REPUBBLICA DEL 26 MARZO 2019
La polemica
BATTISTI, GIÙ LA MASCHERA
Benedetta Tobagi
Decenni di dinieghi, campagne innocentiste e attacchi contro la presunta iniquità dei giudizi sono andati in fumo in un momento. È bastato che l’ex terrorista Cesare Battisti si trovasse in carcere, e diventasse più consono alla sua linea difensiva riconoscersi colpevole dei quattro omicidi per cui è stato condannato anziché gridare alla persecuzione politica, per fare tabula rasa della narrazione che ha sedotto tanti intellettuali, per troppi anni, in Francia, in Brasile e in Italia. Come se nulla fosse.
Possiamo finalmente considerare archiviate le filippiche pretestuose fondate sull’alterazione dei dati di fatto (dalle condanne che sarebbero state basate sulle parole di un solo pentito alle presunte violazioni dei diritti della difesa). Speriamo che scrittori, filosofi e simpatizzanti se ne facciano una ragione, ora che la loro icona ha riconosciuto di essere stato condannato da uno Stato democratico, con processi equi.
Come ha detto Maurizio Campagna, fratello dell’agente di pubblica sicurezza Andrea, una delle quattro vittime di Battisti, le scuse suonano stridenti e artificiose, tanto sono fuori tempo massimo. Ben più delle scuse, conta il riconoscimento della verità dei fatti, accertata dalla magistratura. È questa che porta sollievo non solo alle vittime, ma anche a tutti i cittadini che hanno nella memoria, negli occhi e nel cuore le ferite della violenza terroristica che ha lacerato l’Italia per oltre un decennio.
La mancanza di riconoscimento aggiunge, sempre, violenza psicologica alla violenza fisica già consumata. Negare alle vittime, e, in questo caso, alla società tutta, il riconoscimento della verità dei fatti significa costringerle a scivolare su un ghiaccio sottile. Significa rendere ancora più arduo rimarginare le ferite morali e simboliche. Se è necessario ingaggiare una battaglia costante perché la realtà dei fatti non venga mistificata, negata o manipolata, diventa molto arduo lasciarsi il passato alle spalle, come sanno fin troppo bene anche le vittime di mafia e del terrorismo stragista ( ma anche chi ha subìto abusi). Il riconoscimento di un’evidenza troppo a lungo negata è un sollievo risanatore. Una “memoria condivisa” è impossibile, laddove ci sono stati vissuti così radicalmente diversi come quelli di chi, negli anni Settanta, mise mano alle armi e chi invece la violenza l’ha subita, chi si è aggrappato alla fatica della democrazia, anche davanti agli abusi di potere e agli omicidi.
E non è nemmeno auspicabile, se per realizzarla si edulcora e si annacqua la verità complessa degli scontri che hanno percorso la nostra società. Uscendo però dal livello puramente soggettivo, la condivisione (o comunque il civile confronto, nel rispetto reciproco, oltre le diversità) è possibile sul piano della “memoria storica”, ossia sul terreno in cui si ragiona sui fatti avvenuti, sul contesto in cui si sono verificati, sulla loro qualificazione sociale, politica, giuridica, sul funzionamento della macchina giudiziaria.
È su questo terreno che, finalmente, Cesare Battisti ha accettato di condividere con la stragrande maggioranza della società italiana, insieme alla correttezza della ricostruzione offerta in sede giudiziaria dei quattro omicidi e delle numerose rapine per cui è stato condannato, una lettura complessiva di ciò che è accaduto in Italia nei cosiddetti anni di piombo.
Quanto sia sincero non è dato saperlo (e per la verità non è nemmeno così rilevante): resta comunque un passaggio importante, il fatto che uno dei personaggi- simbolo della visione apologetica o addirittura romantica del terrorismo di sinistra abbia riconosciuto gli effetti nefasti che l’azione armata di brigatisti e affini ha avuto sulla società, comprimendo le libertà e gli spazi d’espressione del dissenso. Riconoscere la correttezza dei processi che l’hanno condannato, prendere le distanze dal se stesso di allora, vuole dire abbandonare la rappresentazione ( autoassolutoria) che descrive l’Italia degli anni Settanta come in preda a una fantomatica ” guerra civile”. Non erano in guerra, l’agente Campagna, il macellaio Sabbadin, il gioielliere Torregiani, l’agente di custodia Santoro e le altre decine e decine di morti ammazzati. C’è stato un lungo e virulento terrorismo, e l’Italia ne è uscita senza brutalizzare la propria Costituzione democratica. Punto.
Benedetta Tobagi (1977) è scrittrice e studiosa di storia. Tra i suoi libri, “Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita” (Einaudi, 2013) e “La scuola salvata dai bambini” (Rizzoli, 2016)
Benedetta Tobagi è la figlia minore del giornalista Walter Tobagi, assassinato dalla “Brigata XXVIII marzo” il 28 maggio 1980. Laureata in Filosofia, ha lavorato alcuni anni nella produzione audiovisiva, occupandosi in particolare di documentari, e in campo editoriale. Collabora con il quotidiano la Repubblica; ha condotto la trasmissione Pagina 3 su Radio 3 e l’edizione 2011/2012 del programma mattutino Caterpillar AM su Radio 2 insieme a Filippo Solibello, Marco Ardemagni e Cinzia Poli. È studentessa di dottorato in storia presso il dipartimento di italianistica dello University College di Londra.
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