grazie a Nemo! EZIO MAURO, EDITORIALE, DUE POPOLI, UN TESORO DA NON SPRECARE –REPUBBLICA DEL 4 MARZO 2019 –pag. 1-21

 

 

 

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REPUBBLICA DEL 4 MARZO 2019 –pag. 1-21

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L’editoriale

DUE POPOLI UN TESORO DA NON SPRECARE

Ezio Mauro

 Risultati immagini per ezio mauroEzio Mauro (Dronero, Cuneo, 1948)

Uscire di casa, molto semplicemente, per testimoniare un’altra idea dell’Italia. Lo hanno fatto in duecentocinquantamila a Milano, sabato, alla manifestazione contro il razzismo. E ieri, oltre un milione e mezzo di persone si sono messe in coda ai gazebo nelle piazze di tutt’Italia, nelle primarie che hanno scelto Zingaretti come nuovo segretario del Pd. Sono due movimenti non coincidenti, ma concentrici perché mossi, entrambi, dalla stessa spinta: la coscienza della responsabilità democratica nei confronti del Paese, di chi vuole andare avanti, di chi chiede aiuto e anche di chi ha paura. È la responsabilità della democrazia, che fa parte della civiltà italiana e che ormai sembrava travolta.

Nella disgregazione sociale di oggi, nella disintermediazione che annulla ogni autorità, probabilmente chi ha marciato e chi ha votato lo ha fatto per se stesso, per testimoniare un’idea e un’identità più che un’appartenenza. Ma ieri, la gente si guardava davanti ai tavolini malfermi dei gazebo, allo scotch che chiudeva le scatole di cartone trasformate in urne, ai volontari sotto la bandiera tricolore e scopriva di stare tra simili, addirittura tra superstiti, come dopo un naufragio.

La stessa sensazione solidale a Milano, per strada, come un segnale di riconoscimento di cui si era smarrito anche il codice, l’alfabeto.

Si potrebbe dire che queste migliaia di persone hanno risposto alle due chiamate da individui, per poi scoprirsi popolo. L’opposto della pratica populista, che nella società postmoderna isola la rabbia e il livore, incassando il rancore dei singoli, in modo che le paure private si trasformino in egoismo e ostilità, senza emanciparsi.

E invece, nello spazio politico ancora fragile, casuale ed episodico di un weekend, un pezzo d’Italia ha compiuto il passaggio inverso, dall’individuale al collettivo, portando le ragioni e le speranze di ognuno a riconoscersi e a ricongiungersi, diventando così dopo tanto tempo nuovamente una “causa”, cioè trasformandosi in politica.

In questo senso si è trattato di un esercizio della cittadinanza. Invece di continuare a dare la colpa di ogni cosa al sistema politico, come predicano i nuovi qualunquisti, e di aspettare i demiurghi del cambiamento sull’astronave delle scie chimiche, una parte di società ha manifestato un dovere di presenza e di testimonianza, trasformandosi in leva e addirittura in soggetto di una politica diversa. Che deve ancora nascere e deve convincere, dopo le delusioni del passato, per provare infine a vincere: lungo cammino, che però adesso ha almeno una data d’inizio, finalmente.

Le parole d’ordine di Milano erano semplici, elementari, addirittura basiche (” prima le persone”) com’è giusto quando vengono messi in gioco i fondamenti di una civiltà democratica, con la xenofobia trasformata in governo, spacciando per sicurezza una ferocia che richiama i fantasmi primordiali della pelle, della razza e del sangue.

Sono parole d’ordine larghe, che vanno al di là della sinistra e interpellano una parte ampia del Paese, magari moderata, persino conservatrice, ma contraria a un cambio di civiltà e a un ripudio della tradizione italiana, anche cristiana. Una difesa del Paese, dunque, delle sue radici e della sua storia, nel momento in cui il populismo leghista e grillino in nome dell’italianità sta operando una metamorfosi d’odio e di irresponsabilità, portandoci fuori dai valori ( e forse dai confini) dell’Occidente e dell’Europa.

Di colpo, è bastato che questa doppia manifestazione di coscienza politica prendesse fisicamente corpo nella sua materialità, rendendosi concretamente visibile nel Paese, per mettere a nudo tutta la povertà concettuale e ideale di una “cultura” gialloverde che vive sui social e nei selfie, si certifica e si confisca nell’imbuto proprietario, privato e fuori da ogni controllo democratico di Rousseau, parla per slogan autocelebrativi e autorassicuranti e non si accorge di esprimere un mondo virtuale, a colpi di “bacioni a chi ci vuol male”, “se lo diciamo lo facciamo”, “il vento del cambiamento ha valicato le Alpi”, “più rimpatri che arrivi”, tra foto di birre, focacce, nutella, lenzuola, e in testa caschi da inaugurazione democristiana.

E invece, improvvisamente, al risentimento fatto politica si oppone un nuovo sentimento repubblicano, uno spirito nazionale alternativo. Che evidentemente non è ancora un’alternativa, ma riportando la politica nelle città impaurite rivela l’esistenza di un giacimento di energia democratica, un serbatoio di cittadinanza attiva, una riserva di valori custoditi nonostante la dissipazione del passato, e le delusioni conseguenti.

Tutto ciò può naturalmente essere disperso da una coazione al cannibalismo troppe volte sperimentata a sinistra, da un gioco di delegittimazione reciproca tra i leader, da un’interdizione permanente, dall’incoscienza di ciò che è e di ciò che significa questa doppia destra populista al potere.

Ma tutto ciò, nello stesso tempo, rappresenta già un cambiamento, il disegno di un destino diverso per il Paese, lo spazio per una nuova politica se la sinistra che nasce oggi saprà trovare la spina per collegarsi a quel giacimento. Se saprà uscire dalla minorità psicologica per cogliere l’opportunità e il dovere di rappresentare appunto ” una certa idea dell’Italia”, secondo la formula di Gobetti. E se saprà parlare al popolo di questo weekend della svolta, dicendogli di insistere, andare avanti, pretendere: soprattutto, di non tornare a casa.

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