GIPI, ” Gipi. Storie d’artista “, Palazzo blu a Pisa dal 15 Giugno 2019 al 13 Ottobre 2019 // +++ intervista a GEPI di NICOLA RUGANTI DEL 2014

 

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Autoritratto con paesaggio urbano. Acquerello, pennarello su carta, 35,5×25,3 cm

 

Gipi. Storie d’artista

Pisa, Palazzo Blu, 15 giugno – 13 ottobre 2019

E’ Gipi il protagonista della mostra estiva di Palazzo Blu, a cura di Giorgio Bacci.

Al secolo Gian Alfonso Pacinotti, nato a Pisa nel 1963, Gipi è un talento poliedrico e uno dei maggiori protagonisti della scena culturale italiana. La mostra, dal titolo ‘Gipi. Storie d’artista’, verrà inaugurata venerdì 14 giugno e propone un’ampia selezione di tavole originali, oltre novanta disegni, da alcuni dei suoi maggiori successi. Da Esterno notteLa terra dei figliunastoriaAppunti per una storia di guerra.

Una selezione di opere, che permette di entrare nel mondo creativo dell’artista, in un susseguirsi appassionante di tecniche e stili differenti.

 

Per il quinto anno consecutivo il ciclo delle esposizioni artistiche estive di Palazzo Blu è dedicato alla grafica d’artista.

Gipi è un fumettista, ma è anche scrittore, illustratore regista. Nel corso degli anni ha ricevuto numerosi premi in prestigiosi concorsi letterari e artistici di caratura internazionale, dal Premio Goscinny (e Miglior Libro) al Festival di Angôuleme del 2006 per Appunti per una storia di guerra, segnalato anche dalla rivista «Lire» come uno dei 20 migliori libri del 2005, al premio Max und Moritz sempre del 2006 per Gli Innocenti (miglior libro straniero al Festival del fumetto di Erlangen), fino al premio Micheluzzi come miglior disegnatore al Festival Comicon di Napoli, vinto nel 2004 con Esterno Notte e nel 2005 con Questa è la stanza; è stato poi nominato Magister per l’edizione del 2019.

L’inclusione della graphic-novel unastoria nei dodici finalisti del Premio Strega, nel 2014, segna uno spartiacque nella critica contemporanea: per la prima volta un fumetto viene segnalato per ricevere un premio di natura prettamente letteraria. La vicenda sottolinea una delle caratteristiche precipue di Gipi: oltrepassare i confini prestabiliti e seguire l’istinto di una sperimentazione continua, diventando anche il regista di alcuni film d’autore presentati con successo al Festival del Cinema di Venezia (nel 2011 L’ultimo terrestre e nel 2018 Il ragazzo più felice del mondo).

“Sfogliando i suoi libri, a colpire il lettore o l’osservatore sono prima di tutto la qualità grafica e la capacità narrativa dell’artista, capace di sviluppare un’ampia e delicata tastiera stilistica: dall’acquerello al gesso, dalla matita al pennarello, dall’olio all’acrilico, impiegando formati e supporti diversi”

spiega il curatore della mostra Giorgio Bacci.

 

 

 

 

 

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LA VANITÀ INIZIA A SCAVARE IL BUCO. INTERVISTA A GIPI

 

Questa intervista è uscita sull’ultimo numero della rivista Lo Straniero.

 

 

 

Nel 2008 era uscito La mia vita disegnata male, poi negli anni successivi il mio editore aveva pubblicato delle raccolte che non considero libri veramente miei. Per me il libro è un processo preciso di scrittura, di coinvolgimento. Questo ha dato l’idea che fossero due anni che non facevo libri a fumetti, ma in realtà quando ho fatto Unastoria gli anni trascorsi erano addirittura cinque. Pian piano mi stavo convincendo che quella parte fosse proprio finita, che il disegno fosse andato via. Continuavo a fare illustrazioni per Repubblica, tra l’altro tecnicamente molto ostentate, però, visto che poi gli uomini si abituano a cose molto peggiori di questa, mi ero abituato anche all’idea che in sostanza non fossi più un fumettista. Poi è arrivato il cinema e mi sono detto “Sai cos’era? Era una strada che mi portava a fare il cinema”, ma in realtà le sensazioni di soddisfazione e di sicurezza che provo lavorando a una storia a fumetti con il cinema non ci sono.

