segreti e le proprie menzogne, l’ingenuità acerba del bambino.

L’uso del “noi” nella narrazione della Ginzburg, dai racconti ai romanzi, dall’epistolario privato agli articoli sulle più importanti testate giornalistiche, e la sua ritrosia rispetto alla terza persona dei romanzi “con scale e piani e il fumo che esce fuori dal camino”, come quelli dell’amica Morante, rimanda per la Petrignani alla fantasia di Natalia bambina. Intenta a giocare nel giardino di via Pastrengo, a Torino, è circondata da un mondo pieno di adulti, mondo da cui è esclusa e si esclude. Adulti che la definiscono “impiastro per sempre”, dedito solo a “negrigure”, “sbrodeghezzi” e “sgarabazzi”, come si evince da Lessico famigliare, la cui coscienza romanzesca è, secondo l’interpretazione di Cesare Garboli, proustiana.

Natalia è orgogliosa di essere speciale, eppure prova vergogna di non essere come tutti; secondo la Petrignani questo senso di inadeguatezza si trova perfettamente rappresentato nel quadro di Casorati, Bambina che gioca sul tappeto rosso, 1912 (immagine copertina di questo articolo): «Si coglie in lei il futuro della donna e il passato della bambina. È una figura marginale e di passaggio, sospesa in un tempo di dimenticanza e di apatia. Non si sente guardata e non guarda, se non, all’interno di sé, oscuri, preoccupati pensieri» (Petrignani, Neri Pozza Editore, 2018).

Bambina che gioca sul tappeto rosso - Felice Casorati

Bambina che gioca sul tappeto rosso – Felice Casorati

Lo sguardo sul mondo è, dato il contesto storico, inevitabilmente nutrito di un pessimismo che rimarrà sullo sfondo delle riflessioni più mature senza, tuttavia, assumere toni edulcorati o sfociare in colpevole:

«Dio non esiste, perché non avrebbe potuto inventare questo mondo assurdo, mostruoso, questa complicata macchinazione dove un essere umano cammina solo al mattino, nella nebbia, fra case altissime abitate dal prossimo, dal prossimo che non ci ama e che è impossibile amare» (Piccole virtù, Natalia Ginzburg).

Uno degli aspetti più interessanti della biografia della Ginzburg è quello che riguarda la problematica concezione che ha di se stessa in quanto donna, soprattutto nel microcosmo fondamentalmente maschile e maschilista della casa editrice Einaudi, e il rapporto con le grandi figure maschili, guide spirituali e padri adottivi, della sua vita. Gli anni della giovinezza sono contraddistinti dalla convinzione che il fascino in un uomo consista nell’indifferenza, unita all’ironia, all’altezza, a molte sigarette fumate in silenzio e a una testa beffarda e misteriosa. Il commento della Petrignani, a tal proposito, comporta una riflessione lucida, e per nulla scontata, sulle successive posizioni assunte dalla Ginzburg nei confronti del nascente movimento femminista e rispetto ai propri modelli letterari: «E forse proprio perché non si faceva avanti nessuno con queste caratteristiche, cominciò lei a prenderne il posto, a somigliare alla figura maschile della sua immaginazione» (Petrignani, Neri Pozza Editore, 2018).

Sandra Petrignani riporta la riflessione di Dacia Maraini sul distacco che la Morante e la Ginzburg avevano assunto rispetto al femminismo, evidenziando un elemento di primaria importanza: si consideravano scrittori, guardando ai modelli maschili del passato, non scrittrici, sinonimo di “sentimentali”; era infatti abitudine della Ginzburg quella di rimproverarsi quando si scopriva troppo leziosa.

Nel Discorso sulle donne, 1948, così, radicalmente, si esprime, ritenendo di aver scoperto la profonda differenza tra uomo e donna: «Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne […] a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini».

 

La casa editrice Einaudi, presso la quale la Ginzburg stringe profondi legami di amicizia, di stima intellettuale e leale professionalità, è pur sempre un ambiente predominato da uomini il cui protagonismo è spesso motivo di conflitto, e di fronte al quale Natalia conserva un “ingenuo” senso di inferiorità, mai tradottosi, tuttavia, né in cieca ubbidienza né in pacata o docile accettazione (frequenti i litigi con Giulio Einaudi per i ritardati pagamenti e così i rimproveri per il mancato ascolto di qualche suo consiglio, nonostante l’influente posizione accanto a Pavese come curatrice della sezione di narrativa). La casa editrice Einaudi è, in ogni caso, un ambiente famigliare per la Ginzburg, determinante per il suo equilibrio e fondante per la sua identità letteraria, un nucleo che si sostituisce a quello originario, così caro nella sua integrità alla scrittrice.

