IL MANIFESTO, 11 NOVEMBRE 2018
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Gerusalemme, meta di sogni e di malinconia
Narrativa Israeliana. In due racconti dell’inizio degli anni Settanta, Amos Oz indaga l’odio per l’ebreo, le sue ragioni dal punto di vista della storia e la necessità di uno stato d’Israele: «Finché morte non sopraggiunga», da Feltrinelli
Due racconti all’apparenza diversissimi, ma tenuti insieme da tre temi tra loro intrecciati – l’odio per l’ebreo, le ragioni di quest’odio dal punto di vista della millenaria storia cristiana e post-cristiana e infine la necessità di uno stato d’Israele – tornano in Finché morte non sopraggiunga, pubblicato da Amos Oz nel 1971 e ora tradotto da Elena Loewenthal per Feltrinelli (pp. 142, euro 15,00). Il primo, «Un amore tardivo», è ambientato nella Tel Aviv degli anni immediatamente successivi alla Guerra dei sei giorni, l’altro, che dà il titolo al volume, è la cronaca del cammino verso Gerusalemme di un gruppo di crociati tra la fine del 1096 e l’inizio del 1097.
Shraga Unger, l’anziano conferenziere israeliano protagonista del racconto che apre il volume, è un ebreo dell’Europa orientale che ha partecipato alla rivoluzione comunista ed è stato poi costretto alla fuga dalla sua svolta antisemita. In Israele ha il compito di illustrare nei kibbutz la situazione dell’ebraismo in quelle vaste regioni, un compito che assolve con accenti via via più allarmati e allarmanti. È convinto, infatti, che l’Unione sovietica (non il mondo arabo) persegua la soluzione finale della questione ebraica con un attacco devastante contro la terra d’Israele ed esorta pressantemente le stesse autorità israeliane a preparare un’adeguata difesa o, meglio, a precedere l’attacco con una guerra-lampo che distrugga la fonte della minaccia.
Ma Unger non trova parole per farsi intendere, anzi, la sua ossessiva insistenza lo marginalizza, così che immalinconisce, solo, nel decadimento del corpo e nell’incupimento della mente, fantasticando la costruzione di un missile capace di consentire al popolo ebraico di «emigrare verso mondi lontani, in qualche altra galassia», dove poter ricostruire una «Gerusalemme celeste» in cui trovare pace, avendo all’intorno «solo e soltanto gli elementi con la loro energia. Acqua. Vento. Luce. Silenzio». Solo così, infatti, pensa, gli ebrei potranno conquistare la serenità, una «serenità assoluta, definitiva».
Diversa la storia del conte Guillaume de Touron, narrata nel secondo racconto. Tormentato dai creditori, attaccato dai propri contadini, vedovo e privo di eredi, soprattutto intristito dalla vana ricerca della purezza, venuto a conoscenza dell’appello del papa alla crociata il conte decide di partire con un gruppo di uomini per Gerusalemme, dove spera di trovare la pace interiore. Il suo corpo possente è tuttavia abitato da pensieri di morte, da un «muto desiderio di andare verso il regno degli elementi semplici: luce. Calore. Sabbia. Fuoco. Vento», di cui non si dà ragione. Ciò che lo inquieta, lo divora e lo condurrà alla morte è di fatto proprio quel desiderio di purezza, di divenire spirito, che non riesce a soddisfare e fomenta in lui un odio distruttivo verso la carne che gli si oppone e quindi contro l’ebreo, l’uomo carnale e il nemico per eccellenza dello spirito secondo la dottrina della chiesa. Ogni ebreo che incontra sul suo cammino va dunque torturato e ucciso; ogni ebreo va scovato e trucidato. Capirà, infine, che in ogni uomo si annida un ebreo da annientare per trovare la pace, che egli stesso ospita un ebreo cui non può opporsi se non uccidendolo in sé, dunque suicidandosi.
Nella prospettiva del libro di Oz, l’Unione Sovietica non è quindi che l’atea, moderna erede delle forze distruttive di un odio cristiano portato a sistematica pratica di annientamento il cui esito, come annota Unger, sarà la distruzione stessa di ogni ordine umano e cosmico. La ricerca di una Gerusalemme puramente ideale o razionale, sottratta a ogni seduzione della carne e degli affetti, e la violenza che di conseguenza genera nei confronti di chi caparbiamente quelle dimensioni ritiene imprescindibili e sacre sono dunque il fondamento dell’odio per l’ebreo. Anche il conte conosce nei suoi ultimi mesi un intenerimento che lo porta a commozione e vicinanza nei confronti dei suoi compagni, ma più forte di questo cuore misericordioso è in lui la sete di trasformarsi in uno spirito puro. Di qui la scelta di uccidersi, per trovare quella purezza e, forse, la pace.
Unger invece, nonostante percepisca chiaramente come i giovani non avvertano responsabilità nei confronti di una storia e di un mondo che non conoscono né intendono conoscere, e nonostante tutto gli sembri ormai morto in Israele – l’Israele della sua giovinezza, con i suoi sogni, i suoi ideali, le sue canzoni –, serba in sé la convinzione che in quella Gerusalemme possibile in una qualche galassia non solo vi sarà pace, ma «anche l’amore», la vicinanza, il toccarsi e il tenersi per mano. Sono questi pensieri a tenerlo in vita e a indurlo a lottare, «fino a esalare l’anima. Fino al confine dell’amore», per sé, per Israele, certo, ma anche per l’ordine del cosmo e dell’umanità – perché Israele è per lui ancora, benché al presente dimentica di sé, il pegno della salvezza e della custodia dell’universo tutto.