Quando facevo libri come Appunti per una storia di guerra non è che fossi proprio un disgraziato, però non ero tanto distante dalle figure che raccontavo. Un po’ erano ancora molto vive nella memoria, e un po’ il mio modo di vivere era quello di uno che cercava di fare i fumetti in Italia prima di diventare un fumettista famoso, quindi uno che, quando andava bene, prendeva duemila euro per un libro che ci metteva due anni e mezzo a farlo. Non sono andato in vacanza per qualcosa come sei anni, quindi quando raccontavo di vita di provincia discretamente derelitta non è che mi dovessi inventare chissà che; la forzavo, chiaramente, la traslavo, ma era quello che conoscevo.

Dicevano che raccontavo storie di provincia, di adolescenti di provincia, di mezzi drogati di provincia, di mezzi delinquenti di provincia… Il fatto è che io lo facevo mentre ero un mezzo drogato di provincia, un mezzo delinquente di provincia; o almeno lo ero stato fino a pochissimo tempo prima di raccontare quelle storie. Per cui in realtà raccontavo gli affari miei e gli affari dei miei amici. È buffo, perché io per tanti anni, quando ero più giovane, cercavo il mio stile e so quanto la sofferenza più forte per un ragazzo che vuole fare un mestiere artistico sia proprio quella di trovare il proprio stile; e io non ho fatto differenza: ho passato tantissimi anni somigliando ad altri autori contro la mia volontà, scrivendo come altri autori contro la mia volontà, cioè in sostanza senza riuscire ad avere una voce mia.

Nel libro Esterno notte ho trovato la mia voce, e uno dei processi è stato scegliere di raccontare solo quello che conoscevo. Una caratteristica del fumetto italiano non d’autore era – è ancora – il fatto che parla di cose che sono completamente distanti da noi; i protagonisti di questo tipo di fumetto sono persone con nomi inglesi, con facce di attori, che vivono in Londre immaginarie, in New York immaginarie… Io invece volevo raccontare casa mia; non perché via Baracca mi piaccia di più della Fifth Avenue, ma perché mi dicevo che forse, raccontando cose che conoscevo molto bene, avrei avuto una voce originale, mia, propria. Poi le cose sono cambiate e con La mia vita disegnata male ho dato l’ultima botta al passato. Arrivato a quel punto le cose andavano meglio, guadagnavo abbastanza da non essere più uno delle mie storie, però avevo ancora vivo tutto il bagaglio di ricordi di cose da adolescenza e probabilmente, inconsciamente, le volevo anche chiudere. E poi quel libro era veramente un conto con il passato, uno sguardo su perché sono fatto in questa maniera, perché la vita ha preso queste pieghe, a un’età in cui di solito poi le pieghe rimangono per sempre.

La mia vita disegnata male è andato benissimo, troppo. Ha venduto quarantamila copie, record assoluto totale storico di vendita di un fumetto in Italia. E delle cose sono cambiate ulteriormente, e a quel punto il mio scollamento dalla mia vita precedente era assoluto. Il problema è che nella vita nuova secondo me non c’era un cazzo da raccontare. Quando “ti stacchi dalla terra” per un qualsiasi motivo è come se il reddito corrispondesse a una sorta di cecità indotta, per cui non vedi più niente, vedi le cose da una distanza che non ti fa partecipare quanto serve per poi poterle trasformare in racconto. Per me lo sguardo di uno che ha la villa a Capalbio e che parla dei giovani poveri non vale niente. Sono un po’ radicale su questo punto, ma non perché penso che sia un atteggiamento ipocrita, ma perché credo che proprio non possa riuscire a parlarne: è una roba da telepati, è come essere al di là di una parete, è volere dire cosa succede e quali sentimenti ci sono nell’altra stanza, senza mai entrarci. Quindi mi sono ritrovato così: mi ero costruito un linguaggio su delle basi e quelle basi non c’erano più. Le nuove basi non sapevano di niente, cioè erano ottime per andare magari alle feste e mangiare nei ristoranti di lusso se volevo, però non funzionavano con il racconto.

