IL MANIFESTO DEL 1° MAGGIO :: DUE ARTICOLI SUL VENEZUELA ::::: 1. ROBERTO LIVI / 2. ALBERTO NEGRI

 

 

IL MANIFESTO DEL 1° maggio 2019

https://ilmanifesto.it/non-e-piu-una-crisi-interna-torna-il-patio-trasero-usa/

 

INTERNAZIONALE

Non è più una crisi interna, torna il «patio trasero» Usa

Attacco al Venezuela. Washington contro la «soluzione negoziata». Se non riescono a fuggire, sia Guaidó che il padrino politico López, saranno arrestati. I paesi ostili del Gruppo di Lima si sono detti contrari a un intervento armato contro Caracas

Caracas, manifestazione ieri pro-Maduro a Miraflores
Caracas, manifestazione ieri pro-Maduro a Miraflores

«È l’ora» di un golpe contro il presidente costituzionale Nicolás Maduro. Il messaggio inviato ieri da Juan Guaidó proveniva direttamente da Washington, dai falchi dell’Amministrazione Trump che subito hanno chiamato all’insurrezione popolare. Entrambi i messaggi hanno fallito il loro scopo. Non vi è stato golpe, né insurrezione popolare, né spaccatura delle forze armate bolivariane.

NON PER QUESTO, però, è stata sconfitta la linea dei falchi di Washington. I quali hanno «bruciato» Guaidó per passare a un nuovo livello della loro strategia ormai chiara da settimane: abbattere il governo bolivariano di Maduro. Di soluzione negoziata della crisi venezuelana nemmeno parlarne, aveva dichiarato a Foreign Policy l’ammiraglio Craig Faller, capo del Comando Sud degli Usa, il quale ha fissato come data limite «la fine dell’anno» per un intervento militare, naturalmente per «difendere la democrazia e i diritti umani» in Venezuela.

SONO PASSATI ormai tre mesi da quando, il 23 gennaio, Juan Guaidó , fino allora un deputato dell’Assemblea nazionale (Parlamento) sconosciuto ai più, si era autoproclamato presidente ad interim. In questo lasso di tempo la situazione in Venezuela, se non fosse pericolosa e drammatica, potrebbe essere descritta come surreale. Nonostante le pressioni internazionali di Trump che hanno portato al riconoscimento di Guaidó da parte di 50 nazioni , e nonostante le durissime sanzioni economiche, finanziarie e commerciali degli Usa che stanno strangolando l’economia del Venezuela e gli attacchi cibernetici e informatici, il presidente costituzionale Maduro ha continuato a governare in pieno possesso degli attributi fondamentali dell’esercizio del potere, dal controllo dell’esecutivo e dell’amministrazione pubblica al comando delle Forze armate.

DA MESI il conflitto in corso i n Venezuela ha perso la sua condizione di «problema interno», ma è debordato e investe tutta l’America latina. Il presidente Trump ha rispolverato la dottrina Monroe e vuole riprendere il dominio del «patio trasero» – cortile di casa – degli Stati uniti e «abbattere i l socialismo» in Venezuela, come pure a Cuba e in Nicaragua. Le classi dominanti locali tentano di seppellire tutte le richieste popolari che sono emerse nella regione nella decade precedente, quando la cosiddetta «marea rosa» aveva conquistato i principali paesi dell’America latina.

ANCHE A QUESTO livello, nonostante l’impegno diretto del segretario dell’Organizzazione degli stati americani (Oea) Almagro e del presidente della Colombia Iván Duque a abbattere «il presidente usurpatore» Maduro, vi è un sostanziale stallo. Anche i paesi ostili del Gruppo di Lima si sono detti contrari a un intervento armato in Venezuela. Lo dimostrano le reazioni polarizzate al tentato golpe a Caracas. Inoltre il presidente Vladimir Putin si è mostrato propenso a entrare come protagonista nella crisi in corso in Venezuela, come lo ha già fatto in Siria e di recente in Libia.

IN SOSTANZA l’«effetto Guaidó» si è sgonfiato. E il personaggio non è più utile come leader credibile del popolo venezuelano. Ma può esserlo come “vittima della repressione” del governo bolivariano. L’intervento del Tribunale supremo di giustizia contro il presidente dell’Assemblea nazionale è stato chiesto ad alta voce dai maggiori leader bolivariani, in primis dalla richiesta di Diosdado Cabello, il presidente della rivale Assemblea nazionale costituente, che «si vada fino in fondo». E che non vi sia immunità per chi promuove pubblicamente, «con un video», un golpe. La stessa indicazione è venuta dal Ministro della Difesa, Vladimir Padrino López il quale è intervenuto in diretta tv assieme allo Stato maggiore per dichiarare la fedeltà e unità delle Forze armate venezuelane e per denunciare un tentativo di golpe, attuato «in modo mediocre da un ridotto gruppo di militari e poliziotti». I responsabili di questo sollevamento sono stati definiti «terroristi».

VI SONO POCHI dubbi che, se non riescono a fuggire, sia Guaidó che il suo padrino politico López, leader della formazione di destra Voluntad Popular, saranno accusati di vari reati che prevedono l’arresto. Nell’opposizione, composta da una trentina di gruppi politici che vanno dalla socialdemocrazia alla estrema destra ( il gruppo di Guaidó), vi sono vari leader che hanno biografie più autorevoli dell’autoproclamato presidente per assumerne la leadership. E che da tempo stanno sfumando le loro posizioni per salvaguardare la loro immagine in caso di una svolta della crisi. Purtroppo, l’esito a breve scadenza di tale crisi appare più determinato dalle decisioni della Casa bianca che dalla, universalmente e ipocritamente invocata, necessità che siano le parti in causa a decidere il futuro del Venezuela.

 

IL MANIFESTO DEL 1° maggio 2019

https://ilmanifesto.it/il-primo-maggio-venezuelano-piu-lungo-e-incerto/

 

Il primo Maggio venezuelano più lungo e incerto

Guaidó vs Maduro. Il petrolio guasta tutto ed è la vera posta in gioco

 

Caracas, 30 aprile. Il confronto tra Guardia nazionale bolivariana e i sostenitori di Guaidó davanti alla base militare La Carlota

Caracas, 30 aprile. Il confronto tra Guardia nazionale bolivariana e i sostenitori di Guaidó davanti alla base militare La Carlota

 

 

È il primo maggio più lungo e incerto nella storia recente del Venezuela. Ma è anche il «nostro» primo maggio in cui qui qualcuno vuole litigare tra Guaidó e Maduro.

Ma se dovessimo scegliere tra i due qual è il problema? In un giorno abbiamo liquidato Serraj a Tripoli, come avevano chiesto gli americani, pur avendolo sostenuto per tre anni. Se da Washington ce lo chiedono, come sembra probabile, lo faremo anche stavolta.

Juan Guaidó, leader dell’opposizione autoproclamatosi presidente ad interim a gennaio, all’alba di ieri, liberando Leopoldo Lopez con un pugno di soldati, ha giocato non tanto la carta del golpe ma quella dell’insurrezione e forse ha spinto il Venezuela sull’orlo della guerra civile. Speriamo di sbagliarci: nella serata di ieri erano in corso scontri molto duri soprattutto davanti alla base aerea La Carlota, a est di Caracas mentre appariva ancora calma la situazione attorno al palazzo presidenziale di Miraflores, dove si era concentrato un gruppo di sostenitori del governo Maduro.

Non sappiamo ancora se questa rivolta sarà davvero la fase finale della crisi venezuelana.

Ma c’è da dubitarne: quello che si può intuire sono ulteriori spaccature dentro a una società che nella narrativa corrente si vuole compatta dietro l’opposizione e contro il presidente Maduro ma che in realtà è assai più frammentata e complessa.

Chi vincerà avrà comunque tra le mani un Venezuela ferito e sanguinante. Vittima prima di tutto di equivoco colossale: il Venezuela non è fallito con Maduro e tanto meno con Chavez, ma molto prima, quando ancora sembrava lo stato più ricco e promettente dell’America Latina.

I primi ad accorgersi della situazione saranno proprio americani, europei e alleati regionali che già in Medio Oriente hanno creato una destabilizzazione senza precedenti dalla seconda guerra mondiale e con questo brillante curriculum si sono preparati a sistemare quel Venezuela che possiede le maggiori riserve petrolifere del mondo dove un governo incapace – per altro strangolato dalle sanzioni, come Trump vuole fare anche con l’Iran – è riuscito a passare da una produzione di oltre tre milioni di barili nel 2012 a poco più di un milione e in un periodo in cui le quotazioni del greggio sono precipitate rispetto ad anni fa.
La crisi del Venezuela si riassume in queste amare cifre perché e c’è poco da girarci intorno. Sono 60 anni che il Venezuela vive soltanto di rendita petrolifera, non esporta altro che oro nero.

In Venezuela, fuori dal campo petrolifero, si investe poco o nulla e la borghesia è abituata da sempre a esportare i suoi dollari nei conti all’estero, imitata poi nell’ultimo ventennio dai militari di Hugo Chavez e di Maduro. E siccome i conti all’estero si sono assottigliati anche per la borghesia ecco che è scesa nelle piazze.

La gestione del petrolio e della ricchezza è stata amministrata per decenni da una élite corrotta e sfaccendata, poi è passata in mano allo stato e con Chavez nel ‘99 ai militari, non meno corrotti di quelli che c’erano prima. Chavez almeno ha cercato di risollevare i poveri e gli ultimi della società, un messaggio che un certo successo l’ha avuto. Questi nuovi ci portano davvero verso la democrazia o a un massacro?

Il petrolio in Venezuela ha alimentato la visione di uno “Stato Magico”, dove bastava mettere le mani sulla rendita per cambiare le cose. Si è creata così nel tempo una burocrazia ipertrofica, clientelare e inefficiente. Si è venduta così ai venezuelani una narrativa assai distorta: quella di una «società ricca», modellata dal consumismo effimero e spendaccione, che genera sistematicamente fenomeni di corruzione, scarsissima produttività ed efficienza del lavoro.

In poche parole il Venezuela è uno stato fallito, non tanto e non solo nei conti della vita quotidiana, diventata dura per la maggioranza della popolazione, ma proprio nella sua stessa essenza di nazione: vive di rendita petrolifera e non sa fare altro.

Ecco perché in Venezuela non ci sarà una vera transizione, per ottenerla ci vorrebbe un cambio profondo di mentalità: la fine dello “Stato Magico”.

Ma il petrolio guasta tutto ed è la vera posta in gioco non solo per i venezuelani ma anche per gli Usa e le potenze esterne come Cina e Russia, i più grandi creditori del Paese insieme agli americani. Il Venezuela deve essere «normalizzato».

Il problema di uno stato fallito è proprio il cambio di regime: se accadrà passerà probabilmente da un caos a un altro, forse contagiando anche gli stati vicini.
Gli Stati uniti vanteranno una vittoria ideologica della «democrazia» ben sapendo che si tratta di un altra fake news, di un’altra colossale bugia.

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