linkiesta del 10 marzo 2019::: prof. Giuseppe Plazzi, prof. di Neurologia a Bologna::: Perché l’insonnia è il male del nostro secolo (e come venirne a capo)—

 

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Salvador Dalì, Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, 1944

 

 

linkiesta — 10 marzo 2019

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/03/10/perche-linsonnia-e-il-male-del-nostro-secolo-e-come-venirne-a-capo/41361/

 

10 marzo 2019

Perché l’insonnia è il male del nostro secolo (e come venirne a capo)

È una vera e propria malattia, e ne soffre una persona su tre. Alcuni utili consigli per capire cosa sia, come affrontarla e come riuscire a liberarsene, senza abusare di farmaci, possibilmente

I Tre Fratelli Che Non Dormivano Mai 350X486

Tre fratelli affetti da un’insonnia letale, un frate perseguitato dal diavolo, un uomo capace di volare, una donna tormentata da fantasmi col collo lungo, un giovane sonnambulo colpito da una mutazione genetica, le acrobazie sessuali di una coppia durante il sonno, un intero paese caduto in letargo: sono soltanto alcune delle molte storie raccolte in queste pagine dal dottor Plazzi, dalle quali emerge un universo notturno costellato di sogni, incubi, allucinazioni, capacità soprannaturali e imbarazzanti risvegli in cui ogni lettore, con sorpresa, non faticherà nel suo piccolo a riconoscersi.

Un’opera dal ritmo romanzesco e dalla temperatura letteraria – nel solco della tradizione di Oliver Sacks –, spaventosa a volte, altre volte divertente, grazie alla quale scoprire gli angoli più bui delle nostre notti, capire i meccanismi segreti del sonno e acquisire una consapevolezza preziosa: neanche solcando tutti i mari, guadando tutti i fiumi, attraversando tutte le terre o arrampicandoci sulle più impervie cime che punteggiano questo mondo riusciremmo a vedere tante cose quante il nostro cervello è in grado di mettere in scena in una notte.

Giuseppe Plazzi è professore di Neurologia presso l’Università di Bologna, dove dirige il Centro per i disturbi del sonno, ed è attualmente presidente dell’Associazione italiana di medicina del sonno.

«Stanotte non ho chiuso occhio.»
Quante volte abbiamo ascoltato o pronunciato noi stessi queste parole?
Se c’è una cosa che ci accomuna tutti, in questo nostro tempo preso d’assalto dalla frenesia del lavoro, dalla dipendenza dai social, dalla necessità di essere rapidi e multitasking in qualsiasi attività ci sia richiesta di compiere, è la difficoltà che poi incontriamo nel dormire. Quell’estenuante veglia che ci fa rigirare da un lato all’altro del letto, i pensieri che affollano il soffitto, l’orizzonte di un torpore lontano che non arriva mai.

L’insonnia, si potrebbe dire, è il motore di questo secolo che non dorme mai. Un motore per sua natura guasto, fuori uso, ridotto a una scatola vuota. Gli scienziati ci mettono in guardia ogni giorno sui rischi legati a un sonno di cattiva qualità e sulla sua privazione. Sappiamo che quest’ultima mette a dura prova il sistema cardiovascolare, provocandone una continua stimolazione – la frequenza cardiaca è sempre più alta e la pressione arteriosa sistemica tende a non calare durante un sonno di cattiva qualità. Inoltre, incredibilmente, la restrizione di sonno fa ingrassare e riduce la sensibilità all’insulina, predisponendoci a livelli più alti di glicemia. Per non parlare poi della memoria! Da decenni abbiamo individuato in una circonvoluzione profonda, protetta, della corteccia cerebrale, l’ippocampo, l’archivio dei ricordi, la principale sede della memoria. La certosina catalogazione dei ricordi è un lavoro notturno: le sinapsi, le connessioni fra le cellule nervose, durante il sonno ordinano i ricordi e li connettono in modo che il giorno successivo possiamo evocarli. Infine, la privazione di sonno provoca sonnolenza e stanchezza durante il giorno. Ci sentiamo più stanchi, più depressi, più distratti, rischiamo di fare errori e provocare incidenti. Talvolta anche tragici.