A me cominciavano ad arrivare i soldi, materiale mai visto in vita mia. Non mi sposto più con il treno locale Pisa-Lucca che passa da San Giuliano, Rigoli, Ripafratta, ma prendo gli aerei. Senza rendermene conto mi succede qualcosa: la vanità inizia a scavare il buco. Oggi sono arrivato alla conclusione che la vanità sia il nemico numero uno della creatività; diventa un agente distruttivo che si applica soprattutto alle persone che hanno avuto delle carenze affettive di crescita, cosa che io indubbiamente ho avuto e certificato dalla mia storia famigliare. Non c’è roba alla Dickens, non ci sono abbandoni nella pioggia e roba del genere; semplicemente sono cresciuto con uno dei due genitori che mi amava solo quando ero bravo, che è una cosa molto diffusa. Se io ero bravo mia madre mi voleva bene. Cresci pensando che quello sia l’amore: quella cosa che ti arriva quando sei bravo. E quindi diventi bravo: io so sciare, so portare una barca a vela di quindici metri praticamente da solo, so suonare basso batteria chitarra tastiere, imparo le lingue senza studiarle… Tutto quello dove posso eccellere lo devo fare, perché ho imparato quello. Ho imparato che per essere amato devo essere bravo. Per cui, guarda caso, chi pensa questo fa mestieri tipo l’attore, il cantante, lo scrittore, cioè roba dove vai a ricercare la stessa forma d’amore.

Io faccio un bel libro, cioè sono stato bravo, mi arriva un applauso e questo applauso mi scalda il cuore. Problemino: quella forma d’amore lì ti fa un buco che ti genera uno strano brivido di gelo nel corpo. Quando prendi gli applausi, cioè quanto ricrei quel meccanismo nel quale sei cresciuto, questa forma di amore che ti arriva dall’esterno ti dà l’idea di tappare quel buco; però succede una cosa strana: in realtà il buco ti si allarga. Per cui dopo te ne servono di più di quegli applausi, di quell’apprezzamento. E il buco continua ad allargarsi. Il succo è che il micro-successo avuto per La mia vita disegnata male ha innescato proprio questa roba qui, cioè mi ha allargato il buco nel cuore fino al punto in cui mi ci passava il vento gelido a cento chilometri l’ora. E una mattina alle sette sono arrivato a Psichiatria a Pisa, a quattro zampe, ho bussato e ho detto: “Mi aiutate, per favore? Perché penso solo a levarmi dal mondo”. Senza motivo. Volevo solo morire. Mi hanno visitato, mi hanno fatto una lista di farmaci, di robe da prendere, me li hanno dati, io li ho buttati via appena uscito dal cancello. Non li ho mai presi, però ho aggiustato un po’ di cose.

Ho tolto tutte quelle forme di gratificazione artificiale che m’ero costruito intorno; ho cambiato città, ho lasciato Parigi – che cazzo ci stavo a fare io a Parigi? Io sono uno che non va al cinema, non va a teatro, non me ne frega nulla di andare alle mostre, non vado ai musei, praticamente stavo a rubare il posto a un uomo civile. Sono tornato a casa mia, mi sono rimesso a stare coi miei amichetti ai quali non frega nulla di che tipo di mestiere io faccia, se vendo un libro o se ne vendo cinquantamila. Ho incrociato le dita, perché in quegli anni questo processo di raggelamento faceva sì che io andassi a raccontare e non mi venisse nulla. Andavo al tavolino e non mi veniva nulla. La mia vita era sempre stata quella, cioè che io andavo al tavolo e succedeva questa magia per cui scrivevo, disegnavo, facevo delle cose che più o meno mi piacevano. Morto. Quello che mi ha sgretolato è stato il rendermi conto che questa cosa, che io avevo sempre temuto che mi abbandonasse, mi aveva effettivamente abbandonato. Ho messo in atto un po’ di questi processi di aggiustamento, ho smesso di vestirmi come un coglione con tutti i completi fighi eccetera, ho smesso di fare la bella vita, mi sono ridimensionato molto, ho dovuto aspettare tre anni e mezzo e un giorno mi sono rimesso a disegnare. Una volta, parlando con Riccardo Mannelli, tanti anni fa mi disse: “Io e te siamo al sicuro, perché tanto prima o poi ci arriva la botta nella testa. Tutte le volte si torna giù nel pozzo e dal pozzo si ricomincia a lavorare”.

 

Lui è un genio. Lui ha il genio

 

L’unica cosa che ho fatto è stato riflettere sulla vanità, cioè su quali sono gli effetti della vanità su uno che in sostanza è un artista, che ha impostato la sua vita al guardare e al raccontare le cose. Ci ho riflettuto, ho cercato di mettere dei freni, dei paletti e modificare la vita, in modo che la vanità fosse meno permeante, e alla fine, dopo cinque anni di questo trattamento, un giorno così dal nulla mi sono rimesso al tavolo a disegnare, ma senza pensare prima.

