La proposta di Confindustria
IL PIANETA DELLE IMPRESE
Roberto Perotti
Roberto Perotti (Milano, 1961) è un economista italiano, professore ordinario di economia politica presso l’Università Bocconi di Milano.
Da settembre 2014 a novembre 2015 è stato consigliere economico, a titolo gratuito, del presidente del Consiglio Matteo Renzi,[3][4] lavorando alla revisione della spesa pubblica assieme al commissario Yoram Gutgeld,[5] incarico da cui si è dimesso,[6] sostenendo che non ci fosse una vera volontà di fare una spending review strutturale, in quanto le scelte politiche adottate dal Governo Renzi erano “misure quantitativamente piccole, ma molto spesso elettorali”, vanificando le azioni di riduzione strutturale della spesaproposte–(wikipedia, sotto il nome)
Le associazioni imprenditoriali hanno manifestato a Torino contro le politiche economiche del governo. Ma quanto sono credibili in questa protesta? Alla recente assise di Verona, Confindustria ha presentato un corposo documento di proposte. Molte sono condivisibili, e il documento ha il pregio, in parecchi casi, di entrare nei dettagli ben più dei programmi dei partiti. Ma se si fanno bene i conti le proposte comportano, a regime tra cinque anni, un aumento del disavanzo di almeno 37 miliardi l’anno, ben il 2 per cento del Pil: al confronto, l’aumento di pochi miliardi nel bilancio dell’attuale governo è noccioline.
E non è tutto: nel documento ci sono solo misure a favore delle imprese, compresi corposissimi tagli di tasse. Confindustria non propone assolutamente niente in tema di sostegno alla povertà e alla disoccupazione. Se si includessero queste voci, che nessun governo responsabile può ignorare, il disavanzo aumenterebbe ulteriormente, e di molto.
Ma c’è ancora di più: il disavanzo aumenta “solo” di 37 miliardi perché si prevedono altrettanti risparmi da tre voci che, quando menzionate nei programmi dei partiti, tutti concordavano essere irrealistiche. Una revisione della spesa di ben 17 miliardi, quasi l’1 per cento del Pil, ma come sempre senza sporcarsi le mani, senza dare alcuna indicazione su cosa e come tagliare. L’immancabile recupero dell’evasione per 15 miliardi, anche qui senza dirci ( se non ripetendo le solite raccomandazioni) come e perché improvvisamente dovremmo diventare così bravi a fare emergere il nero. E la vendita di un terzo dei beni immobili disponibili, per 17 miliardi in 5 anni, la stessa cifra saltata fuori dal cilindro dell’attuale governo, anche se nel caso di Confindustria leggermente meno irrealistica perché diluita su cinque anni.
Le altre maggiori entrate, per 5 miliardi, verrebbero da quattro voci che, se attuate tutte insieme, scatenerebbero la rivolta popolare e letteralmente insanguinerebbero le nostre strade: l’aumento delle tasse universitarie e scolastiche, dei ticket sanitari, e dei biglietti del trasporto urbano. Tutte, eccetto l’ultima, progressive e con fasce di esenzione per i meno abbienti. Personalmente sono favorevole a queste proposte, per una questione di giustizia sociale. Ma nel clima attuale hanno una probabilità di essere attuate pari a zero: è come chiedere al governo di bersi un bicchiere di cicuta.
Di fatto, quindi, la proposta di Confindustria aumenterebbe il disavanzo di ben più del 2 per cento del Pil, diciamo almeno 3. Per fare cosa? Quattro tipi di interventi: un enorme piano di investimenti pubblici, per oltre 45 miliardi all’anno a regime; interventi nella pubblica amministrazione, scuola e sanità per 6 miliardi; una riduzione della pressione fiscale per 27 miliardi, tutta sulle imprese eccetto per sgravi contributivi e fiscali per i giovani neoassunti; e il rafforzamento di Industria 4.0 per 3 miliardi.
Il lettore può giudicare quanto sia opportuno, in generale ma particolarmente nell’attuale clima politico e sociale, proporre misure così enormi ma solo per le imprese: si ha l’impressione che a furia di scrutare il cielo in Viale dell’Astronomia vivano su un altro pianeta. Ma è opportuno soffermarsi su una voce in particolare: gli enormi investimenti pubblici. Ancora una volta in gran parte mancano i dettagli, ma sappiamo che dovrebbero essere finanziati per 58 miliardi con l’emissione di eurobond, cioè con titoli di debito pubblico per cui sono responsabili in solido tutti i Paesi dell’eurozona: una mutualizzazione nemmeno tanto sofisticata del debito pubblico italiano. Non succederanno mai: tutti i politici nordeuropei hanno fatto sapere che è una proposta irricevibile, nessuno di loro si suiciderebbe andando a dire ai propri elettori che si è assunto la garanzia del debito pubblico italiano… e chi può biasimarli?
Confindustria obietterà che gli investimenti pubblici e il taglio delle tasse faranno aumentare il Pil così tanto che il disavanzo e il debito pubblico diminuiranno. Infatti il documento prevede una crescita dell’ 1,9 per cento il primo anno e del 2,5 per cento al quinto, e una riduzione del rapporto debito/ Pil di 20 punti percentuali: anche in questo il governo attuale, che pure, e sempre con la scusa dei moltiplicatori degli investimenti pubblici, fa previsioni di crescita enormemente superiori a quelle di qualsiasi altro umano, al confronto risalta per la sua moderazione. È un peccato che Confindustria si abbassi agli stessi livelli.
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Riprendiamo, su prorompente richiesta dei lettori, la seguitissima rubrica “Non c’entra niente”.
Abbiamo visto oggi pomeriggio il film di Nanni Moretti ” Santiago, Italia”, appena uscito nelle sale dopo l’anteprima a Torino Film Festival. Più che un film si tratta di un documentario, attraverso le interviste di chi visse l’11 settembre 1976 in Cile dopo il colpo di stato di Pinochet. L’immagine di apertura è con Moretti che guarda dall’interno di un muretto la città di Santiago più in basso. Lo sguardo del regista, andando all’indietro nel tempo, ci dà anche un’immagine dell’Italia di allora, così diversa da quella odierna. La tragedia della democrazia popolare cilena è raccontata mettendo in evidenza il ruolo salvifico che ebbe l’ambasciata italiana nei confronti dei cileni che vi si rifugiarono. Un atteggiamento di apertura ( nel senso letterale del termine) verso chi in quel momento rischiava la vita, senza neppure avere un’indicazione dai vertici governativi italiani. Ci sembrano anni luce quelli che distanziano quell’esperienza, dove si volevano salvare delle persone da parte di altre persone, dall’Italia di oggi, dove i naufraghi è meglio lasciarli in mare. Questa riflessione non è esplicitata nel film, ma il paragone viene istintivo. Il film- documentario è sobrio, anche se commovente e al tempo stesso “divertente” . Alcuni ex-rifugiati parlano della vita all’interno dell’ambasciata, un po’ caotica ma, sottolineano alcuni di loro, organizzata con turni di lavoro e di riposo per riuscire a gestirsi. Un comunista cileno fu anche espulso dal partito perché si rifiutava di pelare le patate! Potrebbe essere un film nostalgico, ma non lo è: fa riflettere sulla storia, anche e soprattutto su quella del nostro Paese, attraverso l’accoglienza data ai profughi cileni. Quell’Italia eravamo anche noi: è giusto ricordarselo in tempi così tristi.