«Italo Calvino […] era un sostenitore dell’avvenenza di Natalia. Non l’avete vista in costume da bagno e con il rossetto sulle labbra, diceva in inevitabili discorsi fra maschi ai meno convinti colleghi. E persino Moravia fu un forte estimatore delle doti fisiche di una Ginzburg trentenne. Pavese, invece, che sapeva essere cattivo anche con i migliori amici, l’aveva soprannominata “bue muschiato” per l’aria sempre imbronciata e per la tendenza a “caricare a testa bassa”» (Petrignani, Neri Pozza Editore, 2018).

Che la Ginzburg fosse consapevole delle implicazioni del suo sesso in un mondo di uomini, ma allo stesso tempo “piratesca” nelle sue incursioni a favore dei prevaricati, lo testimonia un episodio citato dalla biografa: Cesare Pavese, intimo amico dei Ginzburg, invia una copia di Paesi tuoi a Pizzoli, dove Leone era stato mandato in confino e risiedeva con Natalia e i tre figli. Insieme al libro, Natalia riceve una cartolina su cui c’è scritto: «Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro più bello del mio». La risposta di lei: Mio marito, un racconto la cui stesura è fulminea.

La seconda parte della riflessione sarà dedicata ad alcune figure centrali nella vita di Natalia e agli anni della maturità.

 

 

 

Natalia Ginzburg: l’invincibile coraggio e l’ingenuità corsara – parte II

 

L’imperativo della sincerità e la critica sociale

La seconda parte del focus su Natalia Ginzburg si propone di illustrare la ricerca della verità quale obiettivo primario della sua scrittura, ricordando alcune figure fondamentali che hanno lucidamente colto questo aspetto e altre che lo hanno ispirato, e di saggiare la portata critica degli ultimi scritti.

 

Italo Calvino aveva un sincero rispetto dell’opera della Ginzburg, e si intuisce la singolarità di questa intesa, dato il sospetto che lo scrittore nutriva nei confronti della letteratura femminile: «Forse mai unaItalo-Calvino scrittrice ha saputo essere così femminile – ragazza, moglie, madre – in un senso così opposto a quello che s’intende di solito per “letteratura femminile” cioè all’abbandono lirico ed emotivo». Calvino intuisce d’altra parte, in un commento a Le piccole virtù, la vera ambizione della scrittura ginzburghiana; non si tratta di scrutare dentro l’anima dei personaggi, ma solo di rappresentarli, di metterli in scena, al fine di cogliere l’essenza veritiera di ogni singolo gesto umano. Questo è l’imperativo letterario, ma anche morale e comunitario, che la Ginzburg fa proprio. Determinante in questo senso l’insegnamento del primo marito, Leone.

Leone Ginzburg è innanzitutto un antifascista; fa parte al D’Azeglio della “confraternita” del Professor Augusto Monti, gobettiano, costituita da alunni brillanti, fra i quali Norberto Bobbio, Cesare Pavese e Vittorio Foa. Attraverso le parole di Petrignani, che evocano Corso Re Umberto, lungo il quale i fratelli di Natalia, Alberto e Mario, passeggiano tramando all’insaputa del padre, il tram 1, luogo di cospirazione prediletto, i salotti intellettuali, come quello di Giorgina Lattes, e il caffè Platti, dove si incontravano i fondatori dell’Einaudi, si respira l’atmosfera della Torino antifascista.

Al di sopra di tutte si staglia la figura di Leone, per Natalia padre saggio e sereno. Lungimirante e colto, battagliero e implacabile, già nel 1931 scriveva, forse prefigurando il proprio destino, sulla rivista Pegaso: «La storia ha esigenze inesorabili, che è meglio riconoscere con virile chiaroveggenza». Commoventi i passi scelti da Petrignani per evocare un uomo eroico, troppo spesso mutilato dall’amnesia che affligge la nostra realtà, dimentica del proprio passato, attraverso le parole della donna che ha amato.

«La cosa strana con questa persona, è che ci sentiamo sempre così bene e in pace, con un largo respiro, con la fronte che era stata sempre così aggrottata e torva per tanti anni, d’un tratto distesa» (Natalia Ginzburg, Piccole virtù).

