PIETRO DEL RE INTERVISTA OLIVIER ROY, ORIENTALISTA E POLITOLOGO FRANCESE::: “Quei giovani vogliono ribellarsi all’Islam dei loro genitori”–REPUBBLICA 13-12-2018 PAG. 4

 

 

REPUBBLICA 13-12-2018  pag. 4

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Intervista

Olivier Roy

“Quei giovani vogliono ribellarsi all’Islam dei loro genitori”

PIETRO DEL RE,

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 Olivier Roy (1949) è un orientalista e politologo francese. È professore all’Istituto Universitario Europeo e titolare della Cattedra Mediterranea al Robert Schuman Centre for Advanced Studies dal settembre 2009. Il suo libro più noto è L’Echec de l’Islam politique (“Il fallimento dell’Islam politico“) (1996), un libro di testo standard per gli studenti di Islamistica. (WIKI)

ROMA

«Radicalizzarsi in prigione significa anzitutto ritrovare la dignità perduta», dice l’orientalista e politologo francese Olivier Roy. «La conversione a un Islam estremizzato può inoltre farti entrare in una fraternità che ti aiuta a combattere la violenza nelle carceri, quella esercitata dagli altri detenuti o dai secondini. Quando fai parte di un clan di musulmani, gli altri ci pensano due volte prima di aggredirti perché a difenderti ci sono i tuoi “fratelli”».

È per questo motivo che la metà dei terroristi francesi ha precedenti penali?

«Sì, la delinquenza e la prigione precedono spesso l’islamizzazione più estrema. Ma radicalizzarsi in carcere è anche una forma di auto-affermazione. Si ha l’impressione di diventare qualcuno, anche perché la prigione è una contro-società con le sue dinamiche perverse alle quali i gruppi islamizzati resistono meglio. Chi si converte all’Islam, o chi si rivolge a un Islam più “puro”, si sente “rinascere”».

Ma come ci si radicalizza in prigione?

«Non abbiamo mai individuato un imam spedito nelle carceri per radicalizzare i giovani delinquenti.

Ciò avviene sempre per volontà individuale. Chi predica ha di solito più carisma degli altri e una potenza di convincimento che fa sì che tutti l’ascoltino, non per via del suo sapere reale bensì per il suo prestigio. E poi, i prigionieri vengono abbandonati a loro stessi e in una cella con sei persone ne basta una radicalizzata per convincere facilmente le altre».

Ma radicalizzarsi può anche essere una forma di rivolta?

«Certo, è una rivolta generazionale contro l’ordine del mondo, contro l’Islam dei propri genitori, contro i valori della società. E non è certamente una costruzione ideologica».

Sono tutti giovani, poveri e disoccupati delle banlieue, quelli che si radicalizzano in carcere?

«Non sono per forza poveri e disoccupati, ma due terzi di loro sono immigrati di seconda generazione che vivono in quartieri difficili».

Fatto sta che non è bastato sconfiggere il Califfato a Raqqa e Mosul per fermare gli attentati.

«No, perché non è lo Stato islamico che recluta questi terroristi, ma sono i giovani radicalizzati che vorrebbero arruolarsi nelle sue fila.

Detto questo, grazie alla distruzione di gran parte della sua logistica in Siria e in Iraq, negli ultimi due anni gli attacchi terroristici in Europa sono stati artigianali e individuali, sia pure compiuti da gente che è stata forse contattata da qualche emissario jihadista».

È possibile fermarli?

«Visto che non si tratta né di fenomeni sociali né di gruppi organizzati né di movimenti di massa, la sola carta che rimane alle autorità è quella dell’intelligence, che funziona piuttosto bene poiché Chérif, l’attentatore di Strasburgo, era stato inserito nella lista dei possibili attentatori e doveva essere arrestato. Grazie agli 007 francesi, molti giovani radicalizzati sono stati messi in galera prima che organizzassero un attentato».

Dobbiamo comunque abituarci all’idea che qualche lupo solitario possa compiere una strage in Europa?

«Ci sarà una scia di attentati che andrà però affievolendosi col tempo. Accade quello che successe in Italia: dopo che lo Stato sconfisse le Brigate Rosse, per qualche tempo ci fu ancora qualche sporadico attentato. Poi più nulla.

E, oggi, la strategia jihadista mi sembra davvero molto indebolita».

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