Sui social media a volte uno fa una battuta e gli altri gli dicono “Sei un genio”. Facendo il mestiere che faccio, cioè inventando roba, di questi commenti ne ricevo parecchi. Nella nostra società contemporanea si usa dire “lui è un genio”; gli antichi greci invece usavano lo stesso termine in un’altra forma, dicevano “lui ha il genio”. Questo significava, per loro, che quella persona, in quel momento della sua vita, era toccata dagli dei in un modo tale che lui possedeva – in quel momento, per quel periodo – il genio. Per me è molto importante questa differenza fra noi che intendiamo “lui è un genio”, come se fosse questione di nascita, e quest’altra “lui ha il genio” come processo anche probabilmente a tempo. Credo molto in questa definizione antica. Anche perché ho sempre avuto la sensazione di lavorare bene quando avevo il sentore di non essere lì; come se uno potesse svanire e diventare un tramite fra dei misteri e il foglio. E questa sensazione l’avevo sempre tradotta nell’idea di un uccellino che mi stava sulla spalla, con la fragilità della sua condizione, che appena ti muovi piglia e vola via. Per cui avevo sempre questa sensazione di un uccellino che stava qui e che all’orecchio mi suggeriva che cosa fare.

Quando non ho più avuto la capacità di lavorare, avevo semplicemente la sensazione che l’uccellino fosse giustamente andato via, che magari fosse andato da qualcun altro che aveva in quel momento un comportamento e faceva delle scelte anche etiche, di esistenza, più meritevoli; tutto qua. Per cui m’ero messo l’anima in pace: c’ho patito tanto, ma se è andato è andato. È durato quanto, sette anni? Ci puoi stare, va bene. Un giorno salgo al piano di sopra della casa dove abitavo prima, dove avevo il tavolo da disegno dove non mi mettevo mai e dove però avevo anche il computer dove giocavo sempre a “World of Warcraft”; salgo le scale per andare a vedere se il mio non-morto del sessantesimo livello passa al sessantunesimo e così via. E succede che il culo – perché, ve lo giuro, la sensazione è stata quella – si siede sulla sedia di destra invece che su quella di sinistra dove avevo il computer; prendo un foglio, una pennina, e faccio la prima vignetta del libro – nella prima vignetta di Unastoria c’è una stazione di servizio di quelle stile anni ’70 con la frase “Dammi risposte complesse”.

In quel momento io non ho la più pallida idea del perché io mi sia seduto lì invece che andare a giocare al computer; mi sembra anche stupido, tanto non verrà niente; però faccio questa prima vignetta. E poi ne faccio un’altra accanto – che non viene, quindi la taglio e la butto, e mi rendo conto che non so nemmeno più fare due vignette una accanto all’altra, quindi disegno su un altro foglio, poi ritaglio e la accosto lì; ne faccio un’altra; ne faccio un’altra; ne faccio un’altra. Tutte a pezzetti, non ero in grado nemmeno di fare una tavola, sembravo un atleta abituato a fare i cento metri che si è troncato il bacino e i femori, è stato otto mesi a letto, e prova a camminare di nuovo. A pezzi e bocconi faccio le prime tavole del libro. Non ho idea di cosa sia, in quel momento; non ne ho veramente la più pallida idea. So che giorni prima ho accompagnato in bagno mia madre, che ha novantadue anni; lei si era guardata allo specchio e aveva detto “Oddio, come son diventata vecchia”. Ora, mia madre era molto bella da giovane; e io sono sicuro che lei non poteva davvero vedere com’era in quel momento e avere davvero una memoria di com’era stata. In quel suo “come sono diventata vecchia” in realtà c’era anche un briciolo di vanità; nel suo “come sono diventata vecchia” era incluso il mio “no, mamma, guarda come sei bellina”. Lei non si vedeva come mi diceva. E lei non si poteva vedere vecchia, cioè una specie di uccellino bagnato alto così di una donna che invece andava sulle Apuane in bicicletta. E lì mi venne questo pensiero di quanto la natura ci protegga.