L’ultima lettera del marito avrà per Natalia un’importanza imprescindibile, la conserva come un monito e un destino ineluttabile: le affida infatti compiti cui non potrà più sottrarsi. Deve scrivere e pubblicare, lavorare, essere sinceramente utile agli altri e rimanere vicina al mondo di costoro, «per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di passaggio», ma soprattutto deve essere coraggiosa.

«Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri […]. Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io […]. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio […]. Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa».

Gli anni successivi alla morte di Leone e alla fine della guerra sono così descritti in Lessico famigliare: «E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all’ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla».

Petrignani si sofferma a lungo su un’altra perdita, quella di Pavese, che sconvolge e turba il fragile equilibrio della Ginzburg, che dall’amico aveva appreso a concentrarsi sulle parole vere, senza dispersioni. Si spiega i llessico famigliaresuo suicidio accusando il “silenzio diabolico” che troppo spesso ha come esito la morte prematura. Insieme a Mila e a Calvino, Natalia Ginzburg prepara per la stampa il Mestiere di vivere; poetico il ricordo evocato, «questo viale e il caffeuccio sul viale, fu la tua camera, la finestra sulle cose» e così il ritratto in Lessico famigliare, «la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso».

I lutti e le delusioni amorose, le difficoltà legate al successo e all’insuccesso, il rapporto di interdipendenza e indicibile affettuosità con la figlia disabile Susanna, temprano il carattere di Natalia, la cui ricerca della verità e il cui senso di giustizia la elevano al di sopra del disordine catastrofico e in disfacimento della realtà in cui si specchia. Gli articoli composti in collaborazione con le testate giornalistiche e il periodo nel quale siede in Parlamento come deputata, riflettono il suo temperamento e costituiscono un’occasione per ribadire la propria concezione di impegno sociale. Adempiendo così alle richieste di Leone, la Ginzburg denuncia le derive della società contemporanea, che vede in continuo mutamento verso una meta fatale seppur nebulosa.

In Vita immaginaria Natalia sostiene: «Il successo non significa nulla, né in bene, né in male», la felicità «era un tempo in cui non ci chiedevamo mai se eravamo e saremmo riusciti a essere dei protagonisti».

«Lo strano è che questa nebbia che c’è nei manoscritti dei romanzi, è presente ovunque […]. Nella nebbia, diventa impossibile distinguere il grande dal piccolo; il bene dal male; i colpevoli dagli innocenti; il falso dal vero» (Natalia Ginzburg, Chi ha paura di scrivere chiaro?“La Stampa”, 1981).

La critica alla società si fa sempre più aspra, ma, come sottolinea la Petrignani, non sfocia mai nel conservatorismo o nell’arbitrarietà del giudizio, pur assumendo spesso toni comici nella loro alterigia: «Il caffelatte, come le pantofole, sembra stia scomparendo dalla faccia della terra. Girano uova strapazzate e sughi di frutta in bottiglia: e una sostanza orribile, scura e untuosa, che si spalma sul pane e che si chiama Nutella» (Natalia Ginzburg, I lavori di casa, “La Stampa”, 1969).

Natalia Ginzburg riconosceva nella scrittura una seconda natura. Per questo, Sandra Petrignani le dedica una frase di Elsa Morante: «La mia intenzione di fare la scrittrice nacque per così dire insieme a me».

Nella Prefazione a Cinque romanzi brevi si legge: «Non dobbiamo mai cercare, nello scrivere, una consolazione. Se c’è una cosa sicura è che è necessario scrivere senza nessuno scopo». L’attività prediletta rimane la traduzione: tra le tante, quella di Madame Bovary per la collana Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”. Nella nota del traduttore, Natalia Ginzburg afferma, con toni che ricordano quelli di Primo Levi traduttore di Kafka: «Tradurre è servire […]. Essere formica e cavallo insieme. Il rischio è sempre di essere troppo cavallo o troppo formica. L’una e l’altra cosa sciupano l’opera. La lentezza non deve apparire, deve apparire la corsa del cavallo soltanto. Le parole nate così adagio non devono apparire striscianti o morte, ma fresche, viventi e impetuose. Il tradurre è dunque fatto di questa contraddizione insanabile». L’ultimo lavoro che porta a termine, ormai malata e costretta a letto, sarà proprio una traduzione, quella di Une vie di Maupassant, a dimostrazione della sua anima instancabilmente corsara.

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *