YASCHA MOUNK, nasce a Monaco nel 1982, è un politologo tedesco naturalizzato americano; è figlio di una ebrea polacca che ha avuto il permesso di lasciare la Polonia nel 1969 a causa delle persecuzioni contro gli ebrei sotto il regime comunista. A causa di queste esperienze, pur essendo nato in Germania e parlando il tedesco, non si è mai sentito accettato dai suoi pari come ” un vero tedesco “. A tredici anni si è iscritto alla SPD, ma la lascia nel 2015 con una lettera aperta al presidente Sigmar Gabriel dove, oltre alla mancanza di aiuti delle istituzioni tedesche ai rifugiati, denuncia la passività dei leaders della SPD nella guerra di Crimea del 2014 e il tradimento dell’ideale socialdemocratico di un’Europa unita verso la Grecia. In una intervista al ” Suddeutsche Zeitung ” nel febbraio 2018, dichiara di aver cambiato idea sul nazionalismo che prima considerava un relitto del passato da superare, ma ora pensa ad un nazionalismo inclusivo per far fronte alla minaccia del nazionalismo aggressivo. In un’altra intervista affermò di vedere la Germania in un difficile passaggio tra una democrazia mono-etnica e monocultura in una democrazia multietnica. La soluzione del problema che ci troviamo di fronte è adottare la domanda populista dei popoli che vogliano avere il controllo sulle proprie vite e il proprio destino.
Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettoraleCopertina flessibile – 10 mag 2018
di
feltrinelli, 2018–euro 18–15,30 online
Quarta di copertina
Negli ultimi anni sembra che la politica abbia subito un’inquietante accelerazione. Nei paesi in cui l’adesione di tutti i cittadini al sistema di valori della democrazia era considerata un’ovvietà, il consenso per i partiti di estrema destra e per i populismi aumenta a ogni tornata elettorale. Per di più, la degenerazione del discorso politico è sopravvissuta alla fine della crisi economica. In Europa e negli Stati Uniti, infatti, sono chiari i segni della ripresa, eppure la richiesta di costruire muri, di respingere i flussi migratori e di ripristinare misure protezionistiche è sempre più forte. Il legame tra liberalismo e democrazia, spiega Yascha Mounk, non è più indissolubile come pensavamo. Siamo entrati in una nuova era, con la quale chi crede ancora nella sovranità del popolo dovrà fare i conti. In Italia il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Matteo Salvini stanno cambiando gli equilibri della politica e le regole della partecipazione alla vita pubblica. Nel frattempo, l’elezione di Donald Trump dimostra che la divaricazione della cultura dei diritti dal sistema della partecipazione democratica è possibile. Mentre le istituzioni si riempiono di milionari e tecnocrati, i cittadini conservano i propri diritti civili e le proprie libertà economiche, ma vengono esclusi dalla vita politica. D’altra parte, il successo di Orbán in Ungheria, di Erdogan in Turchia e di Kurz in Austria è il segno di una democrazia che si priva sempre più della capacità di garantire diritti ai propri cittadini, trasformandosi in una tirannia della maggioranza. Mounk appartiene a una nuova generazione di pensatori e con questo saggio offre un paradigma tempestivo ed efficace in grado di fare chiarezza sul futuro della democrazia, e dunque della nostra vita come cittadini. “Ci sono lunghi decenni in cui la storia sembra rallentare fin quasi a fermarsi. E poi ci sono quegli anni brevissimi in cui tutto cambia di colpo. Un sistema di governo ritenuto immutabile sembra sul punto di collassare…
LINKIESTA.IT –12/05/2018
Yascha Mounk: «Il populismo fa paura, ma nel lungo periodo la democrazia prevarrà»
Autore del saggio “Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, il teorico politico Yascha Mounk si dice molto preoccupato per l’ascesa dei populismi, che sul breve periodo potrebbero anche far crollare il nostro sistema democratico, ma sul lungo periodo la democrazia vincerà
Andrea Coccia (NOTIZIE IN FONDO)
Negli ultimi quindici anni, dopo una delle più lunghe e complesse crisi del mondo occidentale, le democrazie liberali stanno iniziando a scricchiolare sotto il peso della rabbia, della frustrazione e della delusione delle loro cittadinanze, ma soprattutto dei movimenti politici populisti che prima hanno soffiato sul fuoco di questa rabbia e ora la cavalcano. E quello che fino a qualche decennio fa era impensabile, il crollo del sistema politico su cui l’Occidente ha costruito la propria identità novecentesca, diventa di giorno in giorno più realistico. In “Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, edito da Feltrinelli, il teorico politico Yascha Mounk ha analizzato la situazione e si dice decisamente preoccupato per l’ascesa al potere dei populismi anche in Italia, paese in cui ha vissuto e che conosce molto bene, ma nonostante il pessimismo della ragione che lo spinge a credere che nel breve termine molte democrazie rischiano di collassare riesce a continuare a serbare un ottimismo granitico sul futuro, perché, sul lungo periodo, la democrazia prevarrà.
C’è un dove e un quando in cui si è rotto qualcosa tra il popolo e la democrazia?
Prima di tutto direi che la rottura di cui parli, che effettivamente c’è stata, non è stato un fatto, un punto preciso, ma un processo. Una delle ragioni per cui la gente si fidava della democrazia era il grande boom economico del dopoguerra, soprattutto in Italia, dove questo è coinciso con il primo momento in cui la democrazia appariva realmente stabile, e lo stesso in Francia, Germania e in molti altri paesi d’Europa. Negli ultimi trent’anni la gente invece non ha più l’impressione che il futuro sarà migliore del passato. Quindi, non c’è stato un momento in cui la gente ha pensato, da un giorno all’altro, che la democrazia non gli potesse più dare risposte, ma c’è una nuova generazione di cittadini che, guardandosi indietro, non si dice più “Oggi sto molto meglio di prima”. E quando non vedi più gli aspetti positivi del sistema, quando vedi — come in Italia — che un leader dopo l’altro non riesce a rispettare le promesse e che la classe dirigente si comporta in maniera oserei dire pessima, allora è normale che inizia a pensare di provare qualcosa di nuovo rispetto alla democrazia.
Democrazia viene dall’unione di due parole Demos e Crazia. Tu ora mi hai parlato di un problema della Crazia, ovvero del potere, che ha deluso le aspettative della gente. Ma la gente, il Demos, non ha la sua parte di colpe?
Il nostro sistema politico è la democrazia liberale e si regge su due aspetti fondamentali: la libertà individuale e l’idea che il popolo governi, ovvero che la gente possa avere un’influenza sulla politica. Secondo me è da un po’ di tempo che questo non è più vero. La colpa della gente forse è stata quella di pensare che tutto fosse garantito, che non ci fosse più bisogno di sorvegliare il sistema, di difendere le proprie libertà e i propri diritti.
Come si fa, se si può, a ristabilire questo contatto tra democrazia e popolo?
Ci sono delle cose che si possono fare. Bisogna riuscire a rendere la politica meno corrotta, rendere più difficile per le aziende, ma anche per le mafie, influenzare la politica. Ma c’è anche un problema più profondo: il nostro mondo è diventato molto più complicato negli ultimi trent’anni. Un paese come l’Italia ha bisogno di coordinare le proprie azioni con altri paesi, ha bisogno di tecnici per assicurarsi che le infrastrutture funzionino, per esempio, ma anche di esperti per affrontare problemi come il riscaldamento climatico. Questo è un problema: come coinvolgere questi esperti nel governo e come coordinarsi con le decisioni di altri paesi senza dare alla gente l’impressione di non avere più influenza sulle decisioni politiche. Questo è un dilemma che io descrivo nel mio libro e che è molto più profondo di quanto la maggioranza dei cittadini, ma anche dei politici, ha capito finora.
Se il fattore tecnico, come dici tu, sta diventando sempre più necessario, che fine fa il libero arbitrio insito nella scelta politica?
Io credo che esistano ancora delle scelte, anche sul piano che chiamiamo “tecnico”. La grande missione delle forze più moderate in politica è proprio questa, dimostrare che anche tenendo conto di questi elementi si possa attuare un cambiamento vero, perché ci sono tantissime cose che si possono e si devono fare, da una riforma fiscale che smetta di favorire i ricchi e che combatta l’evasione, possiamo cambiare le regole che rendono difficile edificare in posti dove ci sarebbe la possibilità economica di farlo. Questi sono solo due esempi, ma ti dimostrano come ci siano tante scelte possibili e che avrebbero un grande impatto sulla vita delle gente che non sono per forza posizioni ideologiche populiste come uscire dall’euro o impedire lo sbarco dei migranti.
Eppure però, quantomeno in Italia, l’agenda politica è piena di questi temi ed è poverissima di proposte concrete. È lo scacco matto del populismo?
Partiamo dal presupposto che chi urla slogan e vuole distruggere ha sempre vita più facile politicamente di chi invece vuole ragionare e costruire. L’alternativa è difficile, significa avere una narrativa chiara di quali siano i problemi del paese e avere delle idee ambiziose per risolverli. In questo momento in Italia ci sono tantissimi problemi, e di conseguenza anche tantissime proposte che i partiti politici potrebbero fare. L’idea che non ci sono alternative e che le narrazione dei populismi siano imbattibili io credo che sia falsa, non ci credo. Quello che credo è che semplicemente nessuna forza politica moderata abbia ancora avuto il coraggio di porsiVorrei vedere un partito in Italia che prova a farlo, poi vediamo se è troppo tardi o no.
Come mai un partito come il Partito Democratico, la cui narrativa è quella del riformismo, del progressismo, dell’innovazione, non sta riuscendo a porsi in modo credibile come elemento di cambiamento radicale? È un problema di paura, di classe dirigente o di che altro?
Di tutte e due. È un problema di paura; è un problema di convenzioni che portano i partiti moderati a credere di poter andare avanti semplicemente proponendosi come conservatori dello status quo; è un problema certamente di classe dirigente; ma tante volte è anche un problema di una gerontocrazia che in Italia, ed è ovvio che un politico di ottant’anni non potrà mai essere un elemento di innovazione. C’è bisogno di partiti moderati guidati da persone più giovani, di alto livello, che abbiano il coraggio di difendere i propri valori, ma al contempo, di immaginare come questi valori si possono difendere nel futuro.
Sempre parlando di classe dirigente, in Italia da quando esiste la democrazia le classi sociali si sono sempre formate attraverso i conflitti: la seconda guerra mondiale, prima, e il Sessantotto e gli anni del terrorismo. Negli ultimi vent’anni, soprattutto da sinistra, il conflitto è stato stigmatizzato ed evitato ad ogni costo. Ha un ruolo questa dinamica nel mancato rinnovo della classe dirigente?
Sicuramente i momenti di conflitto sono quelli in cui i paesi e i popoli hanno la possibilità di rinnovarsi con più facilità. Certo, sono stati conflitti talmente violenti che mi fa paura pensare che siano necessari per rinnovare la classe dirigente. Però devo dire che sento provenire da tanta gente il desiderio di un momento che sparigli le carte, un conflitto che riazzeri le cose e ci permetta di ripartire, perché quando tutto va così male un grande conflitto è anche una grande opportunità. Ma non dimentichiamoci che oltre ad aver già perso qualcosa, abbiamo ancora tanto da perdere. Devo dire che mi fa un po’ paura sia che la gente si sia dimenticata di quando la democrazia funzionava, sia di quanto abbiamo da perdere nel lasciare campo a forze populiste e irresponsabili.
Quanto sta pesando l’ignoranza della cittadinanza nell’ascesa di queste forze?
Il cosiddetto fenomeno delle fake news, che esiste in realtà da sempre, fa certamente male alla vita politica, perché una popolazione disinformata e che crede a qualsiasi cosa, trascinata dal flusso incontrastato di informazioni che trova in rete o sui social network è difficile che sia in grado di prender decisioni razionali. È chiaro che però non conta soltanto l’ignoranza nel all’allargarsi del consenso di queste forze, ma anche la rabbia, la frustrazione, la delusione, e la sensazione che la classe dirigente se ne stia fregando dei cittadini e che sia lì a tutelare altri interessi. Se poi sommiamo anche la trasformazione epocale che il mondo sta vivendo negli ultimi decenni, trasformandosi da monoculturale, monoetnico e monoreligioso a multiculturale, multietnico e multireligioso, ed è un cambiamento che frastorna molta gente. Quindi direi che ognuno di questi elementi è decisivo, ma è il mix che diventa un cocktail molotov pericolosissimo.
Cosa pensi che verrà fuori da questo governo, se si riuscirà a fare, che vede l’alleanza tra due populismi così diversi come Lega e Movimento 5 Stelle? Quanto dobbiamo averne paura?
Molto, dobbiamo averne molta paura. Ma questa alleanza dimostra anche una cosa importante, ovvero che nei populismi più dei contenuti, che spesso sono assenti, conta l’atteggiamento politico e nel poco rispetto per le istituzioni democratiche e per la politica tradizionale. È vero, Lega e 5 Stelle sono populismi che per molti aspetti sono diametralmente opposti, eppure sono molto simili su altro.
Per esempio?
Hanno in comune un’ostilità contro la democrazia rappresentativa, hanno in comune l’abitudine di dire alla gente che loro sono in grado di cambiare tutto e per il meglio, ma, ancora di più, hanno in comune l’idea che solo loro sono legittimi e tutti quelli che si oppongono, solo per quello, sono illegittimi e corrotti.
Un governo di questo tipo, che non è dunque molto coerente a livello politico-ideologico, che cosa farà?
Il problema in realtà si porrà subito, alla prima difficoltà andranno in cerca di nemici, magari i media, l’Unione Europea, i migranti. Questo mi fa paura, perché per stabilizzare questo governo temo che dovranno diventare più radicali e si è visto, per esempio in Polonia, un paese tendenzialmente molto filo europeo, dove però si è affermato un governo molto anti europeo e anti immigrazione.
Quale sarà invece il ruolo di quel che resta della sinistra?
Personalmente io troverei molto difficile entrare in un governo con il Movimento 5 Stelle, prima di tutto perché non è chiaro come funzioni il movimento al suo interno, come non è chiaro chi siano, in fondo. Entrare in coalizione con loro è un po’ un salto nel buio. In ogni caso, io credo che di possibilità positive non ce ne fossero, nel senso che in un contesto in cui le forze populiste prendono 2/3 dei voti è ovvio che sul breve termine i margini di movimento per il PD sono pochi. Io non so cosa avrei fatto, quello che so è che il vero problema, più che la scelta del PD, è la condizione in cui versa l’Italia. Ora il PD deve riformarsi, deve opporsi a tutti i tentativi di indebolire lo stato di legge e la separazione di potere e deve formulare un programma politico chiaro che mostri che una politica moderata ma di cambiamento è in grado di migliorare la vita della gente. Alla fine solo un movimento ottimista può vincere contro i populismi.
Dopo tutti questi discorsi riesci ad essere ancora ottimista?
In verità sono abbastanza pessimista sul breve termine, nel senso che le democrazie liberali sono realmente in crisi e in pericolo, ma se penso al lungo termine in fondo sono ottimista. Dopo venti o trent’anni di populismo la gente vedrà i risultati terrificanti, si renderà conto di tutto quello che avrà perso e lotterà per riprenderselo. Certo, sarebbe meglio non passarci in una fase di crollo del sistema democratico, ma se anche succedesse, io sono convinto che alla lunga, anche se fosse tra cent’anni, la democrazia avrà la meglio.
Andrea Coccia
Giornalista pubblicista, nato il 15 dicembre 1982 a Milano. Ha fondato nel gennaio del 2015 il progetto Slow News insieme a Alberto Puliafito, Alessandro Diegoli, Gabriele Ferraresi e Andrea Spinelli Barrile. Ha fondato la rivista letteraria El Aleph, ha scritto di libri su Booksblog, Grazia e Saturno (Il Fatto Quotidiano) e di un po’ di tutto su ilPost.it. È stato redattore della rivista di satira sociale L’antitempo (Premio Satira Forte dei Marmi 2013) e dal 2010 fa parte del collettivo omonimo. Tifa Inter, ha due malattie che si chiamano Jorge Luis Borges e Sergio Leone e ogni tanto si sente un po’ Billy the Kid.