INVECE CONCITA –BLOGAUTORE.REPUBBLICA DEL 06-01-2019
NOTA DEL BLOG :::
Il termine disposofobia significa letteralmente “paura di buttare”, dall’inglese to dispose, “gettare”, “buttare”, “disfarsi (di qualcosa)”, con il suffissoide -fobia, dal greco φόβος, phóbos, “panico”, “paura”.
La malattia di chi non butta via niente
Questa lettera è di Giovanni Armando Costa, Milano
“Ho iniziato ad occuparmi per caso di disposofobia. Come tecnico della prevenzione (servizio igiene pubblica, Ats, città metropolitana di Milano) ho approfondito l’argomento sul campo accertando esposti e ricevendo segnalazioni, ispezionando abitazioni e raccogliendo informazioni da cittadini ed enti. Ho parlato con persone che soffrono di una patologia psichiatrica che li costringe a trattenere in casa ogni sorta di oggetti, senza possibilità di buttare via niente, perché tutto serve.
Persone la cui attività quotidiana diventa quella di accaparrare in giro oggetti da accumulare nelle proprie abitazioni rendendole simili a magazzini”.
“Soggetti in grado di riempire completamente la casa di vestiti e scarpe, scatole e sacchetti fino a che diventa difficile aprire porte e finestre. Ho conosciuto accumulatori seriali abituati a conservare in casa residui di cibo che attirano insetti e ne agevolano la moltiplicazione. Gente sepolta viva. Case che non ricevono più i raggi del sole perché ostacolati da tapparelle che non vengono mai sollevate. Uomini e donne rimasti soli anche perché parenti e amici sono stati allontanati da un comportamento pazzesco e da una casa inabitabile”.
“Osservando come nella città dalle tante occasioni c’è gente che si rinchiude in una casa da incubo, il mio stupore si è trasformato in desiderio di comprendere. Ho imparato a vedere, dietro questa patologia, esseri umani straordinari. Come Sergio, ingegnere in pensione, senza moglie né figli, con un solido reddito, che vive nel suo appartamento magazzino da quando è morta la mamma, unica donna che lo amava e di cui si prendeva cura”.
“Casa disastro quella di Anna, professoressa in pensione dopo anni passati a insegnare nei licei; un cuore grande, al servizio degli studenti, naufragato nello stesso momento in cui l’unico figlio ha perso la vita per un malore in piscina durante l’attività sportiva. Come Rosa e Maria entrambe separate e divorziate e prima bastonate dai mariti e poi abbandonate dai figli che in casa non avevano più nemmeno un letto per dormire perché tutto era invaso da oggetti che impedivano la normale vita quotidiana”.
“Custodisco e porto a casa con me frasi che ascolto durante i sopralluoghi nelle loro case. ‘I miei genitori sono mancati a distanza di poco tempo l’uno dall’altra ed io mi sono ritrovata sola e disperata in questa casa. Casa… una volta era una casa, adesso è un magazzino’. ‘Ha figli lei? Insegni loro a prendersi cura della casa, a me non l’hanno insegnato, il mio compito era quello di studiare’. ‘Mio marito mi trattava come una serva, poi è andato a vivere con un’altra’. ‘Mia figlia non vuole più stare con me, si trova meglio in comunità’. ‘Io lavoro, io faccio, io mi stanco per mettere a posto’”.
“A favore di queste persone cerco di rendere più efficaci gli interventi sul territorio attraverso il dialogo tra enti, associazioni e cittadini e cercando il supporto quando possibile. Tutto con amore. Un amore per il prossimo, per i più deboli, per gli invisibili. Un amore forse non troppo moderno ma che ha orecchie per ascoltare”.
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