LA GIUNTINA EDITORE
NISSIM MATALIA CON IL FIGLIO ROBERTO
8 NOVEMBRE 1939
DESCRIZIONE DELL’EDITORE::
È l’estate del 1938. Nissim è un ebreo greco, da pochi anni trasferitosi in Italia. Le sue capacità gli hanno permesso di raggiungere la tranquillità economica. L’apice del suo successo è una casa di mattoni rossi che sorge nella via più elegante di Riccione, di fronte alla spiaggia e, soprattutto, a pochi metri dalla villa dell’uomo più potente dell’epoca: il Duce. Una posizione ambita e invidiata da uomini di potere, fossero gerarchi o industriali. Mentre l’estate prosegue fra feste, ricevimenti, vita di spiaggia, l’atmosfera, per gli ebrei, comincia a farsi pesante. Una vicinanza così evidente di una famiglia di ebrei alla residenza di Mussolini è decisamente inopportuna. Così, sempre più insistenti iniziano le pressioni degli sgherri del regime sul povero Nissim affinché venda la villa. Nissim resiste disperatamente, finché le leggi razziali non cadono come una mannaia anche su di lui. Le minacce di violente ritorsioni costringono la famiglia a cedere per pochi soldi la famosa villa e a cercare di sopravvivere nella condizione di paria in cui la legislazione razziale li ha ridotti.
La figlia Camelia ci ha lasciato una preziosa testimonianza di quegli anni: alcune lettere giunte fino a noi in modo fortunoso. L’innocenza dell’adolescenza è più forte della crudeltà del mondo adulto e, pur vivendo in un mondo sconvolto dall’odio e dalle violenze verso la sua «razza», Camelia ci racconta i suoi sogni e i suoi progetti, ma anche il suo tormento per la famiglia, fino all’ultima lettera d’addio, scritta al suo amato, pochi istanti prima di essere portata via per quello che sarà il suo ultimo viaggio.
LETTERA 43.IT / CULTURA / 27 GENNAIO 2017
Un amore cancellato dalla Shoah: la storia di Camelia Matatia
Speranze, sogni e paure. Fino alle leggi razziali e alla deportazione. Attraverso le lettere al fidanzatino di una lontana cugina 16enne, Roberto ha ricostruito la fine della sua famiglia sterminata ad Auschwitz.
Solo 10 minuti strappati alla violenza per dire addio a un amore. Un amore assoluto, il primo. Quello dell’adolescenza, profumato di speranze e progetti. «Caro Mario, questa volta devo io scriverti una lettera d’addio, perché non so quando potrò riscriverti e se lo potrò fare ancora». È il primo dicembre 1943 e Camelia Matatia, la madre Matilde e il fratello Beniamino vengono arrestati a Savigno, un paese nell’Appennino, tra Bologna e Modena. I nazi-fascisti hanno concesso alla famiglia una manciata di minuti per raccogliere qualche vestito, i soldi, i gioielli. Lei però usa quel tempo per scrivere un’ultima lettera al “moroso”.
«NON HO NULLA DA RIMPROVERARMI». «Il focolare della mia casa ormai è spento», si legge nella grafia pulita. «Però non ho paura, sai? So di non avere nulla da rimproverarmi se non di essere nata con un marchio disgraziato. E di questo io non ho colpa. Sarei stata tanto felice di rivederti, ma io non ho mai avuto troppa fortuna. Forse sarebbe stato troppo bello, l’ho desiderato tanto! Il nostro passato è stato così breve, era colmo di tanto azzurro come un lembo di cielo. Ma al di là c’era l’ignoto».
«I NOSTRI OCCHI HANNO UNA VISTA BREVE». Ha paura Camelia, è terrorizzata come tutti gli altri. Nonostante non sappia bene cosa le accadrà di lì a poco, è consapevole che le righe che sta scrivendo devono essere un addio. «I nostri poveri occhi umani hanno una vista breve, limitata nello spazio, ma ancor più nel tempo», continua la lettera. «Non sappiamo quel che ci aspetta domani, e nemmeno tra cinque minuti. Scusa se ho scritto poco e male, ma il tempo che mi hanno dato per mettere a posto le mie cose è molto poco».
la lettera di Camelia
LA STESSA LETTERA DI CAMELIA
Camelia non ha il tempo di spedire quella lettera. E così la getta dal furgone verde sul quale lei, la madre, il fratello e altri ebrei sono caricati a forza, sperando che qualcuno la trovi e la porti a Mario. Da Savigno la famiglia è spostata al carcere di Savignano Sul Panaro, poi trasferita in quella di San Giovanni in Monte, a Bologna. Di lì a Ravenna, Forlì e Milano. A San Vittore resta poco, solo qualche giorno. Il 30 gennaio 1944 Camelia, la madre e il fratello sono stipati su un treno merci in partenza dal binario 21 della Stazione Centrale. Le due donne moriranno ad Auschwitz.
14 OTTOBRE 1949
PIAZZA SAFFI 3 — PORTONE IN LEGNO ORIGINALE DELLA PELLICERIA MATATIA
PIAZZA SAFFI, SULLA SINISTRA LA PELLICCERIA MATATIA
LA VILLA DEI MATATIA:: Villa Mussolini e l’ex villa Matatia dai mattoni rossi
VILLA MUSSOLINI
IL FRATELLO SALVO PER LA FISARMONICA. Invece Beniamino, che all’interno del lager era diventato solo il numero 173448, riuscirà a salvarsi. «Suonava la fisarmonica», racconta a Lettera43.it Roberto Matatia, lontano cugino di Camelia. «Venne risparmiato perché i nazisti lo utilizzavano nelle orchestrine che accompagnavano i deportati alle camere a gas». Nel 1947, poco tempo dopo il suo rientro in Italia, però, Beniamino provato dall’esperienza del campo morì di tubercolosi.