 

Una pittura monumentale

 

Unastoria per me era una reazione a tutto quello che avevo fatto prima, anche alle cose fatte in buona fede (come La mia vita disegnata male) ma che poi avevano avuto effetti brutti sulla mia vita. La prima decisione è stata quindi di non chiedermi nulla, di non fare un’operazione di razionalizzazione della storia. Non avevo nessuna storia davanti mentre lavoravo, avevo solo un desiderio erotico di giustapporre delle immagini e delle parole e basta. Quell’atteggiamento per me voleva dire che per la prima volta dopo tanto tempo stavo lavorando per me, non per il pubblico. La prima dozzina di pagine di una storia è difficile, non è amichevole per chi legge. Ma volevo ritornare a quando ero ragazzo, quando disegnavo per il gusto del disegno e facevo i fumetti per il gusto dei fumetti, non c’era nessun pubblico, non c’era nessuna vanità da alimentare. Era solo che godevo a fare quella cosa e volevo ritrovarla, perché quella mi mancava più di tutto il resto. Ero talmente fragile e spaventato all’idea che mi potesse di nuovo abbandonare il disegno che non gli ho chiesto nulla, ho solo assecondato il desiderio e basta, con una fiducia e probabilmente anche una presunzione enorme negli anni di lavoro che avevo alle spalle. Avere fatto tutto un libro così per me è un motivo di orgoglio enorme: riuscire ad andare avanti solo per un desiderio sessuale di pittura, di colori, di ritmo, tutto d’istinto.

La sfida stava nel riuscire a mantenere il flusso e soprattutto stava nel non cedere alla paura. Io sapevo di avere delle meccaniche di racconto che funzionano, ma non le volevo usare. Volevo fare una roba ostile al lettore, ma ostile anche a me. Per riuscire a ripartire, per ritrovare l’amore originale per me ci voleva un sacrificio da tutto, anche dai miei metodi, perché mi sono sentito troppo fasullo per troppo tempo nei miei tentativi di rifare i fumetti e non mi volevo sentire così, mi faceva schifo l’idea, e quindi volevo completamente un altro approccio. Non c’è niente di peggio, per uno che ha avuto una crisi creativa in quel modo, di mettersi al tavolino e lasciare che la mano rifaccia quello che già sa fare: è una sensazione di morte terribile! Ho cambiato anche modo di dipingere, sono andato su YouTube a guardarmi dei tutorial giapponesi di acquerello e ho scoperto che usavano i pennelli piatti invece che i pennelli tondi, come io pensavo si dovesse fare…

E poi volevo fare un libro che fosse “monumentale”, un termine che mi ha insegnato un anziano pittore inglese, David Tindle, che aveva il desiderio di fare una pittura monumentale, che fosse cioè fuori dalla contemporaneità, che avesse la stessa forma e pesantezza e leggerezza insieme degli affreschi della Roma antica. Quei volti sono stati dipinti millenni fa e sono perfetti, non sono andati giù di niente come intensità? Non dico che ho fatto un libro che resterà nei millenni, voglio dire che ho rifiutato i giochini della contemporaneità, perché volevo fare una pittura, un racconto che fosse staccato da questo momento, che non mi interessa affrontarlo nel modo “normale”. Penso che l’ironia sia praticamente una piaga sociale, mi sembra che la quantità, diffusione e vizio di fare ironia e essere sarcastici su qualsiasi cosa sia veramente una malattia, una roba da apocalisse zombie.

 

A chiacchiere son buoni tutti

 

Tante volte scherzo sul fatto che penso che parlare ai ragazzi più giovani sia impossibile. Però gli puoi invece mettere davanti degli esempi di scelta etica e di entusiasmo, quello sì. Se fai un lavoro impegnandoti per avere la massima coscienza di te, rifuggendo i fantasmi di fare le cose per essere applaudito eccetera, quella roba può darsi che passi, e cos’è? Forse è un consiglio, di sicuro qualcosa che puoi fare solo in forma d’esempio. Per me una delle cose base è la libertà, l’idea di libertà, il non diventare uno schiavo. E come fai? A chiacchiere sono buoni tutti. Devi fare delle scelte di comportamento, di etica e economiche che poi ti permettano di essere percepito in quella forma da qualcuno o da un ragazzo più giovane. Quello ti vede dipingere e dice “Ah! Si può essere in quella zona”, che è esattamente quello che mi successe quando vidi lavorare Andrea Pazienza. Sei in carne un metodo, che vuol dire che per esempio non fai una serie di cose. Per me l’idea di libertà nel lavoro è sacra, per cui se faccio illustrazioni per Repubblica, non so nemmeno quanto mi pagano, però so che l’accordo mio è che nessuno mi potrà dire cosa fare nella forma o altro.