Ma che cos’è realmente l’insonnia? Ogni insonne potrebbe fornire una sua versione del disturbo che lo porta a rivolgersi a un medico, spesso descrivendolo come un male terribile che gli ha rovinato l’esistenza impedendogli di vivere le sue giornate pienamente; nello stesso momento, ogni insonne è anche costretto ad ammettere che ogni sua affermazione riguardo le notti passate in bianco è quasi sempre esagerata. Siamo portati molto spesso a iperbolizzare quello che ci accade di notte, a punteggiarlo di dettagli inverosimili e soprattutto a esasperare le nostre esperienze. Chiunque di noi abbia un insonne vicino infatti – il proprio partner, un convivente, un familiare – l’ha certamente visto dormire, ma guai a contraddirlo il mattino seguente, non appena vi dirà, fissandovi con gli occhi ridotti a due fessure e la faccia distrutta: «Non ho dormito neanche un secondo».

Quando esaminiamo un paziente insonne nel laboratorio del sonno, dopo averlo seguito per settimane chiedendogli di scrivere un diario che testimoni le ore di veglia ogni notte – raccontate con dovizia di particolari e spesso con un tono drammatico –, spesso scopriamo che in realtà impiega pochi minuti ad addormentarsi, oppure che trascorre la maggior parte della notte in un sonno continuo e profondo. È davvero difficile in questi casi comunicare i risultati senza scatenare una reazione indignata. Anche se si tenta di rassicurare il paziente, la sua prima reazione sarà senza dubbio seccata. «Pensa che mi inventi di non dormire dottore? Crede che mi lamenti solo per divertimento o per attirare l’attenzione?» mi ha detto una volta una signora prima di alzarsi, prendere la borsa e uscire con aria offesa dal mio studio. Chissà quanti familiari, amici, medici le avranno detto e ripetuto che l’insonnia non è, in genere, una condizione grave. Eppure, quando viene richiesto a un insonne di tenere un diario, ci troveremo a sfogliare pagine di disperazioni notturne, di risvegli continui associati a pensieri inarrestabili, circolari, labirintici. Oppure risvegli precoci, che condannano l’insonne a vedere l’alba ogni giorno, o a incontrare in cucina i propri figli che rientrano alle quattro di mattina. Non per scelta, non per vegliare sul riposo degli altri, ma per una dannazione inspiegabile.

Si potrebbe allora dire che ogni insonne è un bugiardo? Prima di suscitare la rabbia in circa una persona su tre anche fra i lettori di questo libro, proprio ora che ci addentriamo nelle stanze più appartate del laboratorio, cercherò di mettere un po’ di ordine su questo disturbo. Ho appena detto che d’insonnia non si muore, tuttavia l’insonnia può logorare le persone, costringendo chi ne soffre a temere la notte come se fosse davvero popolata da sanguinari vampiri in grado di succhiare loro tutta l’energia, fino a farli implorare di essere salvati. Come abbiamo già avuto modo di accennare, l’insonnia, o meglio la restrizione di sonno, rappresenta inoltre un importante rischio di sviluppare un’ipertensione arteriosa e disturbi metabolici, in primo luogo un incremento di peso e diabete. Si tratta, quindi, di una malattia che va riconosciuta e trattata adeguatamente. Ancora oggi non esistono criteri obiettivi e marker biologici che consentano di classificare una persona come «insonne», e la diagnosi si basa semplicemente sulla sensazione soggettiva di un decadimento della quantità e qualità del proprio sonno. La grande difficoltà a definire l’insonnia in base a criteri oggettivi dipende soprattutto dall’enorme intervallo di variabilità delle ore di sonno nella popolazione generale, non insonne e non malata. Il fabbisogno di sonno cambia infatti da persona a persona e si modifica nel corso della vita, e questo significa che non esiste un numero di ore minimo per un sonno soddisfacente, anche se il limite minimo di 6 ore è una norma estensibile a oltre l’80 per cento della popolazione adulta.