BENIAMINO MATATIA
le foto dei componenti della famiglia ebrea spazzata via dallo sterminio nazi-fascista::
Nissim Matatia e i figli Beniamino Matatia, Camelia Matatia, Roberto Matatia
Con le leggi razziali tutto cambiò. «L’Ovra, la polizia segreta fascista, fece pesanti pressioni su Nissim affinché vendesse la casa», spiega l’autore. «Il Duce non poteva certo avere vicini ebrei. Mio zio però resistette per orgoglio». Nel ’38 non seguì il fratello Eliezer, nonno di Roberto, che lasciò con la famiglia l’Italia alla volta della Bolivia. E nemmeno l’altro fratello, Leone, riparato in Svizzera. Nissim era convinto che le sue conoscenze altolocate lo avrebbero protetto. Ma sbagliava.
LA CITTÀ TROPPO PERICOLOSA.
Il villino di mattoni rossi fu espropriato per poche lire e la famiglia si trasferì a Bologna. Il capofamiglia, ancora cittadino greco, venne espulso per poi tornare clandestinamente in Italia. Con il figlio Roberto venne poi arrestato a Bologna nel novembre 1943 e internato ad Auschwitz dove entrambi morirono con tatuate addosso le matricole 168013 e 168015. «Vivere in città era troppo pericoloso», ricorda Roberto, «e così Matilde, Camelia e Beniamino si trasferirono sugli Appennini, a Savigno. Visto che agli ebrei era vietato frequentare le scuole pubbliche, Camelia ogni giorno prendeva la corriera per raggiungere la scuola ebraica di Bologna. Ne erano nate in ogni città e venivano chiamate “scuolette”».
LE PASSEGGIATE E L’AMORE. Durante uno di quei viaggi tra Bologna e l’Appennino, Camelia vide per la prima volta Mario, di pochi anni più grande. Sfollato da Bologna, si era trasferito nella casa di villeggiatura di famiglia. «Ai primi sguardi seguirono i sorrisi», ricorda Roberto. «Poi le passeggiate, i pomeriggi in pasticceria. Tra i due nacque un amore». Un amore puro, adolescenziale finito in decine di lettere.
«VORREI CHE NOSTRO FIGLIO SORRIDESSE».
«Sono lettere forti, che contengono paure e ansie», spiega Matatia. «Righe che raccontano le privazioni subite in quel periodo ma soprattutto la consapevolezza di come sarebbe andata a finire». Non solo. Camelia immaginava il loro futuro insieme, una maternità. «Vorrei che nostro figlio ridesse sempre», scrive in una missiva la 16enne, «Che avesse sempre gli occhi limpidi e sereni. Vorrei insomma che fosse uguale agli altri bimbi». In altre lettere esprime invece la preoccupazione per l’eventuale opposizione delle famiglie alla loro unione visto che Mario era cattolico.
Per scrivere il romanzo, Roberto è andato alla ricerca di documenti, delle voci di coloro che avevano conosciuto di persona la famiglia e Camelia. «Testimoni ora 90enni mi hanno raccontato dei rastrellamenti», continua Roberto con la voce rotta. «Arrivavano due camionette: prima i fascisti poi i nazisti che con un altoparlante a volume altissimo diffondevano gli ordini. Entravano nelle case con i cani, terrorizzavano le persone, le annichilivano, in modo da impedire ogni forma di resistenza. Concedevano 10, 15 minuti per raccogliere gli effetti personali».
LAUTA RICOMPENSA PER CHI LI TRADÌ.
Gli stessi minuti di terrore nei quali Camelia disse addio a Mario. Roberto è riuscito anche a scoprire chi denunciò la sua famiglia ai fascisti. «Una donna, di cui conosco il nome e il cognome anche se ora non è importante», aggiunge. «Dopo l’arresto dei miei la videro in paese piena di soldi e con addosso i gioielli di zia Matilde».
Roberto ora visita le scuole d’Italia per raccontare ai ragazzi la storia dei Matatia. «La memoria è fondamentale», insiste. «Purtroppo non è servita a impedire che quell’orrore non si ripetesse, basta vedere ciò che sta accadendo in Siria, le persecuzioni dei cristiani, le sofferenze dei musulmani che sono le prime vittime della follia dell’isis. Credo comunque che sia utile per cogliere i germi, per prevenire e prevedere». Una cosa deve però essere chiara: «Il giorno della memoria non riguarda solo gli ebrei. Nei forni finirono disabili, omosessuali, rom. È un patrimonio universale, che riguarda tutti».
«IERI GLI EBREI, OGGI GLI IMMIGRATI». Un impegno necessario, il suo, perché dice «assistiamo a una recrudescenza del fascismo e del nazismo. Ci sono gruppi di ragazzi nei paesi che scimmiottano nazisti e fascisti». Additare un capro espiatorio, poi, è una dinamica sempre attuale. «Un tempo erano gli ebrei, ora la colpa delle crisi è riversata sugli immigrati. Ma il meccanismo è lo stesso». La memoria, insomma, deve essere custodita e preservata. «I testimoni oculari stanno morendo», sottolinea, «E qualcuno deve mantenere in vita ciò che è stato. E quando i ragazzi mi chiedono dove fosse dio nei lager, rispondo che la domanda giusta è un’altra: dov’era l’uomo?»
BOLOGNA- REPUBBLICA DEL 24 GENNAIO 2017 ::: RACCONTA DI UNA MOSTRA PER CAMELIA MATATIA DEI RAGAZZI DELL’ISTITUTO GALVANI CON L’ISTITUTO PARRI