REPUBBLICA – ROBINSON 25 NOVEMBRE 2018 –pag.
MARINO GOLINELLI —Marino Golinelli (San Felice sul Panaro, 1920) è un imprenditore e filantropo italiano, fondatore dell’azienda Alfa Farmaceutici, poi Alfa Wassermann, poi Alfasigma.
Marino Golinelli
OPIFICIO GOLINELLI::: CITTÀ DELLA CONOSCENZA, DELL’INNOVAZIONE E DELLA CULTURA
La Fondazione Golinelli significa dotare i nostri ragazzi di una “cassetta degli attrezzi” che consenta loro di crescere con consapevolezza e capacità di interpretare il costante processo di cambiamento in atto nella società.
di Antonio Gnoli
Con tutto l’amore per le aziende che ha creato, per le opere d’arte che ha raccolto e che ne fanno uno dei grandi collezionisti europei (la parola collezionista non gli piace), per le donne che ha conosciuto lungo il sentiero che lo ha condotto ai 98 anni, Marino Golinelli non dimentica di aver cominciato da zero. Mi sorprendo a guardare quest’uomo anagraficamente vecchissimo, eppure dotato di una vitalità rara, di una presenza che sembra aver magicamente rallentato il ritmo del tempo. «Sono nato due anni prima della marcia su Roma, in un’Italia a trazione agricola. Mio padre era un contadino, produceva mele raccoglieva latte e certo non immaginava che, fuori da quel mondo, di strada ne avrei fatta tanta. Ma non ho mai rinunciato a pensarmi in quella veste precaria, quando il futuro era solo immaginazione e il presente durezza e sconforto». Dunque sono qui nella sede dell’Opificio Golinelli, alla periferia di Bologna, in un luogo che un tempo fu una fabbrica e che oggi è frequentato soprattutto da giovani e dove senza nessuna particolare enfasi si progetta il futuro.
Davvero oggi possiamo guardare al futuro, al nostro e a quello delle generazioni più prossime?
« Perché non dovremmo? Cosa ci impedisce realmente di pensarlo? Di solito ragioniamo per ovvietà. Per cui al futuro sono autorizzati ad accedere solo i membri di quella particolare aristocrazia scientifica che opera nella Silicon Valley. Mi lasci dire che c’è molta pigrizia in questa valutazione. Ora, lei potrà pensare che giunto quasi sulla soglia di un secolo vissuto, tutto dovrei immaginare tranne che il futuro. E invece sono qui in questa piccola stanza, con le energie ancora presenti, le sinapsi in buono stato, a discuterne con lei. A volte mi dico: se ci sono riuscito io a realizzare certe cose perché non dovrebbero farlo anche gli altri?».
È piuttosto facile sostenerlo a cose fatte.
«Ho cominciato a pensarlo e a crederci già quando avevo sedici anni».
Cosa accadde?
«Ero un ragazzo che non aveva voglia di far niente. Studiavo ma senza nessun particolare entusiasmo. Poi mi capitò tra le mani un libro di Niels Bohr sulla struttura dell’atomo. Non compresi tutto. Ma una cosa mi fu chiara: la vita non era solo quella che affrontavo ogni giorno. Quando dissi al mio professore di fisica che avevo tra le mani un libro affascinante ma difficile, restò sorpreso e lo sentii, per la prima volta, parlare dell’universo che si espande. Buffo per un provinciale figlio di contadini, non trova?».
Neanche tanto. La sua famiglia di dov’è?
« Siamo modenesi di Mirandola. Avevamo un pezzetto di terra. In casa c’era il grano e i maiali. I simboli di quel mondo».
I suoi 16 anni cadono nel 1936. Fu un periodo di grande consenso al fascismo. Lei come visse quella stagione?
«Ho sempre cercato di sottrarmi ai rituali del fascismo. Li trovavo ridicoli. Non vedevo niente di positivo in quella disciplina paramilitare che ci veniva imposta. Non facevo il saluto romano e non andavo d’accordo con i professori entusiasti del regime. Ero un ragazzo che però non aveva una coscienza antifascista. Istintivamente adottavo una resistenza passiva».
Tale restò?
…
Perché?
« Una parte del mio percorso scolastico si svolse in una scuola privata. Fu alla terza liceo che un professore mi spiegò il comunismo e il fatto che ci fosse un partito che si richiamava a quegli ideali. Non era un tentativo per farmi entrare in clandestinità. Anzi, con una certa apprensione mi disse che quelle informazioni, se ci tenevo alla salute, le avrei dovute conservare per me. Poi la Germania invase la Polonia e mi sembrò una cosa assurda».