Voglio vedere nel mio lavoro qualcosa che possa servire all’idea di agire in libertà dal giudizio. Per esempio una malattia che vedo diffusissima è il fatto di fare le cose per avere l’apprezzamento. Guarda i talent show musicali: c’è gente che canta da dio e suona benissimo, pieni di vitalità, di energia, ma vanno a abbassare la testa di fronte a tre mostri di giudici. Vanno a compiacerli, vanno a farsi mettere in discussione nel loro spirito più profondo, e mi fa tanta tristezza vederlo succedere a dei ragazzi. Quando poi vado a lavorare in un libro come Unastoria, la mia scelta politica è di non cercare di fare un libro che qualcuno lo applaudirà. Tutto il vento della contemporaneità tira in una direzione e io non dico “non seguirla”, dico semplicemente “non ascoltare la direzione in cui va”, poi magari ci vado per caso nella stessa direzione.

“Dammi risposte complesse” è la prima frase del libro e non è lì a caso, e ora lo so; al tempo non lo sapevo, era un momento in cui a problemi estremamente complessi c’erano coglioni che si affannavano per dare la risposta più semplice possibile, sbagliata, per cui per me affrontare la via più impervia anche nel racconto era una scelta politica.

 

Trovare la propria voce

 

Anche per la scelta che ho fatto di lasciare la Francia e tornare nella provincia pisana, ho una certa fiducia nella dimensione più ristretta. Qui mi sono fatto un sacco di amici nuovi più o meno giovani, non so se mi sarebbe riuscito in una grande città. Ho molta fiducia nel fare le cose insieme. Se delle persone più giovani ti vedono stare al mondo con un minimo di scelte non proprio convenzionali, non proprio indirizzate soltanto al terrore e alla paura, ricevono una trasfusione di forza che gli può servire. Penso che uno debba applicarsi sulla generosità e sulla compassione, cioè sullo sforzo di percepire gli altri come anime viventi e non come figure di carta, come comparse nella vita. Tanti ragazzi che hanno un’indole artistica fanno fatica a scegliere cosa raccontare, cosa guardare, dove mettere gli occhi. È difficile riuscirci finché non fanno il passo di comprensione degli altri, di compassione verso qualunque entità fuori da te, anche quelle che detesti.

Tira un vento di schiavitù emotiva talmente forte che qualunque tipo di reazione fa bene. Faccio spesso queste discussioni, dove mi ricoprono di merda, sulla questione dei soldi. Io azzardo provocazioni tipo “devi lavorare gratis”: che è una merdata, lo so benissimo; però se sei un disegnatore la fattura non può essere il tuo primo pensiero. Non perché devi essere un artista che vive d’aria, ma perché ti fa proprio male. Un disegnatore giovane chiamato a collaborare con una delle innumerevoli riedizioni del “Male” rese pubblica una mail che aveva ricevuto lamentando il fatto che in questa lettera gli si diceva “venite, dateci i disegni, collaborate” senza fare menzione dei soldi che avrebbero avuto o meno. Tutti chiaramente gli dettero ragione. In questa discussione io dissi: “C’è un giornale di satira e il vostro primo pensiero sono i soldi?”. La satira si fa sul potere, punto. Non si fa sui più deboli, si fa sui più forti e se diventi forte smetti di farla, fine. Il potere sono i soldi per me, e come si fa a fare una satira su un sistema economico quando il tuo primo pensiero rientra esattamente nello stesso canone? Ti monetizzi, e dopo che cosa critichi? E allora io dico: coltiva la tua libertà, coltiva l’autonomia, coltiva il tuo sguardo, coltiva la tua voce, e che i soldi siano il tuo secondo pensiero, non il primo. Non dico mica il centesimo: il secondo! Se coltiverai sguardo e voce, un giorno di quei soldi te ne daranno pure di più.