Per l’attuale Terza classificazione internazionale dei disturbi del sonno, uscita nel 2014, l’insonnia è «una condizione caratterizzata dalla sensazione di un sonno notturno compromesso da difficoltà a iniziarlo e/o da durata, continuità o qualità insoddisfacenti e tali da compromettere in qualche modo il funzionamento durante le ore diurne», e questo nonostante opportunità e circostanze favorevoli a un buon sonno, come una stanza silenziosa oppure l’aspettativa di una mattina domenicale senza impegni. È quindi importante ricordare che, per poter definire una persona «insonne», difficoltà del sonno e compromissione dell’attività diurna devono coesistere. La privazione di sonno, causata dai nostri comportamenti sbagliati, dalle cattive abitudini o da necessità lavorative, non causa necessariamente un’insonnia. Una volta ripristinato un normale ritmo sonno-veglia – collocando quando possibile il sonno nelle più propizie ore notturne – i disturbi legati alla cattiva qualità di un riposo disordinato scompaiono.

Chi ha affrontato una diagnosi di insonnia, per problemi personali, per sua cultura e curiosità o perché ha un background medico o psicologico, noterà come la definizione dell’insonnia sopra citata tracci con decisione una nuova rotta. Non si parla più di «insonnie primarie», essenziali, puri disturbi del sonno in senso stretto, e di «insonnie secondarie», dovute a un’altra malattia di interesse medico, all’abuso di farmaci o sostanze, oppure associate a malattie psichiatriche. E questo perché un grande numero di dati empirici, studi epidemiologici e osservazioni scientifiche hanno dimostrato un’enorme sovrapposizione nei sintomi delle precedenti categorie nosografiche, e soprattutto che anche qualora un’insonnia esordisse come secondaria a un’altra condizione medica, questa può perdurare e proseguire nel suo decorso nonostante la completa risoluzione della causa primaria. Non basta dunque sradicare la causa da cui è generata l’insonnia per estirparla. L’insonnia poi, anche se all’inizio rappresenta soltanto un sintomo satellite di una malattia più grave, può di fatto influenzarne il decorso. Soprattutto in senso negativo se non viene riconosciuta e curata. Per questo va sempre osservata con attenzione e trattata indipendentemente ogni volta che occorre. Molte volte, però, quell’incapacità di dormire che ci stringe nel letto non è per forza sintomo di una malattia grave. È, invece, la fisiologica conseguenza di un periodo particolarmente stressante, reso invivibile da pressioni esterne, problemi sentimentali, ansie per un esame o un appuntamento importante, preoccupazioni quotidiane che si accatastano nei nostri pensieri come i bastoncini di uno Shangai sempre sul punto di crollare. Oppure dalla paura di eventi terrificanti, dallo stato di allerta che alcune catastrofi possono imprimere nella nostra mente in maniera traumatica, come è successo alle persone di questa nuova storia che ho deciso di raccontarvi.

Prima dell’alba del 20 maggio 2012, pochi minuti dopo le quattro, una scossa di magnitudo 6.1 segnò l’inizio di un terremoto che coinvolse per tutta l’estate un popoloso territorio italiano fra Reggio Emilia, Modena, Ferrara e Bologna. La forte scossa era stata preceduta da due eventi sismici di minore entità, sempre nella notte del 20 maggio, seguita, nelle settimane e nei mesi successivi, da altri significativi smottamenti. Quel terremoto è rimasto nella memoria di tutti: causò decine di morti, migliaia di sfollati e danni ingenti; camminando tra i muri scalcinati dei paesi colpiti si restava impietriti alla vista delle case sventrate, alla fotografia già ingiallita di un mondo secolare sgretolato, abbattuto, ridotto a un cumulo di macerie.

In quei giorni, le continue sollecitazioni provocate dallo scontro delle due placche tettoniche attivarono un’inarrestabile sequenza sismica che condannava la popolazione dell’area colpita a mesi di notti insonni. Gli abitanti sfidarono ogni tipo di disagio per risolvere nel modo migliore e nel più breve tempo possibile l’emergenza, il ripristino delle attività produttive prima, e poi la ricostruzione. Di fronte al perdurare dello sciame tellurico e all’imprevedibilità di nuove scosse devastanti, non sorprende perciò che molti avessero paura di andare a dormire. In quel periodo io e i miei colleghi eravamo impegnati nel trasloco di tutte le attività assistenziali e di ricerca, laboratori inclusi, in un nuovo ospedale costruito sulle colline di Bologna. Eravamo quindi impreparati a effettuare un’indagine epidemiologica per capire quanti abitanti nell’area sismica soffrissero di sintomi di insonnia, difficoltà ad addormentarsi o risvegli frequenti, e di programmare uno studio polisonnografico per un campione della popolazione. L’ambulatorio del sonno, tuttavia, continuava a funzionare regolarmente e ad accogliere quanti si recassero da noi per una consulenza: oltre centocinquanta persone si presentarono lamentando insonnia. Un’insonnia apparsa all’improvviso e in alcuni casi in maniera molto dura. Era, di fatto, quello che mi aspettavo. L’insonnia, come abbiamo detto, è spesso una reazione naturale a una situazione stressante, e in questo caso lo sconvolgimento delle abitudini di vita, le continue sollecitazioni dello sciame sismico e la paura di una nuova scossa violenta costringeva un grande numero di persone a un costante stato di allerta.