«Tutti, proprio tutti, pensavano che una guerra sarebbe stata impossibile. Dopo gli orrori della Prima sembrava improbabile che ci saremmo ricaduti. Ma l’Europa era un continente debole e diviso. Mi verrebbe quasi da dire come oggi. Perfino a Mirandola giunsero gli echi delle dichiarazioni di Chamberlain, sostenitore di un accordo con la Germania. Fu un modo di chiudersi gli occhi. Non vedere che quella guerra avrebbe coinvolto tutti, con conseguenze pesantissime».
Lei dov’era?
«Cercavo in tutti i modi di evitare l’arruolamento. Tra l’altro avevo contratto una forma di tubercolosi. Mi rifugiai prima in un convento; poi, conoscendo uno dei figli del proprietario, nella villa di una ricca famiglia del luogo. Scoprii che era stata occupata dai tedeschi. Con una bicicletta tornai a casa a San Biagio in Padule e mi nascosi per alcune settimane in una stanza che era stata murata».
Come conviveva con i suoi guai fisici?
«I medici pronosticarono che nel giro di pochi anni sarei morto. Ma in quel momento la Tbc era l’ultima delle mie preoccupazioni. Bologna, dove nel frattempo mi ero iscritto all’università, era bombardata. La gente fuggiva e moriva. Mi laureai in Farmacia nell’anno peggiore, il 1943».
E i suoi interessi per la fisica?
«Si erano nel frattempo trasformati. Dal segreto dell’atomo ero passato al segreto delle molecole dell’organismo. Cominciai a interessarmi di farmaci. Probabilmente aveva influito la mia stessa malattia. Se pensavo alle origini della vita, non potevo al tempo stesso non immaginare come la si può difendere e curare. Quando nel 1945 ci fu la liberazione, dal balcone vidi i polacchi sfilare. Mia moglie era incinta di otto mesi. Per la prima volta pensai seriamente al futuro».
Con quali contenuti lo riempì?
«Mia moglie aveva ereditato dal padre una piccola azienda meccanica. Pensò che poteva essere una buona base per partire. La verità è che i miei studi e i miei interessi andavano in una direzione diversa. Creai un piccolo laboratorio di attività galenica. Ci si arrangiava. Capitava che trasportassi sul tranvai la damigiana con gli ingredienti per preparare gli sciroppi. Con una piccola Balilla mi spingevo fino a Firenze per acquistare i preparati galenici necessari ».
Dà l’idea di un’Italia che stava rinascendo.
«Non arretravo davanti a niente. Questo era lo spirito che animava me e tutti i piccoli imprenditori decisi a fare fortuna. Fu così che, tra il caso e la decisione, creai la prima azienda per produrre e la prima casa nella quale andammo a vivere».
Cosa vuol dire non arretrare?
« Nella vita nessuno regala niente. Ma se hai una passione e un’idea, qualunque cosa ti accada la puoi superare. Io non sapevo niente di farmaci, di leggi, di fatture. In una parola di commercio. Ho imparato tutto dopo».
Quanto è stato importante uscire dalla provincia?
«La provincia mi ha fornito i fondamentali senza i quali non sarei andato molto oltre. Ma poi ha contato molto osservare cosa facevano gli altri nel mondo. Sono stato a New York la prima volta nel 1968 e ho capito che lì c’era molto da apprendere, sul piano dell’imprenditoria ma anche su quello della cultura. Tra le prime cose che feci fu visitare i loro musei, le loro gallerie. C’erano fondazioni che grazie alle loro donazioni consentivano all’arte di vivere. E mi ripromisi che se ce l’avessi fatta come imprenditore avrei tentato di realizzare qualcosa di simile anche per il mio paese».
E c’è riuscito?
«Non spetta a me dirlo, ma credo di aver contribuito alla salvaguardia del nostro patrimonio artistico».
Un mecenate?
« Preferisco la parola filantropo. Il primo conserva solo il passato. Il filantropo per quel che può guarda anche al futuro».
So che è anche un grande collezionista.
«La parola collezionista non mi piace. Mi fa pensare a un mondo seriale privo di vita. Qualcosa che egoisticamente si fa solo per sé e non anche per gli altri. La verità è che io compro opere provenienti da tutto il mondo non per qualche estro estetico o, peggio ancora, per qualche speculazione; bensì per capire in quale mondo viviamo ».
È un’intenzione lodevole ma molto complicata con l’arte contemporanea.
«Non sono un critico e non amo distinguere le diverse epoche. Al limite un ritratto di Lotto può avere come equivalente uno di Andy Warhol e Malevic con i suoi monocromi può essere accostato a un’icona bizantina. Mi intenda, non voglio creare delle gerarchie anche perché io non so come nasca l’arte. Da giovane facevo i colori e, in qualche modo, me ne è restato un concetto fisico».
