REPUBBLICA.IT –22/ 11/ 2017
Migranti, la psicoterapia ai tempi degli sbarchi
Gli immigrati che arrivano nel nostro paese possono vivere situazioni di disagio mentale che si accompagnano a volte a disturbi del comportamento post-traumatico. Adottare nuove strategie per aiutare chi ne soffre è la sfida di alcuni ambulatori e centri di accoglienza
di SARA PERO
UN ex-guerrigliero congolese portato al Policlinico Umberto I di Roma mentre tentava di entrare nella piramide Cestia. Credeva di risiedere lì in quanto faraone con poteri speciali. O un paziente indiano, un sikh, convinto di essere spiato dalla propria comunità, con telecamere nascoste nel muro, Volevano ucciderlo. Storie di disagio mentale. Migranti che dopo aver abbandonato il proprio paese, la propria casa, si ammalano. Sono alcune delle esperienze raccontate da Lorenzo Tarsitani, psichiatra e coordinatore dell’Ambulatorio di psichiatria delle migrazioni del dipartimento di neuroscienze e salute mentale del Policlinico Umberto I di Roma, che da anni si occupa di questo ambito. La relazione tra migrazione e disturbi comportamentali non è una regola ferrea che non conosce eccezioni. Molti fattori di rischio, infatti, concorrono al manifestarsi delle patologie mentali: dipende dalla gravità dell’evento vissuto, dai traumi subiti e in parte anche dal grado di fragilità personale. “Sono per lo più giovani, uomini e donne in proporzione uguale, a rivolgersi al nostro ambulatorio – spiega Tarsitani – ed è proprio questa fascia d’età quella più colpita dai disturbi psichiatrici più gravi perché solitamente lo scompenso psicotico avviene poco dopo l’arrivo in Italia. Per alcuni di loro la migrazione è stata particolarmente stressante o traumatica ed è durata anche anni: c’è chi ha attraversato il deserto del Sahara per poi affrontare la traversata via mare fin qui o chi dall’India è venuto via terra”.
Si va da migranti che scelgono un posto diverso in cui vivere per ragioni socio-economiche a chi è costretto a farlo per motivi religiosi, razziali o politici, e a chi cerca altrove una nuova opportunità perché guerra, fame e povertà hanno invaso la propria terra. Spesso i migranti sono vittime di trafficanti e di viaggi in mare aperto strazianti, fatti in condizioni igienico-sanitarie che lasciano a desiderare, con il minimo indispensabile dietro perché lo spazio per la traversata è poco. Poi c’è lo sforzo ad adattarsi alla nuova struttura sociale e culturale, che non è comunque roba da poco. Senza contare chi è partito solo, senza la propria famiglia, che spesse volte non sente da tempo.
“L’ambulatorio in cui opero – spiega Tarsitani – è nato otto anni fa per seguire quei pazienti migranti, specialmente migranti economici e richiedenti asilo, per i quali era necessario un intervento specialistico clinico o farmacologico, dopo un ricovero nel reparto di psichiatria d’urgenza. Nel tempo abbiamo creato un’ampia rete che coinvolge numerosi centri di accoglienza presenti nel territorio e la Caritas, dai quali spesso queste persone ci vengono inviate. In caso di bisogni più articolati, abbiamo contatti con altri centri clinici e di psicoterapia specializzati nei quali inviamo i migranti che presentano disturbi complessi”.
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LA RELAZIONE TRA MIGRAZIONE E DISTURBI COMPORTAMENTALI
Alcune evidenze scientifiche degli ultimi anni hanno mostrato un aumentato rischio di disturbi mentali e psicosi tra richiedenti asilo e migranti forzati – sia di prima che di seconda generazione – di due volte superiore rispetto ai nativi, una conferma di quanto il processo migratorio possa rappresentare un rilevante fattore di rischio. “Un problema nella cura dei migranti è anche l’accesso più difficile ai servizi sanitari, dovuti soprattutto a barriere sociali, linguistiche e culturali. Molti di loro, ad esempio – puntualizza Tarsitani – parlano benissimo inglese e francese, ma in Italia abbiamo una scarsa conoscenza di queste lingue. Poi c’è il problema culturale che non deve essere sottovalutato. Spesso sono spaesati, vedono il medico come se fosse l’istituzione che deciderà di accoglierli nel Paese o meno, e per questo sono diffidenti, si aprono poco al dialogo. Per questo è anche fondamentale la figura del mediatore, sia linguistico che culturale, ed è sempre più necessario per la figura dell’operatore, medico e psicologo, avere un approccio transculturale: se non si riescono ad avere informazioni sulla loro cultura o sulla loro storia, diventa difficile instaurare una relazione adeguata ed eseguire un trattamento efficace”.
Verso una cultura dell’incontro. Studi per una terapia transculturale
Alfredo Ancora
Editore: Franco Angeli
Formato: PDF con DRM
Testo in italiano
Cloud: Sì Scopri di più
Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
Dimensioni: 5,84 MB
- Pagine della versione a stampa: 306 p.
- 25 EURO DA IBS–PREZZO FRANCO ANGELI, 36 EURO
L’IMPORTANZA DELL’APPROCCIO TRANSCULTURALE
Operatori, psicologi, infermieri, medici hanno a che fare dunque anche con individui che presentano problematiche comportamentali molto importanti: saperli accogliere e ascoltare con un approccio transculturale potrebbe essere di estremo aiuto. “L’approccio transculturale – spiega Alfredo Ancora, psichiatra e psicoterapeuta, autore del libro Verso una cultura dell’incontro. Studi per una terapia transculturale (Franco Angeli Editore) – che propongo nel libro viene fuori da un discorso teorico-pratico, da un’esperienza di psicoterapia di gruppo transculturale durata due anni, inizialmente incentrata su pazienti stranieri, e poi estesa anche agli italiani. Abbiamo cercato di evidenziare l’importanza della dimensione non individuale nella terapia, indispensabile sia per i fruitori che per gli operatori. La dimensione di gruppo, infatti, è più vicina alla cultura di molti migranti, abituati a vivere in un contesto meno “individualista” del nostro del nostro. In questo modo i partecipanti riescono a raccontarsi meglio, in modo più naturale e spontaneo. Ricordo di un ragazzo afghano che durante l’incontro aveva pianto ininterrottamente per 10 minuti, ringraziandoci, in seguito, per averlo lasciato esprimere senza chiedere nulla, in piena libertà espressiva”.
E poi, c’è la figura dell’operatore che dovrebbe rinnovarsi, in vista di una società in cambiamento: “Nei servizi di accoglienza, il numero degli operatori è sempre più ridotto e spesso quelli impegnati con i migranti possono andare incontro a un senso di scoraggiamento. Perché – continua lo psichiatra – non dobbiamo dimenticare il fatto che molte delle loro storie sono davvero drammatiche e l’operatore spesse volte non ha strumenti sufficienti per venirne a capo e assorbe per osmosi le stesse sensazioni provate dal migrante. Ma la transculturalità nel senso di ‘attraversamento di culture’, come spiegato nel libro, sarà il futuro, per tale motivo bisogna formare un operatore ‘di confine’, esperto non soltanto di un pensiero teorico-pratico che abbia anche un background culturale e religioso vasto, così da comprendere la nuova persona da ‘soccorrere’. Bisognerebbe che gli incontri di psicoterapia di gruppo transculturale avessero la possibilità di essere più diffusi nei servizi psichiatrici. Per questi motivi è stata fatta la scelta di presentato questo libro soprattutto nei centri di accoglienza e comunità perché sono questi i luoghi dai quali si può partire per parlare in termini concreti di tali problematiche”.
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