Visitai così molti insonni che avevano sviluppato il disturbo contemporaneamente e in modo acuto, nel giro di pochi giorni o settimane. La visita ipnologica per un quesito di insonnia è sostanzialmente un colloquio clinico preceduto dalla somministrazione di scale e questionari che abbiamo selezionato per la cartella clinica del Centro per lo studio e la cura dei disturbi del sonno. L’uso di scale e questionari in medicina è sempre più diffuso per studi epidemiologici, per misurare l’impatto economico e sociale delle malattie, per valutare la risposta ai farmaci e, negli ambulatori, come screening per i pazienti. I questionari, se compilati seguendo correttamente le istruzioni, consentono di orientare il colloquio verso ipotesi diagnostiche. Le scale indicano con numeri la presenza/assenza di un disturbo o la gravità di una malattia, e in medicina del sonno, dove l’approccio è tipicamente multidisciplinare, forniscono insieme ai questionari importanti informazioni riguardo aspetti che il medico potrebbe non essere particolarmente preparato a raccogliere in modo corretto ed esauriente in un’anamnesi clinica tradizionale.

Prendiamo per esempio un disturbo d’ansia, una depressione o un disturbo sessuale. Molti di noi vivono periodi altalenanti, segnati da una delusione, da una responsabilità difficile da sopportare o dall’emergere di un problema fisico che ci impedisce di compiere attività comuni. Porre le giuste domande spesso non è facile e richiede un training adeguato. Un questionario validato, compilato dal paziente da solo prima della visita, pone la domanda giusta, non equivocabile, consente di risparmiare tempo, evita imbarazzi e il rischio di distogliere il paziente e il medico dal punto centrale durante il colloquio. Esistono anche questionari che indicano la propensione circadiana al sonno, per esempio distinguono chi dormirebbe volentieri presto alla sera e si sveglierebbe prestissimo al mattino: le cosiddette «allodole», che hanno difficoltà a concentrarsi nel pomeriggio e, condannati a esser svegli prima della luce del mattino, possono avere più spesso disturbi dell’umore. Al contrario i «gufi», che non andrebbero mai a letto, hanno pessime performance mattutine. Un cronotipo mattutino, ossia una persona con una spiccata propensione a svegliarsi molto presto, può erroneamente pensare di essere insonne e assumere farmaci per prolungare il suo sonno. La scala della sonnolenza e quella della fatica possono così darci informazioni importanti sull’impatto diurno di un’insonnia, mentre il diario del sonno, compilato dal paziente stesso con le informazioni sull’orario in cui il soggetto si corica e si alza al mattino e sui risvegli notturni, ci mostra il report soggettivo del sonno.

È sempre meglio evitare di portare un paziente insonne nel laboratorio del sonno per uno studio polisonnografico, o almeno riservare questa opzione per studi mirati, per esempio di efficacia farmacologica, oppure per pazienti selezionati o particolarmente complessi. Meglio studiare l’insonne nel proprio ambiente e con lo strumento meno invasivo possibile. La tecnica oggi più utilizzata è il monitoraggio actigrafico, che consiste nel far indossare al soggetto insonne uno strumento, di solito un finto orologio da polso, che contenga un accelerometro tridimensionale, un sensore della luce, un sensore della temperatura cutanea e un pulsantino marker che il paziente potrà schiacciare ogni volta che si corica o che si alza, per indicare i periodi di riposo. L’accelerometro misura la quantità e l’intensità del movimento, non direttamente il sonno. Tuttavia, algoritmi sofisticati e validati ci consentono di ricavare dati importanti sul ritmo attività-riposo e identificare, all’interno di questi ultimi, i periodi di sonno. Il monitoraggio della temperatura ci dà informazioni sul corretto utilizzo dello strumento (per esempio se la temperatura precipita è verosimile che l’actigrafo in quel momento non sia indossato), e infine la luce ci informa sulle condizioni di illuminazione ambientale nelle quali il soggetto si trova nelle 24 ore.

