ISPI (ISTITUTO PER GLI STUDI DI POLITICA INTERNAZIONALE ) , 24 gennaio 2019 ::: ” America Latina Caos Venezuela: opposizioni contro Maduro, il parlamento sceglie Guaidó “. — Nessun fatto nuovo, ma dà delle informazioni preziose…

 

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America Latina

Caos Venezuela: opposizioni contro Maduro, il parlamento sceglie Guaidó

24 gennaio 2019

 

 

L’opposizione venezuelana tenta il tutto per tutto e ha scelto un giorno storico per dare la spallata decisiva al governo di Nicolas Maduro. Il 23 gennaio del 1958 un golpe militare interno mise fine al regime di Marcos Pérez Jimenéz. Sessantun anni dopo è stata l’Assemblea Nacional, il parlamento controllato dall’opposizione dopo la vittoria nelle elezioni del 2015 a proclamare come presidente ad interim il deputato Juan Guaidó, sulla base di quanto disposto dall’articolo 233 della Costituzione, che sancisce la possibilità di destituzione del Presidente in funzione in caso di “abbandono del mandato determinato dal potere legislativo”.

È la cronaca di una mossa annunciata e molto probabilmente concordata con gli Stati Uniti e i paesi latino-americani del gruppo di Lima, che dal 2015 cercano una soluzione alternativa al chavismo in Venezuela. Questi paesi non riconoscono la validità delle elezioni presidenziali del maggio 2018, che si svolsero senza osservatori e arbitri internazionali decretando la vittoria di Maduro. Dato che considerarono quelle elezioni fraudolente – sulla stessa linea fu anche l’Unione Europea – automaticamente hanno dichiarato illegittimo il nuovo mandato presidenziale inaugurato da Maduro il 10 gennaio. Tutti i paesi del gruppo di Lima, ad eccezione del Messico del neopresidente di sinistra Lopez Obrador, hanno invitato Maduro a riconoscere il potere al Parlamento ed accettare la convocazione di nuove elezioni libere e democratiche. L’invito è caduto ovviamente nel nulla; Maduro ha iniziato il suo nuovo mandato, che dovrebbe concludersi nel 2025, e l’opposizione è partita all’attacco.

Guaidò, deputato di 35 anni semisconosciuto fino a un mese fa, è stato riconosciuto immediatamente dagli Stati Uniti di Donald Trump e poi a seguire da tutti gli altri: il Brasile di Bolsonaro, la Colombia, il Canada, il Cile, l’Argentina e così via. Uniche eccezioni regionali sono state la Bolivia, Cuba e il Nicaragua. Ma gli alleati più forti di Maduro stanno altrove e sono la Turchia, la Russia e la Cina. Mosca e soprattutto Pechino sono fortemente esposti in Venezuela; hanno prestato miliardi di dollari al governo di Chavez prima e di Maduro poi e vengono ripagati in parte con petrolio, ma non hanno nessuna intenzione di perdere tutto quello che Caracas gli deve.

Qui si trova il primo imbuto di questa crisi: senza la Russia e la Cina è impensabile una mozione o un’iniziativa sul Venezuela in sede di Nazioni Unite. Annunciando il suo appoggio a Guaidó, Trump ha detto che “nessuna azione è esclusa a priori per ottenere un cambio democratico in Venezuela”. I nostalgici degli anni Settanta, da un lato e dall’altro, hanno subito gridato al golpe americano, all’intervento militare camuffato da insurrezione popolare interna, ma questa ipotesi è oggi francamente impensabile.

E allora, che fare? Washington ha promesso nuove sanzioni, che potrebbero arrivare anche ad un blocco delle importazioni petrolifere, il che provocherebbe l’inasprirsi della già gravissima crisi economica venezuelana, con conseguenze dirette su una popolazione già stremata. La rottura delle relazioni diplomatiche è il passo, sulla carta, obbligato dopo il non riconoscimento del governo in carica. Ma alla chiusura di consolati e ambasciate in Venezuela farebbe seguito una mossa speculare di Caracas e questo provocherebbe seri problemi ai 2.5 milioni di emigrati venezuelani sparsi nei diversi paesi della regione. Come potranno, ad esempio, ottenere la convalida di un titolo di studio, rinnovare il loro passaporto, chiedere certificati penali o qualsiasi documento necessario per vivere o lavorare nel paese d’accoglienza?

Durante la sua campagna elettorale il brasiliano Jair Bolsonaro ha ventilato l’ipotesi di chiudere le frontiere per frenare l’ondata di emigrati venezuelani nel poverissimo stato di Roraima. Ma tale mossa cozzerebbe con le dichiarazioni di condanna al “regime venezuelano”, già che sarebbe contraddittorio condannare una dittatura per poi sbattere la porta in faccia a chi fugge da essa.

Sono questi solo alcuni dei dubbi sulla strategia da adottare a livello internazionale.

Sul piano interno, invece, la grande questione riguarda, come è sempre stato, il livello di fedeltà dei militari con Maduro. È chiaro che qualsiasi cambio di governo sarà possibile solo con l’appoggio di buona parte delle forze armate, che sono impegnate oggi attivamente nella repressione delle manifestazioni di protesta. In Venezuela ci sono più di 2.000 generali; negli Usa, con una popolazione dieci volte superiore, sono poco più di 900. Il “sistema militare” fa parte del governo occupando quasi la metà dei ministeri e controlla un terzo degli stati. Siedono nel consiglio di amministrazione della compagnia petrolifera Pdvsa e gestiscono la distribuzione e lo stoccaggio dei beni alimentari gestiti dallo Stato, spesso gli unici che arrivano nelle zone più degradate. Maduro è circondato da generali e alcuni di loro sono accusati direttamente dalla DEA, l’intelligence antidroga americana, di gestire le reti del narcotraffico che dalla Colombia arrivano negli Stato Uniti e in Europa via Venezuela. Legati a filo doppio al governo, ci si chiede se saranno disposti ad appoggiare fino alla fine il presidente o se ci sono i margini per un tradimento che schiuda lo stallo attuale.

Guaidó ha detto chiaramente che le porte sono aperte a “quegli uomini della famiglia militare che vuole abbracciare di nuovo la ragione del popolo”. Finora ci sono state alcune isolate defezioni, ma sono troppo poche per spezzare l’alleanza civico-militare che governa il Venezuela da 20 anni. La base dei soldati non regge più la pressione popolare, hanno famiglie e conoscono da vicino la scarsezza di alimenti, la corruzione, la violenza. Ma dagli ufficiali in su la lealtà al regime è ancora il male minore, perché permette certi privilegi impossibili per il resto della popolazione. È necessaria una frattura netta fra questi due mondi o la desistenza di un numero alto di generali. Se ciò non succederà molto rapidamente, massimo un mese, sarà davvero difficile che il cambio in Venezuela possa arrivare quest’anno.

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