ETTORE BOFFANO ( GENOVA, 1954) — ” Django, quell’anima zingara e pop della legenda del jazz ” –Curi, saggista e regista, racconta la breve ma intensa vita di questo mito della musica “manouche”: “Reinhardt, rom e analfabeta, è un’icona da cinema” — IL FATTO QUOTIDIANO DEL 6 FEBBRAIO 2019

 

Django Reinhardt. Una leggenda manouche fra cinema e jazz - Giandomenico Curi - copertina

Django Reinhardt. Una leggenda manouche fra cinema e jazz

Giandomenico Curi

Curatore: L. Cerchiari
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 30 ottobre 2018
Pagine: 416 p., Brossura
EURO 29,00 PREZZO PIENO

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 4 FEBBRAIO 2019

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/02/04/django-quellanima-zingara-e-pop-della-legenda-del-jazz/4945040/

 

 

Django, quell’anima zingara e pop della legenda del jazz

Curi, saggista e regista, racconta la breve ma intensa vita di questo mito della musica “manouche”: “Reinhardt, rom e analfabeta, è un’icona da cinema”

Django, quell’anima zingara e pop della legenda del jazz

La sua avventura ha la magia della musica e della vita zingara: alla periferia di Parigi (e al successo) arrivò infatti con una carovana rom. E oggi potrebbe anche essere un simbolo contrario alla cecità di chi, a una simile magia, oppone l’ottusità dei sovranismi (il “prima gli italiani” nella nostra Penisola) e dei tanti razzismi che fioriscono in Europa. Ma nella sua breve corsa, morì nel 1953 a 43 anni, Jean “Django” Reinhardt è stato soprattutto un grande del jazz e lo straordinario interprete di quello stile, il manouche, che proprio da ritmi cadenzati e dagli strumenti della musica tzigana (chitarre, violini, contrabbassi) traeva la sua ispirazione.
“Uno che ha cambiato l’ordine delle cose: e non solo nell’universo dei jazzisti rom che continuano a venerarlo nel mondo”.

“Un genio che non suona mai la stessa cosa. Che ha segnato un’epoca, che ha stregato e incantato con una magia che ancora dura”.

Che ancora dura, è vero, sino a spingere Giandomenico Curi (notizie in fondo), saggista e regista cinematografico, ad aprire così il suo Django Reinhardt, una leggenda manouche tra cinema e jazz (Casa Musicale Eco, pag. 416, euro 29), volume che aggiunge all’ormai vastissima letteratura musicale dedicata al jazzista il racconto di come il chitarrista e compositore sia poi diventato protagonista di molti documentari e film ispirati alla sua vita.

Nello stesso tempo, però, è anche la rilettura di un’esperienza che, con l’avvento definitivo della Settima Arte e la centralità dei registi francesi dell’epoca, vide intrecciarsi le sorti del cinema e del jazz. “Il cinema si occuperà di lui solo dopo la morte. Da allora non l’ha più abbandonato. Negli anni della gloria, invece, gli passa accanto senza quasi accorgersi di lui. Registi come Carné e Renoir, proprio in quegli anni, realizzano film con dentro le stesse storie, gli stessi sentimenti che attraversano la musica di Django (la vita nei quartieri poveri, la fatica, i sogni, l’amore, il ballo). 7

E anche a livello esistenziale, quella di Django è una vicenda da grande cinema popolare: il suo essere rom e analfabeta, ma anche autentica star della musica più amata dalla gente. Perché allora il jazz era questo: musica meravigliosa per le petit peuple, dai vagabondi ai travet della piccola borghesia impiegatizia… E insieme una vita che tende sempre più alla leggenda e all’evidenza spettacolare di una partitura cinematografica”. Traspare, nel racconto di Curi, documentatissimo ma mai pedante, la passione che Django sa catturare ancora oggi: e non solo per la sua musica geniale. Perché è proprio la sua breve vita ad essere affascinante e struggente. A cominciare dall’incendio della roulotte in cui viveva da ragazzo e che gli costò l’uso della gamba destra e una lesione permanente alla mano sinistra, con i monconi dell’anulare e del medio uniti dalla cicatrizzazione.

Reinhardt rieduca lentamente la mano e si inventa un modo per riuscire a pizzicare ugualmente le corde della chitarra. E forse fu proprio quella menomazione ad aumentare a dismisura la sua già completa bravura. Documentata da interviste, dichiarazioni di amici, riconoscimenti che hanno cognomi e dignità altissimi e che Curi cita senza sosta. Dirà di lui, per esempio, Juliette Gréco: “Django era un dio…! Lo amavano tutti:. Cocteau lo adorava, Prévert ne ha scritto… Sartre e Beauvoir venivano ad ascoltarlo. Ma non c’era nessuna vanità in lui”.

Infine, spiega ancora Curi, assieme a una parabola che sa di cinema, resta sempre salda la fedeltà all’appartenenza zingara: “E lì, c’è un altro pezzo dell’anima di Django: ci sono la sua placenta, la musica manouche, le radici di tutto. E lui sa che, se sei capace di suonare bene quella musica, poi non c’è nessun posto dove non puoi andare”. E scrivendo di lui, anche Curi ci è riuscito.

 

 

Giandomenico Curi

Giandomenico Curi è autore radiofonico e televisivo, saggista e regista. Si occupa da sempre di cinema e musica. Tra i suoi libri: Il cinema francese della Nouvelle Vague; Cenere e diamanti (il cinema di Wajda); Vorrei essere là (cantautori in Italia)Chiedo scusa se parlo di GaberI frenetici: 50 anni di cinema e rockDalida (la voce e l’anima)Semiologia, cinema rock; ecc.

Oltre a un centinaio di videclip, ha diretto due documentari per la Rai (su Baglioni e Guccini), due film (Ciao ma’ e Lambada) e la serie televisiva di Valentina. Da una decina d’anni insegna Semiologia del cinema e degli audiovisivi all’Università di Roma Tre e Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Link University di Roma.

 

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