Confrontare il monitoraggio actigrafico e il diario del sonno consente di valutare la percezione soggettiva dell’insonnia e le frequenti discrepanze con un dato oggettivo ricavato dallo strumento. I dati epidemiologici indicano come l’insonnia sia fra i disturbi più frequenti. Circa il 10 per cento della popolazione soffre di insonnia cronica, mentre la prevalenza dell’insonnia transitoria, quella che appunto ci assale in determinati periodi della nostra vita, arriva al 30-35 per cento. È più frequente nel sesso femminile, è spesso associata ad altre malattie in corso o a disturbi psichiatrici, è più comune nelle categorie più disagiate dal punto di vista socio-economico e compare con maggior frequenza nelle persone anziane.

Dopo circa un mese dalle prime devastanti scosse, in piena estate del 2012, iniziammo a vedere i primi pazienti con insonnia provenienti dalle zone terremotate, il così detto «distretto sismico». A seguito di migliaia di altre piccole scosse, si temeva che l’attività sismica non si sarebbe ridotta in tempi brevi, e come sempre i media tenevano alta la tensione, proponendo servizi che miravano a spettacolarizzare la tragedia, a farle da cassa di risonanza, anziché rassicurare sulle previsioni dei tecnici. Le varie leggi empiriche che prevedono un rapido declino di frequenza e intensità delle scosse non sembravano avere alcun potere rassicurante di fronte alle continue segnalazione e alla percezione diretta di nuove scosse. Le immagini della tv vincevano ogni duello con le evidenze scientifiche. Effettuammo registrazioni actigrafiche mediamente per 12 giorni per ogni soggetto, avevamo quindi monitoraggi che corrispondevano a notti disturbate da scosse di terremoto e ad altre che invece erano tranquille. Facevano eccezione e causavano estremo disagio le situazioni abitative provvisorie, dove le persone erano costrette a dormire per prudenza.

Con nostra sorpresa, a parte i risvegli provocati dalle scosse, la maggior parte dei soggetti registrati non aveva apparentemente disturbi del sonno. In particolare, in seguito alle scosse gran parte dei soggetti sembrava riaddormentarsi con estrema facilità e in tempi rapidi. Questo contrastava con quanto riportato nei diari, dalla lettura dei quali apparivano condizioni di grave insonnia e risvegli notturni frequenti e molto lunghi: «I pensieri non mi lasciano, cerco di distogliere la mia mente, ci riesco per qualche minuto poi di nuovo ritornano, più di prima, brutti, angoscianti, fino al mattino… mi devo alzare proprio nel momento in cui sento che mi riaddormenterei…». «Non ho dormito un minuto… il mio sonno tre mesi fa era perfetto, solo un risveglio o due. Poi mi riaddormentavo immediatamente…» «Non riesco a prendere sonno, penso di essere rimasta immobile nel letto per tutta la notte. Mio marito mi ha detto che ho russato ma io ho pensato tutta la notte. Lui ha russato. Non dormirò mai più?»

Come si potevano allora conciliare i riscontri oggettivi con la drammaticità del vissuto soggettivo e con i dati epidemiologici, che seppure raccolti in modo grossolano mostravano un incremento dell’incidenza di insonnia? L’ansia, senza dubbio, si traduceva in una paura di andare a dormire, in una difficoltà di addormentamento, che era interrotto da frequenti microrisvegli. Una volta iniziato, però, il processo del sonno poteva essere spezzato soltanto da eventi oggettivi, vale a dire dalla percezione reale delle scosse di terremoto. Tranquillizzati sulla natura transitoria del disturbo e soprattutto sulla mancanza di possibili ripercussioni di questa insonnia sia sulla salute fisica sia su quella mentale, la maggior parte dei soggetti che si erano rivolti a noi preferì non assumere alcun trattamento farmacologico.