Quando io guardo una cosa, chi è che la sta guardando? Quello che vedo lo vedo con i miei occhi, o lo vedo con degli occhi che mi sono stati dati? Una volta che sono riuscito a vedere una cosa con uno sguardo quantomeno mio, autentico, poi c’è il problema di raccontare quello che ho visto e quindi si presenta lo stesso problema: con quale bocca sto parlando? Con quale mano sto scrivendo? Di chi è? Di chi sono le parole che uso? Essere un autore, uno che vuole lavorare in campo artistico, è un privilegio: invece di fare il parcheggiatore abusivo sei a scrivere, si capisce questa differenza? Io ho lavorato in fabbrica per un anno e quelli che lavoravano con me sono sempre lì, perché io no? Non sono chiamato a farmi un culo atomico per riuscire ad avere uno sguardo e una voce differente? Secondo me sì, altrimenti non si capisce perché io non dovrei essere a lavorare in fabbrica e qualcun altro dei miei ex compagni a scrivere al posto mio. Bisogna lavorare sul rendersi liberi dai meccanismi indotti: lo so che ti fanno sentire un estratto conto da quando nasci a quando tiri il calzino, ma ti devi ribellare a questa roba, che vuol dire andare via di casa anche se non hai lo stipendio da 1500 euro, perché tanto sei giovane, e non muori se vai a dormire in una stazione! Poi lo so che sarebbe molto più giusto che i ragazzi avessero un lavoro ben pagato, che permettesse di uscire di casa pagandosi un affitto dignitoso eccetera, ma non è così. Ora ho un sacco di amichetti di 35-40 anni che stanno con babbo e mamma, e perché? Perché quando avevano l’energia e la forza di andare a dormire per la via non l’hanno fatto.

Spesso parlo con i ragazzi che vogliono pubblicare a tutti i costi, ragazzi giovani, e quando gli dico che secondo me non sono pronti loro mi rispondono tipo “vedrai, se mando la roba a mille editori, uno che mi pubblica lo troverò”. Io gli rispondo sempre allo stesso modo: “sì, sicuramente, e ti farà male”, perché la questione vera è: che qualità di uomo vuoi diventare? Io non dico di essere in pace, ma ogni tanto c’è, soprattutto quando sono a disegnare, in un momento di abbandono, una cosa che funziona, una scintilla di pace: quella scintilla non vale di più di averci il nome in copertina sull’Espresso? Io so per esperienza di sì, e questa cosa mi piacerebbe farla capire, perché i ragazzi più giovani vivono in una società che, invece, gli dice “sarai una merda finché non verrai rappresentato”, invece se ti riesce a costruirti uno sguardo che ti permetta di percepire per un attimo l’armonia di quello che c’è intorno, hai vinto. Non voglio passare da artistoide, sono solo convinto che quando riesci a sviluppare quello sguardo, questo diventa una caratteristica che altri pagheranno pur di potervi accedere, quindi perché non andare dietro a quello? Se va male, comunque, sarai cresciuto spiritualmente, che non è proprio una cosa che faccia schifo; se va bene, in più, ci campi.

 

L’urlo dei geni

 

La voce dei geni è una roba buffa che ho sentito due volte. La prima quando morì mio padre, che era una persona alla quale ero molto legato. Successe durante un’operazione, all’ospedale di Pisa, una notte. Ero lì con la mia famiglia ad aspettare di vedere come andavano le cose. Scende questo chirurgo con la faccina proprio da “mi spiace, non c’è stato niente da fare”. Io, che sono un po’ fuori di cervello, cosa faccio? Do una spinta al dottore, salgo le scale e mi infilo dentro la sala operatoria. Vedo mio padre lì, sul tavolo di lamiera, col sangue e tutto. Piangevo a dirotto, avevo le orecchie che mi fischiavano una che nemmeno mi fosse scoppiata una bomba a un metro di distanza, mi girava tutto come se fossi ubriaco fradicio. Era la prima morte che capitava nella mia famiglia, e in più capitava alla persona che rappresentava l’amore e l’allegria. A un certo punto si apre una porticina laterale ed entra un’assistente del chirurgo, una bella ragazza, alta, mora. E io mentre sono lì che piango, che c’ho il cuore che mi scoppia eccetera eccetera, sento una voce dentro di me che dice: “boia, com’è bona! L’hai vista? Chissà se gli garbi”. Rimango pietrificato dall’orrore. Penso di aver capito, quella sera, che quella voce lì era veramente la voce dei geni che mi abitano, e che anche in quel momento pensavano al fatto che dovevo procreare, quindi innamorarmi di qualcuno, fare dei figli, eccetera eccetera; perché sì, perché quello vuole il tempo. Me ne sono vergognato moltissimo.

