da Dagospia
Patrizia Cavalli: ” Io, la malattia e le mie pene d’amor perdute “
Nel suo appartamento che va su e giù nei livelli, tra scale e pavimenti ondosi, Patrizia parla di Shakespeare con un abbandono privo di saccenza. Ha il capo fasciato da un cappuccio azzurro che cela gli effetti della chemioterapia. A un tratto per il caldo se lo toglie, scoprendo una bella testa perfettamente tonda. Di giorni ariosi o affannati, di piccole meraviglie dell’amore, di fisicità impudenti, di dettagli comuni, si nutrono le poesie della Cavalli, autrice di varie raccolte pubblicate da Einaudi, da Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) fino a Datura (2013). Forse è stata la sua semplicità senz’artificio, la sua nobiltà nell’ordinarietà, il suo senso centrale del corpo, a farle cogliere il respiro vitalissimo di Shakespeare.
Di corpo è piena la sua poesia, Patrizia Cavalli. E qualche tempo fa il suo corpo si è ammalato.
“Ogni sua particella sono io. Ogni cellula si rivela, si manifesta. Il mio fisico non è mai stato separato dalla mente. L’ho ascoltato costantemente. Per questo sono stata sempre ipocondriaca, sentendo in me qualcosa di segreto e di estremo. Poi, quando si è manifestato il male vero, l’ipocondria è passata: l’immaginazione non aveva più un luogo in cui andare. Il terrore legato all’ipocondria veniva dal vuoto corporale. Il cancro ha riempito il panico. E mentre gli amici mi dicevano: hai una gran forza d’animo, la verità è che scoprendo la malattia io non ero più depressa”.
Ha sofferto di depressione?
“Fin da giovanissima, al liceo. Poi si è ripresentata in periodi diversi. Mi abbandonavo a me stessa e fissavo il vuoto. Nella poesia l’ho descritta. Uno stato di separazione. Passaggi visionari, quasi schizoidi. Ciò che è solo se stesso e non si muove è terribile, che sia una parete o un soffitto. Uno psichiatra sostiene che una mia poesia è la migliore definizione della depressione che abbia mai sentito e l’ha portata a un convegno: “Persino il sonno adesso mi dispiace / perché il sonno produce il mio risveglio””.
Non ha mai tentato una psicoanalisi?
“Una volta ci ho provato, ma ho lasciato perdere abbastanza presto. La simpatica poeta milanese Vivian Lamarque era così dispiaciuta per la mia depressione che mi spinse a provare. Le ho detto: vado, però trovami una psicoanalista bella, antipatica, elegantissima e sprezzante. Voglio essere dominata. Invece mi manda da una signora buonissima. Quando entro nel suo studio si aggiusta il golfetto. Mi chiede: perché viene da me? Rispondo: perché lei è obbligata ad ascoltarmi per 45 minuti senza ribellarsi. I miei amici non ne possono più”. Era un groviglio di amori infelici? “Gli amori infelici sono sempre anche felici, altrimenti non potrebbero essere infelici. C’è stato un lunghissimo amore che mi ha fatto scrivere molto. Poi la musa è scomparsa”.
Pensa spesso alla morte?
“Se le circostanze sono concrete ti attacchi al dettaglio senza pensare più in prospettiva. Rimuovi. Eppure rimuovere non è nella mia natura: sono stata sempre pronta ad affrontare pensieri orrendi. Credo che sia una forma di arroganza. Ho avuto il tempo d’immaginare la morte. Il massimo del terrore è l’idea di finire in una zona dove non ho controllo”.
Le sue poesie trasmettono un’infinita libertà. Come nascono?
“Quelle di pochi versi arrivano da sole, bussano alla porta e io apro. Cammino, mi parlo nella mente, scrivo un paio di versi e correggo. Nelle poesie lunghe, come La patria, c’è un intero sistema di pensiero. Nelle brevi la concentrazione è immediata”.
Quando una poesia è riuscita?
“Quando si muove. Deve attraversare un territorio. Può anche sembrare bella, ma se resta ferma nel suo tempo e nella sua idea, senza un prima e un dopo, è mezza morta. Che siano tre versi o 300, bisogna che accada qualcosa. Dev’esserci una sorpresa del pensiero. Un eros nella parola”.
Lei dà sostanza poetica a parole comuni, quotidiane.
“Non ci sono parole belle o brutte. Tutte sono stupende. Purché siano reali e pertinenti. Spesso le parole sono usate in modo orribile, e alcune vengono logorate dall’uso. Perciò bisogna aspettare che ritrovino un’innocenza”.
qui il testo intero del racconto di LEONETTA BENTIVOGLIO–7 settembre 2016