Cercammo di comunicare l’informazione fondamentale, che tutti dovrebbero tenere a mente: in alcune persone sviluppare un disturbo del sonno è l’espressione di una propensione individuale, un modo di reagire allo stress, di metabolizzare un evento esterno, specialmente quando è drammatico. Se erano i giovani, soprattutto, a presentare una difficoltà all’addormentamento, problemi di mantenimento del sonno e un risveglio anticipato erano una caratteristica predominante nella popolazione adulta e in quella anziana. Il terremoto del 2012 ha visto una rapida ricostruzione e, soprattutto, un ritorno alla normalità nella popolazione colpita. Tuttavia, alcune decine di pazienti che ho conosciuto in quella drammatica circostanza, nonostante siano ritornati a una normale routine quotidiana, continuano a frequentare regolarmente gli ambulatori del Centro del sonno. Questo conferma che l’insonnia, anche se slatentizzata, sfrenata o valorizzata di fronte a un evento scatenante, può proseguire la sua strada verso una cronicizzazione, nonostante quest’ultimo sia ormai da considerarsi passato. In questo caso, con il tempo si consolida e anche dal punto di vista dello studio del sonno compaiono alcune alterazioni caratteristiche. In particolare, un aumento della latenza di addormentamento superiore a trenta minuti, oppure una o due ore di veglia infrasonno, un aumento del sonno leggero (la fase di sonno N1) e una riduzione di sonno a onde lente (la fase di sonno N3). Le analisi più raffinate hanno poi dimostrato, almeno in un sottogruppo di pazienti insonni, un aumento delle frequenze più rapide dell’elettroencefalogramma, a testimoniare una predominanza del sonno leggero, e quindi meno ristoratore. La riduzione della quantità totale del sonno al di sotto delle 6 ore e, come accennato in precedenza, del sonno profondo, espongono la persona insonne a un maggiore rischio per il sistema cardiovascolare, a una tendenza a un incremento del peso, a una ridotta sensibilità all’insulina e verosimilmente, a un rischio di sviluppare un diabete. In questi casi, il trattamento dell’insonnia va delegato allo specialista.

La terapia farmacologica è spesso indicata, ma va associata a una corretta informazione sull’opportunità di rispettare alcune regole di «igiene del sonno» che consentano di predisporci a un sonno notturno di qualità. Soffrire di insonnia rischia paradossalmente di innescare comportamenti notturni o esacerbare rituali che tendono a peggiorare il disturbo. Dormire con la mascherina o i tappi nelle orecchie, per esempio, non aiuta l’insonne, anzi può aumentarne l’ansia. Molto spesso mi è capitato di sentire pazienti ossessionati dall’uso di questi piccoli rimedi, al punto di ottenere l’effetto opposto, ostacolando l’addormentamento: «Devo fare attenzione a non strusciare la testa sul cuscino, potrei spostare la mascherina». Bisognerebbe invece fare attenzione ad alcuni piccoli dettagli per riuscire a guadagnare un sonno migliore: per esempio, evitare di coricarsi «quando si è stanchi», quando abbiamo raggiunto lo stremo della forze, ma piuttosto essere molto regolari negli orari e nel periodo trascorso a letto, che in ogni caso non deve mai essere troppo lungo. Non dobbiamo neppure tergiversare tra le coperte al mattino, perché quest’abitudine si ripercuoterà negativamente nell’addormentamento della notte successiva. E i risvegli notturni non vanno stimolati o allungati artificialmente accendendo e consultando il cellulare o il tablet che tutti noi, immancabilmente, teniamo di fianco al letto.

Seguire le regole per il buon uso del sonno, l’igiene del sonno, ed eventualmente una terapia cognitivo-comportamentale – nei casi in cui si renda necessaria – sono approcci corretti e davvero molto utili, e sinergici a qualsiasi trattamento farmacologico venga somministrato. Affidarsi esclusivamente, peggio ancora se di propria iniziativa, a una terapia farmacologica conduce infatti spesso a un uso cronico di farmaci e talora anche a un abuso.

Si tratta di piccole precauzioni e utili rimedi che ognuno di noi, in base alla gravità della propria insonnia, può mettere in atto. In altri casi molto rari, invece, questo disturbo può rappresentare il primo segnale di un destino tragico e ineluttabile, in parte ancora avvolto da un alone di mistero, come nella storia dei tre fratelli che sto per raccontare.

 

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