Cosa intende per concetto fisico?
«Ricordo di aver discusso più volte con Gillo Dorfles dell’arte come esperienza fisica. E puntualmente si finiva col parlare di arte e scienza e del modo in cui l’immaginazione svolge un ruolo tanto nell’una quanto nell’altra. L’aspetto fisico è nelle loro rispettive ricadute. Sia l’arte che la scienza sono forme di comprensione e di utilizzazione del mondo».
Non diversamente dal diritto, dalla filosofia, dalla religione.
« Certo, ma in più l’arte e la scienza hanno in comune la sperimentazione. Da questo punto di vista, Pollock non è poi così distante dai teorici del Big Bang e Turing che ridusse l’esperienza a calcolo non era tanto diverso da Rothko che ridusse le immagini ai colori. È questa sorta di familiarità che mi ha convinto a creare qui, in questo spazio che è l’Opificio, un padiglione dedicato ad arte e scienza».
L’opificio è nato nel 2015.
«L’idea mi venne nella seconda metà degli anni Ottanta. Partivo da una constatazione abbastanza semplice: cosa si può fare per un paese le cui grandi potenzialità di crescita sono inficiate dal basso respiro economico e culturale? Ma soprattutto: cosa posso fare io che ho guadagnato tanto? Come posso investire parte di quei profitti che ho realizzato in un’impresa no profit? Ho messo i soldi. Tanti. Ma i soldi non bastano. Ci volevano le persone, e soprattutto la chiarezza di un progetto attorno a cui far crescere la Fondazione. Così è nata “Opus 2065″».
Di che si tratta?
«Quando è sorto l’Opificio ci siamo chiesti: come saremo tra cinquant’anni? A quali trasformazioni reali andrà incontro la nostra società e il mondo che la ricomprende? Che tipo di tecnologie adotteremo? Come cambierà il lavoro? E che idea di felicità saremo in grado di immaginare?».
Sono le domande che di solito si è posto il pensiero utopico?
«Mi rifiuto di pensare che realizzeremo il bene assoluto o il paradiso in terra. Per un laico sono obiettivi senza senso. Oltretutto, la storia ha smentito anche in modo tragico quella impostazione. E tuttavia una dose di pensiero utopico ci aiuta a immaginare il nostro futuro. Abbiamo creato un contenitore che raccoglie le idee per le nuove start up, abbiamo creato una rete che ha al centro i modi dell’apprendimento».
Cosa vuol dire?
« L’apprendimento non può essere visto come un’esperienza astratta. Individuati i contesti — la scuola certo, ma anche l’impresa, il museo, il laboratorio, il cinema, i media — vanno messe a punto le connessioni tra di loro. E non si tratta più o solamente di accesso alla conoscenza ma di mettere in pratica il principio che si impara imparando».
Sembra una tautologia.
«È il segreto della crescita virtuosa di una società. Tanto semplice da pronunciare quanto difficile da realizzare. Ma se non ci provi, se non imposti, se non passi dalle idee generali all’impegno concreto qualunque discorso sul futuro perde di credibilità».
Il suo come lo immagina?
« È chiaro che pensare al mio futuro potrebbe suonare come la velleità senile di un vecchio egoista. Non potrò certo dire come sarò tra cinquant’anni. Forse solo una targhetta. Ma ho la convinzione che la fine è soltanto un capitolo della nostra storia. Mi sorprendo ancora adesso nel sapere che è in nostro potere cambiare la qualità della vita. Sia in peggio che in meglio. Dipende da noi. Anche se questo “noi” sta prendendo forme che non mi piacciono, perché rinuncia alle competenze, all’apporto individuale alla conoscenza. Questo non significa deprimere il valore dell’intelligenza collettiva, solo è necessario trovare un equilibrio più avanzato».
Quanto avanzato?
«Fino al punto di pensare alla vita come a un algoritmo in una rete formata da buchi. Il nostro compito non è quello di eliminare i buchi ma connetterli. È lì che può agire il nostro libero arbitrio. La nostra coscienza. Qualche tempo fa leggevo il libro di Harari
Homo Deus.
Un’esperienza meravigliosa che ci parla del futuro e anche dei pericoli che vi si nascondono. Se si vuole una crescita infinita occorreranno progetti infiniti. Più semplice a dirlo, certo. Ma per quanto mi riguarda ho fatto la mia parte».
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Una degna figura di uomo, di intellettuale, di lavoratore e di filantropo: la sua vicenda umana è intessuta di realtà e di speranza.