La seconda volta, al contrario, fu quando, fatti tutti gli esami di rito, un amico dottore mi chiamò per dirmi “mi dispiace, non hai spermatozoi nel seme, non potrai mai avere figli”. Io mi dico che un po’ me lo immaginavo, e poi siamo nel 2013, ho tre nipoti e la mia preferita, quella che sento più vicina, è una bimbetta rom adottata dalla mia sorella, per cui che m’importa del sangue? Invece riattacco e sento una specie di uomo delle caverne dentro che comincia a urlare e a spaccare tutto. Un urlo veramente primitivo, l’urlo dei geni che si erano resi conto di essere finiti in una specie di binario morto, dove non servivano niente, dove la loro funzione era annullata. Per me è stato spaventoso e stranissimo, perché a livello culturale io ero assolutamente da un’altra parte. E cos’era questa roba antica, primordiale, dolorosissima, che mi si manifestava dentro? Nei mesi successivi la parte culturale è andata a farsi benedire e la parte primordiale ha preso il sopravvento e mi ha letteralmente sbriciolato. È stata uno dei componenti che mi hanno portato ad andare a quattro zampe in psichiatria: la vanità e la perdita del talento da una parte e questo dall’altra. Mio padre diceva sempre che di cazzotti bisognava sempre darne due perché è il secondo che ti butta in terra; il secondo mi aveva buttato in terra.

So di sicuro che questo urlo dei geni sta accadendo dentro tutte le cose che sto facendo a livello artistico. È stata una coscienza aggiunta molto strana, che sicuramente mi ha portato a fare le riflessioni sulla natura che poi sono cadute in Unastoria. Come fai a stare al mondo se hai il sospetto che la natura non ti voglia? Di più: che la natura ti detesti? Il mio processo di pensiero negli anni è stato: la natura non sa che esisto perché io e la natura siamo entità distanti; la natura è priva di pensiero, non ha volontà e quella cosa stranamente alla fine è consolante: parti da un abisso di spaesamento e arrivi invece a una cosa che ti dà una misura. Le persone sono bestie nude, nascono e non hanno davanti un sentiero, un solco che è l’istinto e che sicuramente seguiranno: hanno un’infinità di possibilità, e questo dà terrore e spaesamento totali che portano poi a stronzate tipo la “tradizione”, tipo a chi dice “noi padani” o “la famiglia”, che sono tutte costruzioni che servono per ricreare, in forma fittizia, un solco simile a quello di un cane, cioè una strada naturale. Proprio a livello biologico è una cazzata. Tu non sei niente, mettiti l’anima in pace: puoi anche dire che sei un padano, o che sei uno dei fratelli di Casa Pound o un no-TAV o uno di Anonymous con la maschera da coglione, ma non sei nulla e in realtà sei tutto. Potresti essere la libertà incarnata, e invece per terrore ognuno si mette in un binario che più è stretto e più si è felice.

Mi piacerebbe dire ai ragazzi “scusa, te sei un rivoluzionario, ma non ti viene il dubbio che, visto che l’immagine e le parole della tua rivoluzione ti arrivano attraverso un blockbuster americano, sia una trappola, che il meccanismo sia becero?”. Il segreto della tua libertà è un segreto. È un mistero in cima a un picco alto quattromila metri, non è a portata di clic. A portata di clic hai una trappola, ci scommetto qualsiasi cosa. Le armi per la liberazione non saranno di sicuro lì, perché lì te le danno preconfezionate: dicono di mettersi una maschera e dire certe parole, vedrai che cambia tutto. Secondo me ti stanno truffando alla grande. Diffondere le mail degli scambi tra i dirigenti dell’Enel e dell’Eni può cambiare il mondo? Non credo, ma penso che ci sia chi fa diventare le cose spettacolo, perché viene dallo spettacolo, perché è fatto di spettacolo, e il mondo dello spettacolo vuole che tu rimanga esattamente così.

 

 

 

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Nicola Ruganti

Nicola Ruganti (1979) insegna materie letterarie nelle scuole superiori. Collabora alla rivista Lo straniero ed è redattore de Gli asini, rivista di educazione e intervento sociale. Collabora con Altre velocità, redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee. Con Lorenzo Maffucci ha ideato il progetto Nevrosi, dedito all’archiviazione e alla produzione di emergenze artistiche e all’organizzazione di iniziative culturali, tra cui il festival “Arca Puccini. Musica per combinazione”. Anima numerosi progetti di sperimentazione pedagogica promossi dall’associazione Arcobaleno di Pistoia e collabora da tempo con il Centro territoriale Mammut di Napoli, favorendo l’intreccio di pratiche ed esperienze tra periferie.
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