REPUBBLICA DEL 6 GIUGNO 2019 ::
Commento Sinistra
I deboli senza sinistra
La socialdemocrazia europea non appare in grado di proteggerli. Lo stato sociale costruito con fatica non basta più
Il dato più rilevante nella rivoluzione delle rappresentanze politiche in atto in tutta Europa non è l’avanzata del populismo, ma la crisi delle socialdemocrazie. Negli ultimi 15 anni i partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale hanno perso 25 milioni di voti, mentre i partiti populisti della destra nazionalista guadagnavano 17 milioni di elettori. Le socialdemocrazie europee hanno perso consensi tanto negli anni di ripresa economica e occupazionale, quanto negli anni più duri, quelli della Grande Recessione e della crisi del debito pubblico della zona Euro. Normalmente i partiti socialdemocratici ottengono più voti durante le recessioni perché gli elettori si rivolgono a chi sembra maggiormente in grado di offrire loro tutele e protezione sociale, soprattutto in Europa, la culla dello stato sociale. Invece, questa volta la crisi delle socialdemocrazie europee si è aggravata proprio negli anni di crisi, dal 2008 al 2014. I voti questi partiti li hanno persi proprio tra coloro che avrebbero avuto maggior bisogno di protezione sociale: lavoratori poco istruiti, disoccupati, abitanti di piccoli centri con un passato manifatturiero, persone non più autosufficienti. La socialdemocrazia non appare più in grado di proteggere i più deboli, lo stato sociale che ha costruito con tanta fatica nel Dopoguerra non basta più.
Cosa non funziona dello stato sociale edificato dalle socialdemocrazie europee? Il primo difetto è che offre protezioni temporanee, mentre gli shock subiti dai più deboli sono spesso permanenti. La Cassa Integrazione o un sussidio di disoccupazione hanno una durata limitata e la pensione, l’unico trattamento senza vincoli di durata, si è per giuste ragioni allontanata nel tempo. Ma chi perde il lavoro a 50 anni e risiede in piccoli centri colpiti dalla crisi del manifatturiero, spesso in via di spopolamento e non in grado di offrire impieghi alternativi nei servizi, rischia di ritrovarsi spiazzato per il resto della propria vita. Grave che in Italia si sia aspettato così a lungo per costruire una rete di protezione sociale di base, un reddito minimo garantito, lasciando poi l’iniziativa a chi non ha saputo (o voluto) disegnarlo in modo adeguato.
Il secondo difetto è che uno stato sociale si fonda sulla solidarietà perché protegge da rischi, quali la perdita del lavoro, la malattia, l’inabilità, la longevità non coperta da adeguati risparmi per la vecchiaia, persone che sono soggette a questi rischi in modo diverso. Chi ha meno rischio di perdere il lavoro accetta di aiutare chi ha un rischio di disoccupazione più alto. Chi è giovane e in salute aiuta chi è anziano e non può più lavorare. Ma quando i profili di rischio sono molto diversi o ci sono forti distanze culturali, non tutti sono disposti a questa condivisione. Molti cittadini europei non si sentono di essere più di un tanto solidali nei confronti dei nuovi arrivati, soprattutto quando provengono da paesi con tradizioni, religioni, culture, molto distanti dalle nostre. Può piacere o meno, ma questo è un dato di fatto. Per anni i partiti socialdemocratici hanno ignorato i problemi posti dall’intreccio fra immigrazione e stato sociale. Per molto tempo non hanno voluto parlare dell’immigrazione, lasciando il monopolio del problema ad altri, che ne hanno allontanato ancor di più la soluzione. Anche in questo caso ci sono delle vie d’uscita, non facili, ma ci sono.
Il coinvolgimento dell’Europa nell’offrire protezione sociale ai nuovi arrivati in nome del fatto che gli immigrati sono i più mobili abitanti del Vecchio Continente; politiche dell’immigrazione realistiche, che impongano gradualità nei flussi rispettando i tempi di adattamento dei paesi di accoglienza, ma senza chiudere le frontiere all’immigrazione regolare; l’abbandono della scelta miope di portare i richiedenti asilo in piccoli centri dove non hanno opportunità di lavoro e sono più visibili; il sostegno alle scuole dove c’è una percentuale più alta di immigrati; percorsi di cittadinanza che stimolino i nuovi arrivati a integrarsi a tutti gli effetti nel nostro Paese, anziché relegarli a una strutturale diversità. Sono tutte strade da perseguire. Gli immigrati devono poter stare dove sono più accettati e hanno più opportunità di lavoro, nei grandi centri urbani dove sono anche concentrati i maggiori beneficiari della globalizzazione e dell’immigrazione. I sindaci delle grandi città devono avere maggiore voce in capitolo nella gestione dell’immigrazione. Bene che la loro voce si faccia sentire come si è fatta sentire quella dei sindaci delle grandi città statunitensi di fronte ai muri eretti da Trump, oppure quella dei sindaci di Toronto e di Londra quando hanno chiesto di avere un ruolo meno indiretto nella gestione dell’immigrazione. Il silenzio per timore di favorire gli avversari politici o gli appelli morali alla convivenza, non sorretti da misure concrete, servono solo ad accentuare le distanze fra gli elettori Ztl e tutti gli altri.
Con questo articolo Tito Boeri riprende la collaborazione con Repubblica